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Robledo – Broken Soul – Recensione

19 Settembre 2023 0 Commenti Paolo Paganini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Seconda prova solista per il singer cileno James Robledo coadiuvato per l’occasione dal valido chitarrista Nasson dal bassista Alex Jensen e dal nostro Jacopo Martignoni alla batteria. Ad occuparsi delle tastiere e soprattutto della produzione il prezzemolino dell’hard rock targato Italia l’immenso Alex Del Vecchio.

Diciamo subito che in un mercato super inflazionato di uscite più meno valide il presente Broken Soul non spicca certo per originalità. Delle undici tracce presenti infatti ben poche colpiscono e per molte di esse si avverte la sensazione di ripetitività che certo non giova alla buona riuscita di questo lavoro. La partenza è data dalla title track, nonché primo singolo estratto, certamente un buon pezzo di hard rock melodico su cui la bella voce di James si esprime alla perfezione. Già dalla seguente Real World si intuisce che non dovremmo aspettarci grandi sorprese e la conferma arriva con la seguente Righ Now, Right Here che pur risultando un pezzo abbastanza riuscito non si discosta di un millimetro da quanto giù ascoltato. Le cose non migliorano col passare delle tracce e da qui alla fine possiamo apprezzare giusto la power ballad Run And Hide e la conclusiva To The End.

Un disco che strappa una sufficienza abbondante, ma che sicuramente non lascia il segno e non ci stimola più di tanto a reiterare gli ascolti.

Electric Boys – Grand Explosivos – Recensione

14 Settembre 2023 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Mighty Music

Se l’Hard Rock fosse (e in parte lo è) questione di punti di vista, o di ascolto, gli Electric Boys rappresenterebbero quella risposta che ciascuno di noi si è ritrovato a ripetere in alcune circostanze : ”sai, non ci avevo pensato” come a sottolineare l’ampiamento dei nostri orizzonti in favore di una veduta meno conservatrice e più composita.

Svedesi, nati sul finire degli anni 80 con la volontà di differenziarsi dalle proposte di sicuro successo commerciale dell’epoca, lontani dal massiccio uso di tastiere e da soluzioni stilistiche al limite del pop, sin dagli albori il quartetto di Stoccolma fece della fusione di ritmiche Funky miscelate a suoni Glam il proprio marchio di fabbrica. E con l’album di debutto, ‘Funk-O-Metal Carpet Ride’, le cose andarono piuttosto bene; ottime vendite in Europa, specie in Gran Bretagna, ed inserimento nel mercato statunitense con 5 dei brani raffinati niente di meno che da Bob Rock. In seguito all’arrivo del grunge, come il 99% dei colleghi più o meno illustri, gli Electric Boys si sciolsero salvo riformarsi nel 2009 in line up originale e ripartire a produrre nuova musica con buona costanza in termini di quantità e qualità.

Ad oggi della line up originale sono rimasti Conny Bloom alla voce e alla seconda chitarra e il bassista Andy Christell, per il qui presentato “Grand Explosivos” ottavo disco in studio prodotto dalla Mighty Music. Ignorando gli anni che passano, la miscela di funky e hard rock sporco, grezzo, ruvido come la carta vetrata, è ancora tra noi, a sottolineare il concetto che per quanto il rock sia un termine ed un genere ad oggi abusato, violentato e ahimè bistrattato, non potrà mai dirsi esausto e spacciato anche quando dalle nuove leve verrà considerato anacronistico.
Composto ad Ottobre del 2022 a Palma de Maiorca, a partire dall’esplicita opener “When Life Treats You Funcky”, il duo Bloom/Christell coadiuvati da Martin Thomander alla chitarra e Jolle Atlagic alle pelli, confermano i propri intenti ora come 35 anni fa. Riff di chitarra sporcati da blues di sigarette e whiskey, seguiti da una linea vocale riuscita e facilmente memorizzabile. Il disco suona compatto con una qualità media superiore alle produzioni contemporanee; Non mancano ritornelli catchy come in “Domestic Blitz” e “Karma’s Gonna Get You” o arrangiamenti ad alto tasso seduttivo (vedi “I’ve Got a Feelin’”); trame chitarristiche degne del miglior glam (“Missed Her By a Name”) e assoli ispirati dallo street, dal gusto melodico ricercato (“Better Safe than Sober”).

Gli Electric Boys indossano un’essenza difficilmente replicabile; artisticamente posizionabili tra gli Aerosmith meno ripuliti e i Quireboys più ispirati. Consigliato agli amanti della musica privi di paraorecchie, alla ricerca di piacevoli, vecchie, nuove, vecchie, nuove… avventure.

Vega – Battlelines – Recensione

08 Settembre 2023 6 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Al primo ascolto “Battlelines” è una cocente delusione. La logica conseguenza e prosecuzione dei precedenti due lavori a marchio Vega, troppo uniformati allo stilema Eclipse/Frontiers, senza picchi emozionali e dall’aspetto monolitico. Ma se fingiamo che i capolavori “Kiss Of Life”, “What the hell” e “Who We Are” siano stati composti e suonati da un’altra band e riascoltiamo da capo l’album ancora ed ancora , alla fine ci troviamo a cogliere un seppur minimo passo avanti a livello compositivo. Maggiore differenziazione tra pezzo e pezzo ed uso di linee vocali meno scontate riescono a fatica ad emergere da una produzione che purtroppo tende ad appiattire oltremodo i suoni. E così scopriamo che “Heroes and zeroes” non va poi così male come opener e che il coro anthemico alla fine si lascia anche canticchiare. Cosa che non succede per l’anonima “Killers”, ma che si ripete per la titletrack, canonica ma aggraziata. Imbellettata di tastiere, “Love to hate you” ripropone un refrain che sa di trito e ritrito, ma brutto non è. L’amosferica “Don’t let them see you bleed” getta le proprie radici nel glorioso passato della band. “Embrace the gray” tiene fede al titolo rappresentando il lato più oscuro dell’intero lavoro. “33’s and 45’s” le fa da contraltare risultando in assoluto il pezzo più catchy ed anche il più gradevole del lotto. Viene il turno della vagamente leppardiana “Into the fire”, assolutamente godibile dall’inizio alla fine. Tempo spedito per “Run with me”, non particolarmente originale. Poco convincenti anche “Not enough” e la quasi punkeggiante “God save the king”. Piace, invece, la conclusiva “Gotta be you” soprattutto per il ritornello martellante.

Tirando le somme, da un gruppo che io valuto di primo livello mi aspettavo, anzi, pretendevo qualcosa di più. Su quest’album ci sono ancora troppi riff che si somigliano. C’è una produzione non degna del calibro della band ma, soprattutto, non ci sono pezzi che spaccano come succedeva in passato. Per me i Vega sono quelli che ho visto sul palco dell’ultimo H.E.A.T. festival del 2019 a suonare “White flag”, “Stereo Messiah” , “Kiss of life”. E sotto il palco, in mezzo a noi spettatori, a vedere le altre band esibirsi. Punto.

Blackbird Angels – Solsorte – Recensione

08 Settembre 2023 2 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers Records

Nasce il nuovo progetto musicale Blackbird Angels dalla collaborazione e amicizia del chitarrista Tracii Guns (il quale non ha bisogno di presentazioni) e dal cantante e bassista Todd Kerns (Slash, Toque, Heroes And Monsters). A loro si aggiunge il batterista e produttore Adam Hamilton per il primo disco Solsorte, uscito sotto Frontiers Records.
L’idea di Todd e Tracii è sempre stata di collaborare per registrare un disco dedicato ed ispirato ai loro idoli musicali da adolescenti: Bad Company su tutti, ma anche Journey, Led Zeppelin e Peter Frampton. Il sound infatti è molto derivato dagli anni ’70 con influenze blues e una chiara matrice Hard Rock.

L’opener Shut Up(You Know I Love You) è dettata da un gran riff e la chitarra ruvida e settantiana dove la voce di Kerns è roca al punto giusto ed entra subito nel sound del disco.
Mine (All Mine) vira più verso i Led Zeppelin, in chiave più moderna, con la chitarra iniziale che duetta con la batteria, mentre Worth The Wait parte lenta con una chitarra acustica e la voce calda di Kerns per poi col suo lento incedere esplodere in un rock roccioso. Coming In Hot è funky, allegra, veloce e arriva dritta in testa, qui forse troviamo qualcosa dei primi Aerosmith, un assolo del miglior Tracii Guns e la canzone è promossa!
On And On Over And Over è la prima ballad, la chitarra effettata col suo giro ipnotizzante che arriva ad un solo da manuale, sembra di essere tornati indietro di 40 anni…..
Only Everything ha un riff iniziale potente e veloce, la linea vocale con filtri ed effetti dove Kerns si trova a proprio agio e sprigiona energia pura. Broken In Two mischia Led Zeppelin e Bad Company, mentre la successiva Better Than This rallenta il ritmo mantenendo classe e vira su un sound più AoR, con le tastiere in sottofondo e le voci che si sovrappongono, buona song. Unbroken è il classico “Pugno nello Stomaco” che non ti aspetti, una batteria impazzita iniziale la chitarra che sprigiona accordi, rotolante, potente e sicuramente la canzone col sound più moderno del lotto senza perdere il suo Hard Rock di fondo. The Last Song è la seconda ballad, stavolta un arpeggio di chitarra apre le danze, le keys da tappeto, i Lynyrd Skynyrd che veleggiano nell’aria la parte cantanta sofferta e un Tracii Guns sugli scudi, davvero una bellissima canzone…si finisce con Scream Bloody Murder, col basso rotolante di Tedd Kerns e un ritornello quasi urlato e stonato chiude un buon disco con la sua allegria.

IN CONCLUSIONE:
Todd Kerns e Tracii Guns hanno voluto portarci nei grandi seventies e ci sono riusciti alla grande.
Un disco ben suonato con buone idee nel songwriting che regalerà 45 minuti di grande musica.

Tempt – Tempt – Recensione

07 Settembre 2023 9 Commenti Giulio B.

genere: Pop Rock/Melodic rock
anno: 2023
etichetta: Better Noise Music

Ritornano dopo ben sette anni gli americani Tempt, giovane band newyorkese con un curriculum che annovera, tra le altre, la vincita di un concorso, che permise loro di aprire alcuni concerti dei Bon Jovi, e ricevere l’apprezzamento dei Joe Elliott per la a bella cover di “Women” (link). L’album di debutto “Runaways”, prodotto da, udite udite, Michael Wagener e dall’artwork nero con il semplice nome della band in bianco, si contrasta oggi con la luminosa copertina pop dell’omonimo e nuovo album uscito a fine agosto tramite Better Noise music. Influenzati dalle grandi band degli anni Ottanta, una su tutte i Def Leppard di cui troviamo diverse cover in formato video. In tale direzione, il singolo “Living Dangerous”, lanciato ben due anni fa, con la partecipazione della brava Dorothy (link della recensione) ha un ritornello che abbraccia idealmente le canzoni di “Hysteria”, album imprescindibile della band inglese, come anche la frizzante “Camouflage” arricchita da una produzione e da un ritornello che si sposa alla perfezione con quanto detto sulla copertina.

Le coordinate di navigazione portano ad orizzonti “pop” in canzoni come la funky “Girl”, il recente singolo “Golden tongue”, la sofisticata “Sneakin Around”, un mix tra Goo Goo Dools e Dan Reed Network, e la coinvolgente “Roses”. In tutte queste canzoni si nota il lavoro in cabina di produzione del duo Chris Lord-Alge e Ted Jensen. Per tornare a navigare in acque più rock-oriented, ecco la piacevole “Hideaway” che trasuda del primo, spettacolare album dei Danger Danger, il bel singolo “Burn me down” dal facile appeal, mentre nell’iniziale “Welcome Me In” risiede preponderante il lavoro alla chitarra di Harrison Marcello, soprattutto in fase di refrain.

Maturati e con idee musicali diversificate rispetto all’esordio, i Tempt tornano con un gran bell’album, moderno e con attitudini orientate al facile approccio nel mercato musicale.

H.E.A.T. – Extra Force – Recensione

07 Settembre 2023 6 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Ear Music

Tempo di bilanci e celebrazioni per gli svedesi H.E.A.T. divenuti ormai una consolidata realtà all’interno del panorama rock melodico internazionale. Per l’occasione la band da alle stampe questa compilation contenente due brani inediti, nuove versioni di canzoni che vedono il ritorno di Leckermo dietro al microfono e una manciata di live tratti dal loro tour.

Partiamo dalle note positive; i due inediti sono di ottima fattura e ci restituiscono una band in grande spolvero e votata all’AOR di inizio carriera. La brillante Freedom ci riporta ai tempi dell’album Freedom Rock mentre la seguente Will You Be pur risultando apertamente ispirata a Is This Love dei Whitesnake ci fa pensare che la band abbia finalmente rimesso la barra a dritta ritrovando la grande ispirazione che ne aveva decretato il successo. Seguono quindi le nuove interpretazioni da parte dello straripante Leckermo di Rise e One By One. Discutibile (e a mio parere abbastanza inutile) riproporre ben tre tracce tratte dall’ultimo lavoro in studio risalente allo scorso anno. Discorso a parte per le canzoni dal vivo le quali mi permettono di fare una mia personale considerazione che sicuramente non troverà d’accordo molti dei nostri lettori. Per farla breve ho sempre considerato l’entrata in formazione di Erik Gronwall un toccasana per la band. Pur riconoscendo indubbie doti al buon Kenny la grinta e l’empatia che suscitava Erik sul palco erano un’altra cosa. Ho avuto occasione di vedere i nostri dal vivo anni fa in un loro concerto a Bologna e rimasi impressionato dalla carica e dal coinvolgimento che questo ragazzo riusciva a tramettere al pubblico, qualità che non vedo in Kenny. La differenza tra i due pare evidente soprattutto nell’interpretazione di Living On The Run che sotto le grinfie di Gronwall incendiava letteralmente la folla.

Mi auguro che il prossimo album in studio parta dalle solide basi poste dai primi due brani di questo disco e contemporaneamente che Erik risolva definitivamente i gravi problemi di salute che lo hanno colpito e che torni ad essere quel cavallo imbizzarrito che scalpitava come un pazzo sui palchi di mezzo mondo.

Rian – Wings – Recensione

07 Settembre 2023 1 Commento Vittorio Mortara

genere: Hard Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers

A volte ci sono album che rimbalzano per la redazione senza che nessuno ne consideri la recensione. Vuoi perché siamo tutti troppo presi ad accaparrarci i grossi nomi, vuoi perché ci sono periodi in cui le uscite si susseguono talmente rapide da non riuscire a stare dietro a tutte. A ‘sto giro è toccato a questo “Wings” degli svedesi Rian. E così il buon Samuele ha finito per appiopparmelo al mio ritorno dalle ferie… Intanto chiedo scusa a nome di tutti per il ritardo nella pubblicazione di queste righe rispetto all’uscita del disco. Soprattutto alla band, perché, almeno a giudizio di chi scrive, il nuovo lavoro dei cinque vichinghi non è affatto male. Il leader Richard Andemyr non possiede certo il timbro scultoreo di Mark Free né raggiunge ottave disumane negli acuti, ma è sempre composto e perfettamente adeguato al contesto. Il chitarrista Tobias Jacobsson è decisamente bravo alla solista e riesce a dare un tocco di class metal alle composizioni. L’esperto Erik Ragno presta le sue tastiere al cesello dei pezzi senza mai voler assurgere a protagonista e la sezione ritmica supporta adeguatamente brani che non richiedono funambolismi ma lavoro di squadra. Ne viene fuori un hard rock molto melodico, di stampo più mitteleuropeo che scandinavo. Al sottoscritto ricordano a tratti i Bonfire del masterpiece “Fireworks”, con le dovute proporzioni. I ritornelli sono ben congegnati e sanno dove colpire a livello emozionale. Tutto salta chiaramente all’occhio, anzi, all’orecchio già dal primo tris di brani: beccatevi la pungente solista di“Carry my wings”, il refrain piacione di “We ride” e le atmosfere più rarefatte dell’aoereggiante “Don’t wait for the fire”. Sugli scudi la buona interpretazione vocale di Andemyr per l’articolata “Dance the night away” prima che i ragazzi giochino a fare (troppo) i duri su “When the war is over”, pezzo poco riuscito. Fortunatamente il livello si rialza immediatamente con “Look at the stars”, chiaramente ispirata dai californiani Night Ranger, e la malinconica ballata “One in a million”. “Fly on the wind” punta tutto sull’americanissimo coro e sulle incursioni pungenti di Jacobsson e precede il terzetto di chiusura costituito dalle Bonfiriane “When you’re gone” e “Eternity”, inframmezzate dal gradevolissimo lento a la Bonjovi “The silence of our dreams”.

Cosa cercate da un album di hard rock? Ritmi dispari, tendenze prog? Questo disco non fa per voi. Contaminazioni e modernismi, originalità a tutti i costi? Non fa neppure per voi. Un’oretta di belle canzoni ben suonate e con il giusto tasso di adrenalina, per staccare dalla routine quotidiana o per tenervi compagnia in macchina mentre siete in coda in tangenziale? Questo è l’album per voi! Di gran lunga meglio di certe uscite di nome! Sentito e piaciuto.

Eclipse – Megalomanium – Recensione

31 Agosto 2023 9 Commenti Giulio B.

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Dopo “Armageddonize” non credevo di potere incappare in un titolo, di una singola parola, più complesso da enunciare; gli Eclipse, alla decima uscita discografica, riescono in questa impresa. Ecco, quindi, “Megalomanium” che esce il 01/09/2023, sempre tramite la nostra etichetta nazionale Frontiers; la ricetta musicale della band non cambia, condita da potenti chitarre e melodie ammiccanti, anche se la sensazione di ripetitività all’ascolto, sta diventando un boomerang.

Si parte però con il piede giusto; le prime tre canzoni denotano una rinnovata verve compositiva. Il primo singolo “The Hardest Part Is Losing You” ripercorre territori già attraversati ma il refrain è strutturato con perizia e da cantare a squarciagola; il successivo singolo “Got it!”, terzo in ordine di apparizione, ha il migliore ritornello dell’album con quegli intrecci vocali che lo rendono ben riconoscibile e distinguibile. Gran pezzo! Il trittico si completa con “Anthem” una canzone dal titolo esplicativo e dalla coralità contagiosa. Altra bomba che farebbe la gioia dell’“Oppenheimer” musicale di turno è la bellissima “The Broken” con una struttura fuori dagli schemi convenzionali: strofe cantate con una vocalità più ricercata, una batteria meno invasiva e un coro semplicemente atomico. Altra canzone con una diversa vocalità è “High Road”, mentre l’intro da “spaghetti western” di “Forgiven” riporta a galla lo stile presente in “Viva la Victoria”.

Fino a qui quasi nulla da eccepire; il boomerang menzionato prima però si vede “all’orizzonte” con canzoni come il singolo “Hearts collide” “I don’t get it” e “One step closer to you”, non brutte, anzi, ma che non si discostano da altri pezzi già sentiti in passato. A dirla tutta una canzone che si differenzia in maniera netta da quanto già ascoltato è “Children of the night” che potrebbe andare a braccetto con “Black rain” presenta in “Monumentum”, entrambe con un cupo incedere.

“Megalomanium” è un bell’album per chi si avvicina per la prima volta alla band di Erik Martesson, ma probabilmente per chi li conosce da tempo può essere paragonato alle recenti uscite discografiche meno “originali” e che, quindi, non arriva a toccare le vette astrali dei sopracitati “Armageddonize” e “Monumentun”.

Skagarack – Heart And Soul – Recensione

29 Agosto 2023 4 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR
anno: 2023
etichetta: Thunderstruck Records

Ritorno in sordina ma dal sapore affascinante quello del moniker Skagarack, band danese capace di unire AOR e Melodic Rock maturato nel secondo lustro degli anni 80 e di fornire lavori di assoluto valore, sfiorati dal successo europeo (ebbero ottimi riscontri di vendita tra Scandinavia e Germania ai tempi).
Della line-up storica (autrice dei primi 3 lavori in studio ) ritroviamo il cantante, chitarrista e leader Torben Schmidt (nel qui presente ‘Heart and Soul’ dietro a tastiere e basso) e il chitarrista Jan Petersen. Dei primi del mese corrente la notizia della morte del bassista originario Morten Munch, a cui possiamo immaginare sia stata dedicata l’uscita discografica. Interessante vedere in ruolo di guest Mattias IA Eklundh.
Un lavoro privo degli spunti geniali che valorizzarono a must have le precedenti uscite, ma dotato ad ogni modo di una credibilità artistica e della consueta maturità scaturita dal processo di songwriting e produzione avvenuti nello studio casalingo di Torben.
Come sottolineato dallo stesso vocalist, le canzoni qui presenti sono nate negli ultimi 3 anni, senza alcun obiettivo o pressione di sorta, dalla vicinanza di residenza col chitarrista Jan Petersen.
Le tastiere luccicanti e sfarzose trademark della band vengono tralasciate, quasi abbandonate, in favore di hammond e chitarre massicce, sempre protagoniste, accompagnate dal timbro immutato di Torben Schmidt, incapace ad ogni modo di raggiungere le estensioni di 35 anni fa.
Sul singolo “Give It” possiamo ritrovare squarci del sound degli anni che furono in una sorta di autocitazione artistica, dal ritornello ripetuto.
Tra i pezzi più convincenti del lotto quelli dai toni più drammatici come “Be With You Forever”, dalle venature blues e dal sapore malinconico e “Where have You Been”, assestata tra linee vocali afflitte e parti di slide guitars dominanti. Alle cui possiamo avvicinare la conclusiva “Anymore” per sound proposto.
Tra le restanti, “Changing”, dotata di un bel tiro, e La quadrata e diretta title track lasciano spazio alla melodia nei refrain ariosi.

Un come back accolto dal sottoscritto con affetto, senza aspettative di rivalsa o del disco della vita.
In due aggettivi, fruibile e apprezzabile.

Vandenberg – Sin – Recensione

25 Agosto 2023 10 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Mascot Label Group

Se siete in astinenza da Serpente Bianco e gli innumerevoli cloni usciti negli ultimi anni non vi hanno soddisfatto, qui sicuramente troverete pane per i vostri denti. Oggettivamente, qui ci troviamo di fronte a qualcosa di più di una mera operazione nostalgia, perché Adrian Vandenberg è parte integrante e cuore pulsante del sound Whitesnake dal 1987 in avanti ed è inutile che vi dica quanto Slip Of The Tongue oriented sia il mood d quest’album. Per convincervi basterà guardare i video di Sin, dove un simpatico serpente (ovviamente bianco) slinguetta allegramente già dai primi frame… Parte dell’ illusione è sicuramente alimentata dalle vocals di Mats Levén, che non ha nessun timore di andare a percorrere il sentiero Coverdaliano nella impostazione vocale, riuscendo molto spesso a ricreare l’illusione dei tempi che furono.

Ci troviamo quindi di fronte a nove tracce di hard rock bollente e anthemico, dove le atmosfere a cavallo degli anni 80/90 la fanno da padrone (sicuramente la produzione di Bob Marlette aiuta moltissimo), non si disdegna però di riesplorare le radici seventies dell’hard/blues oltre alle sonorità tipiche dei Rainbow/Dio. Il guitar sound è massiccio e tirato ed erge un muro sonoro d’altri tempi nei pezzi più hard, mentre cesella con precisione e delicatezza i pezzi più soft, inoltre si nota una notevole ispirazione compositiva e pur senza l’intento di inventare nulla, quello che viene proposto trasuda feeling e passione allo stato puro e questo non può che far piacere anche agli incalliti fruitori di hard rock come noi.

Pezzi torridi come Thunder And Lightning, Sin e Burning Skies, mi accendono esattamente come 40 anni fa, mentre il lento Baby You’ve Changed, mostra che non importa essere melensi per esprimere emozioni. In sostanza mi sento di dire che Sin è il disco che gli Whitesnake avrebbero dovuto fare, ma che da Good To Be Bad (incluso) in poi, non hanno più fatto.