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Sign Of The Wolf – Sign of The Wolf- Recensione

05 Maggio 2025 6 Commenti Luke Bosio

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Escape

Come ben sapete, ci sono alcuni dischi che per determinate generazioni hanno lasciato un segno indelebile del loro passaggio.
Al 90% questi vengono chiamati unanimemente ”dischi importanti o dischi fondamentali” e dato che siamo in tema di percentuali diamo un buon 85% di possibilità che questi album siano usciti nella decade settantiana e ovviamente stessa percentuale va attribuita a quelli prodotti nella decade successiva, quella degli anni ottanta. Indipendentemente dall’età anagrafica dell’ascoltare (medio) interessato alla musica Rock funziona proprio in questo modo. Poi, ci sono anche dischi tra quelli importanti che hanno dato il via a provetti /improvvisati musicisti a cimentarsi con i loro strumenti spinti ad emulare con la chitarra K.K. Downing (Judas Priest) chi Tony Iommi (Black Sabbath) o Steve Harris (Iron Maiden) per lo strumento a quattro corde. Per giungere poi a emuli di James Hetfield (Metallica) o John Petrucci (Dream Theater). Questi sono gli ultimi idoli luminari ad aver ispirato una generazione.
Tornando a noi, per prima cosa c’è da mettere in evidenza come quello dei SIGN OF THE WOLF è un progetto nato da un’idea di Bruce Mee (fondatore della rivista Fireworks) e Khalil Turk (boss della casa discografica inglese Escape Music) quindi non si tratta affatto di una nuova band con chissà quali mire artistico/commerciali e bla, bla, bla….quindi, ciò che mi preme di fare subito è porre alla vostra attenzione chi ha suonato/collaborato a questo progetto, ovvero:

Andrew Freeman: voce (Last In Line)
Doug Aldrich: chitarra solista (Dead Daisies/Whitesnake/Dio/Hurricane)
Fredrik Folkare: chitarra solista/ritmica e basso (Unleashed/Eclipse)
Steve Morris: chitarra (Heartland/Lonerider/Ian Gillan Band)
Steve Mann: chitarra (Lionheart/MSG/Lonerider/OuseyMann)
Vinny Appice: batteria (Black Sabbath/Dio/LastIn Line)
Josh Devine: batteria (One Direction/Lavera/Turkish Delight)
Johan Kullberg: batteria (Hammerfall)
Chuck Wright: basso (Quiet Riot/Giuffria)
Mark Boals: basso e backing vocals
Tony Carey: testiere (Rainbow)
Mark Mangold: tastiere (Touch/Drive She Said)

Bisogna inoltre rimarcare il fatto che questo è un album difficile da comprendere e da ascoltare al giorno d’oggi per chi non conosce (leggi ama) la storia dell’Hard Rock. Quello dei Sigh of the Wolf è il perfetto anello di congiunzione tra passato e presente, un episodio isolato posto a cerniera tra i fumogeni Seventies e i fluorescenti Eighties. Nove tracce meravigliose cucite attorno alle classiche partiture del genere, con eccellenti ricami solisti di Doug Aldritch – qui davvero al top della forma – e un ordito di Hammond di Tony Carey che si intersecano alla perfezione ricreando (in alcuni epidodi qui presenti) la magia dei Rainbow di ”Rising”. Senza tralasciare l’enorme lavoro di Andrew Freeman dietro al microfono, decisamente più ispirato e sul pezzo qui che non sui tre dischi pubblicati sinora con Last In Line.

Come dice l’accattivanete biografia che accompagna il materiale promozionale messo a nostra disposizione, trattasi di un disco volutamente di omaggio alla musica di R.J. Dio, quindi non vale puntare subito il dito e con saccenza inopportuna dire: ”Eh però, questa qui ricorda ”Tarot Woman” … ”Eh ma, questo riffone è identico a ”Stand Up And Shout” (‘’Arbeit Macht Frei’’ in effetti è la modernizzazione riuscita di tale brano). Certo che è così! L’hanno fatto di proposito ed riuscito dannatamente bene. Questo disco, a cui non si può dare meno che il massimo dei voti, ci dice due cose fondamentali: la prima è che l’Hard Rock di classe è ormai tramontato decine di anni fa. La seconda ci fa capire quanto ampia sia la distanza tra tra ciò che era inteso un tempo come ”MUSICA HARD ROCK” e la pochezza delle proposte di riferimento odierne. Sono del fermo parere che gli amanti di bands come Whitesnake, Black Sabbath (per lo più quelli con Tony Martin alla voce) e Rainbow, difficilmente troveranno ancora qualcosa di così stimolante negli anni a venire. Sign of the Wolf è l’eccezione alla regola ed è stato scritto da gentaglia che in passato ha creato e fatto grandi proprio queste sonorità. Come detto è un disco per l’80% orientato sul periodo Rainbow di Ronnie James Dio ma non solo, ci sono alcuni episodi che esulano da questa categorizzane e che si abbeverano alla fonte del Melodic Rock inglese (non AOR) riconducibile al sound dei Magnum e per proprietà transitiva a quello dei Ten di Gary Hughes. Due sono i brani esplicativi di quanto detto poc’anzi: il primo risulta essere l’epica opener di 7 minuti dal titolo “The Last Unicorn’’, assoluta magnificenza Melodic Hard Rock 70iana e la conclusiva composizione che porta in seno oltre al nome dell’intero progetto, altrettanti 7 minuti di progressioni Sabbathiane in pieno periodo 1987/90 il riferimento ovviamente va alla triade “The Eternal Idol/Headless Cross/Tyr’’. Nel bel mezzo ci sono altri episodi pregevoli come la tellurica “Silent Killer’’, con il suo incedere avvolgente rimembrante le prime cose dei Pretty Maids, ritornello clamoroso incluso! Poi “Rainbow’s End’’ brano dotato di sognanti melodie tipicamente British alla Ten e l’ennesimo ritornello ficcante. Il sound dei Rainbow si fa risentire prepotentemente su ‘’Rage of Angels’’, l’ispirazione è quella di ‘’Rising’’, la composizione è cruda e nervosa, con una produzione che non smussa ne addolcisce, ma mette in evidenza fulmini potenti e asprezze autorevoli tipiche della nostra amata musica. ”Murder At Midnight” è scattante e piaciona. Una composizione tipica di quel Metal da classifica simil ”Hungry for Heaven” / ”Rock’n’ Roll Children” dal (troppo) bistrattato ”Sacred Heart” album del 1985 della band di Ronnie James Dio, figlio anche lui di un’epoca lontana ma che ricordiamo sempre volentieri.

Insomma, siamo al cospetto di un lavoro minuziosamente composto, arrangiato ancor meglio e curato in ogni singolo dettaglio. Un disco dedicato a tutti gli amanti della musica Hard Rock di classe, nessuno escluso e Ronnie James Dio ascoltando anche lui questo disco ci sta rivolgendo un bel sorriso e il suo pollice ovviamente rivolto verso l’alto in segno di totale approvazione. Hard Rock! Scusate il voto di 100/100 , mu questa è la musica con cui sono cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, musica che mi tocca ancora nel profondo l’anima. So che ci saranno lamentele sul fatto che questo materiale non sia sufficientemente all’altezza delle band di cui sopra, ma questo non è un progetto per fare meglio di quei dischi (IMPOSSIBILE), questo è un album che dice ancora quanto per un determinato pubblico manchino i vecchi gloriosi tempi, quando le grandi band facevano album strepitosi. Tutti gli artisti coinvolti in questo progetto volevamo provare almeno a fare qualcosa di vicino ai loro padri ispiratori. Vecchia scuola, e ne sono fiero! Sarebbe da appiccicare sul davanti del disco l’etichetta “+50 only’’ dato il target d’età verso cui è indirizzato è decisamente quello!

Ultima postilla personale a concludere questa lunga recensione va ai possibili dati di vendita nonché di fruizione di questo prodotto nel 2025 dato che saranno di poco superiori alle 1000 copie, temo. Serenamente posso assicurare che se il disco SIGN OF THE WOLF fosse uscito a cavallo tra il 1984 e il 1986 avrebbe facilmente venduto 2 milioni di copie. Ma si sa, quelli erano altri tempi e c’erano altri ascoltatori, ma il rammarico resta.

Moonsoon – East of Asteroid – Recensione

01 Maggio 2025 9 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock
anno: 2025
etichetta: Apollon

Quando, spulciando tra i promo, mi imbatto in queste delizie super underground, ricordo perché ho iniziato a scrivere su questo sito: per continuare a vivere l’emozione della scoperta.

Avvolto nel più assoluto mistero, questo disco mi ha conquistato fin dalle prime note. Prima di parlarvene, vi racconto brevemente chi sono i Moonsoon, attingendo direttamente dal loro sito. Il progetto nasce dalla visione di Helge Nyheim, batterista e cantante dalla lunga carriera musicale, e di Daniel Hauge, produttore e compositore. Helge ha collaborato con numerosi artisti di generi diversi, affinando il suo stile nel corso degli anni, mentre Daniel ha contribuito alla direzione sonora della band, curando produzione, mix e mastering, oltre a lavorare con altri artisti dell’etichetta Apollon Records. Il disco vede anche la partecipazione di musicisti di grande rilievo, tra cui Ian Ritchie, sassofonista noto per il suo lavoro con Roger Waters (Pink Floyd), Kjetil Møster, figura chiave del progressive e del jazz norvegese, e Bjarte Aasmul, chitarrista il cui stile raffinato ha arricchito il sound della band.

Descrivere questo album a parole è un compito particolarmente arduo, soprattutto trattandosi di un disco prog. Se dovessi farlo, direi che mescola atmosfere alla Steven Wilson, con alcuni passaggi che evocano le suggestioni distopiche degli Echolyn, il tutto sorretto da una struttura che richiama i Pink Floyd di ‘Dark Side of the Moon’. E ora so di avervi incuriosito parecchio. Quindi, se vorrete dare un ascolto alla sognante ‘Virtual Avenue’, al viaggio sonoro di ‘Rays of Cosmic Embers’ e alla dissonante ‘Crack Our Codes’, ne rimarrete deliziati. La suite ‘The Nasty Man’ è un piccolo gioiello che mescola perfettamente certe ossessività orchestrali alla Echolyn con le atmosfere tipiche dei viaggi floydiani. ‘Ones and Zeroes’, ricca di inserti di sax, è un altro tributo ai Pink Floyd e, se la ascolterete, non farete fatica a capirne il perché. Chiude questo concept la delicata title track.

Un messaggio per chi segue le mie divagazioni prog sul sito: fatevi un favore e recuperate questo disco. A me ha illuminato, e potrebbe fare lo stesso con voi.

 

Russ Ballard – Songs From The Warehouse/The Hits Rewired – Recensione

01 Maggio 2025 1 Commento Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Grande ritorno per una delle più grandi penne del music business anni ‘80: Russ Ballard, songwriter per tantissimi artisti del panorama hard rock anni ‘70 e ‘80 e non solo, ci consegna un doppio album suddiviso in tracce inedite e grandi reinterpretazioni dei suoi classici.

Partiamo dal CD 1, ovvero dalle tracce inedite: l’opening “Resurrection” è emblematica, piacevolissima, dal ritornello martellante, ottimo inizio. “Courageous” risulta molto intensa e passionale, non particolarmente originale, ma sicuramente godibile. Con “Journey Man” ci spostiamo verso orizzonti più poppeggianti, con ritmiche cadenzate e una dinamica ben strutturata. La voce suadente e il calore complessivo del cantato proseguono con “The One Who Breathes Me”, particolare, dalle sfaccettature oscure e inconsuete, così come la successiva “The Wild”, che non varia molto dall’andazzo dell’album e dallo stile dell’autore. “Soul Music” rientra nella categoria ballatone: tappeto strumentale, chitarre acustiche, dinamiche che si aprono sul ritornello, un brano canonico e immancabile. Profonda e trasportante, arriva il momento di “Sleepwalking”, che si attesta sempre in quella categoria di pezzi dall’ascolto gradevole ma dalle sonorità non particolarmente originali. “Last Man Standing” sale maggiormente rispetto alle ultime tracce, mantenendosi in linea di galleggiamento, non presentando grandissimi slanci compositivi e tecnici, allo stesso modo di “Make Believe World”, che si mantiene sulle stesse atmosfere della canzone precedente. L’ispirazione e lo stile sono un po’ ripetitivi, ma comunque di qualità, come in “The Family Way”, che presenta una trama e una struttura evocativa e interessante. Torniamo a volare alto con “Fearless”, corale, aperta e dal ritornello titanico, sia a livello strumentale che vocale, una piccola gemma in coda. La parte inediti si chiude sulle soavi note di “The Last Amen”, dall’esecuzione impeccabile, che finalmente riesce a trasmettere emozioni vere e che convince al 100%.

Arriva il momento amarcord con i grandi classici rivisitati della carriera di Russ Ballard: apriamo le danze con “Since You’ve Been Gone”, brano super celebre che tutti noi abbiamo apprezzato nella splendida versione cantata da Graham Bonnet e che in questa occasione risorge magnificamente, perché un capolavoro resta tale per sempre. Proseguiamo con “Winning”, piacevolissima, scritta per i Santana di Carlos Santana, che sempre ci porta a gradevoli sensazioni. Chapeau per “God Gave Rock And Roll To You”, inimitabile, stupendo gioiello della musica contemporanea, sempre un po’ sottovalutato (soprattutto dai Kiss) ma per sempre nei cuori degli amanti del rock. Arriva il turno di “Voices”, successo della carriera solista di Ballard, di cui poco c’è da dire: classicone. Torniamo ai Kiss, sponda Ace Frehley, con “New York Groove”: altro giro, altre emozioni forti, altro successo strepitoso. “You Can Do Magic”, che ricordiamo nella discografia degli America, mantiene la sua intensità e gradevolezza, così come la successiva “Liar”, scritta per gli Argent, con il suo ritornello potente e deciso. “I Know There’s Something Going On” è pop puro, anche se reso in chiave più rockeggiante, riportandoci alla memoria gli anni ‘80 e la splendida Frida. Con “I Surrender” torniamo ai Rainbow, reinterpretati in maniera ottimale, mettendo in risalto l’ottima prestazione di Russ Ballard e company. Sempre anni ‘80, questa volta per Elkie Brooks, troviamo “No More The Fool”, intensissima, calda, strappalacrime, che lascia veramente l’ascoltatore arricchito e malinconicamente felice. Cambiamo un po’ genere con un brano scritto per gli Hot Chocolate: “So You Win Again”, di fatto un pezzo disco, dall’ottima resa e che non stona affatto all’interno del disco. “Free Me” non sbava, anche se manca la potenza vocale di Roger Daltrey, che resero questa traccia una grande hit nel passato. Chiudiamo questo lungo ascolto con un altro brano dalla carriera solista di Ballard, ovvero la celebre “On The Rebound”, su cui non c’è molto da aggiungere.

Concludiamo la recensione con una riflessione: ci troviamo di fronte a un disco lungo e impegnativo da ascoltare (26 tracce in totale), diviso nettamente in due parti. La sezione inedita, che non eccelle né per esecuzione né per originalità, si contrappone a un revival ben curato, capace di riportare alla mente un passato glorioso, costellato di grandi successi. Il voto finale riflette una sorta di media tra questi due aspetti. In ogni caso, un ascolto che merita sicuramente attenzione!

H.E.A.T. – Welcome to the Future – Recensione

29 Aprile 2025 13 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR/Hard Rock
anno: 2025
etichetta: EarMUSIC

Una delle uscite più attese di questo 2025 era sicuramente il nuovo disco degli svedesi H.E.A.T. band capofila del recente movimento melodic rock nordeuropeo. Etichettati troppo frettolosamente come gli eredi degli Europe il combo scandinavo nel corso del tempo si è costruito una solida reputazione, dimostrato di avere carattere e personalità da vendere e divenendo a sua volta riferimento per tutto il movimento “new AOR” degli ultimi 15 anni. Per sgombrare il campo da ogni dubbio diciamo fin da subito che quest’ultimo lavoro riporta il gruppo alle origini, abbinando le sonorità dei primi due album ad una smodata quantità di “maragliaggine” in pieno stile eighties.

Ad aprire le danze ci pensa la tiratissima Disaster, pestando pesantemente il piede sull’acceleratore e travolgendoci con una valanga di chitarre tritatutto, tastieroni pomposi e vocalità epiche. Clamorosa la doppietta messa a segno dalle due hit-singles Bad Time For Love e Running To You, (accompagnate entrambe da un simpaticissimo video sapientemente “invecchiato”) nelle quali l’accoppiata Lekremo-Dalone sfodera una prestazione da 10 e lode. Call My Name e la successiva In Disguise sono due gioiellini di hard rock melodico impreziosito da atmosfere eroiche sulle quali la voce di Kenny va letteralmente a nozze. La macchina del tempo è ormai lanciata a folle velocità e niente e nessuno sembra in grado di fermarla. Ecco quindi arrivare in sequenza gli spettacolari cori In The End e Rock Bottom due brani in puro stile arena rock. Le tracce si susseguono con un ritmo incalzante; Children Of The Storm è la figlia legittima della premiata ditta “Tempers & Co” degli esordi mentre Losing Game ci riporta allo stile di “II” (Dangerous Ground e Rock Your Body i principali riferimenti). Come si direbbe in gergo calcistico anche a risultato acquisito gli H.E.A.T. non allentano la pressione riuscendo nel difficilissimo compito di evitare cali di tensione e inutili riempitivi. Quello che troverete su questo lavoro è “tutta roba buona” e così anche la maideniana Tear It Down non fa che confermare la validità di un album chiuso dalle epiche note di We Will Not Foget. Grazie ad una serie di dischi di grandissimo valore i ragazzi si sono imposti in un panorama estremamente affollato e Welcome To The Future rappresenta (ad oggi) il coronamento di questo ambizioso percorso.

Un disco da “All In” nel quale gli H.E.A.T. mettono sul piatto tutta la loro immensa classe confezionando il tutto con una produzione perfetta e cristallina sotto ogni punto di vista. All’affollata platea di pretendenti l’arduo compito di scalzare dal trono King Lekermo e i suoi compagni di avventura.

Rock Out – Let’s Call It Rock’N’Roll – Recensione

29 Aprile 2025 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Grande ritorno per gli elvetici Rock Out, al loro terzo lavoro di studio, che propongono un hard rock canonico e ben riconoscibile.

Partenza gagliarda sulle note di “The Boys Are Back”, dal buon impatto, riconoscibile, dalle influenze chiarissime (in primis i connazionali Krokus). In seconda posizione arriva subito la title track “Let’s Call It Rock’N’Roll”, ben ritmata, dove la dinamica crea ottime vibrazioni, offrendoci un buonissimo brano nel complesso. “American Way” ci soddisfa col suo riff trasportante e tradizionale, con un testo e soprattutto con un ritornello semplice e orecchiabile. Rockeggiante e scatenata, “Pump It Up” è un brano riuscito, anche se globalmente non molto originale. “Dynamite” non lascia un grande segno: ricorda molti brani della golden age dell’hard rock, senza però avere lo stesso impatto, così come la successiva “Hcrnrsm”, un po’ insipida e scontata. Arriva il momento della potente “I Wanna Live”, un bel tormentone, ritmicamente travolgente, un inno, che può definirsi la vera gemma all’interno del lavoro. Arriva il momento dell’imprescindibile lentone: “Tears Are The Rain”, con un intro piano e voce, non delude e non si discosta dal canone delle ballad, con tanto di intensissimo solo di chitarra e conclusione titanica. “Hit Me” è un brano semplice e genuino, che conferma quanto ascoltato sino a questo momento. Chiudiamo l’ascolto con “Don’t Call Me Honey”, bella poderosa, graffiante e prepotente, ottima chiusura per un album non particolarmente originale, che non delude, ma che lascia l’ascoltatore un po’ tiepido e soprattutto dove le ispirazioni sono ben definite e riconoscibili e, per questo motivo, dalla trama un po’ scontata.

Prost – Believe Again – Recensione

27 Aprile 2025 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy

In uscita il nuovo album dei francesi Prost, rockers capitanati da Antoine Prost, che propongono un hard rock melodic dal sapore europeo e piacevolmente vintage.

Suoni ovattati e deliziosi aprono le porte al disco: “Lone Survivor” è una partenza azzeccatissima, dalla struttura canonica ma molto ben realizzata, ben cesellata e complessivamente convincente. Passiamo alla title track “Believe Again”, coinvolgente dal punto di vista emotivo, ma non completamento da quello strumentale, nonostante un pregevole solo di chitarra dello stesso Prost. Continuiamo la cavalcata con “Comfort Zone”, molto arrembante, decisa e cadenzata, dalla dinamica ben definita e ben dosata. “Never Let You Go” ci carica di energia, con un ritornello efficace e corale, sostenuto da una ritmica compatta e martellante. Arriviamo a “Through The Night”, dalle atmosfere complesse, delicata e pungente allo stesso tempo, gradevolissima e meritevole di molteplici ascolti. “Hearts And Dreams” è un pezzone arrembante e affascinante, non particolarmente originale, ma comunque divertente, soprattutto dal punto di vista strumentale. Sempre sulla stessa lunghezza d’onda passa velocemente e senza grandi rimpianti “Summer Days”, poppeggiante, un po’ ruffiana, complessivamente solare e nostalgica. Torniamo su sentieri hard rock puri con “Road Of Tomorrow”, più convincente sotto tutti i punti di vista, dalla voce, aggressiva e possente, sino alla parte ritmica, tagliente e dalla pasta sonora ben costruita. “Cold Fire” torna su orizzonti più misteriosi e oscuri, dimostrando però un “crescendo” nello sviluppo del lavoro. “Standing On The Edge” rockeggia, mantenendosi sullo stesso livello proposto in tutto il lavoro. Concludiamo questo piacevole ascolto con “Flame Of Hope”, coda molto convincente per un album ben eseguito, senza grandissimi exploit di originalità, dal gusto nostalgico e pienamente attinente al genere.

Art Nation – The Ascendance – Recensione

27 Aprile 2025 5 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Nati nel 2014 il trio svedese composto dal prezzemolino dell’hard rock contemporaneo Alexander Strandell alla voce, Christoffer Borg alle chitarre e Richard Svärd al basso giunge oggi alla presentazione del loro quinto lavoro da studio. Ormai noti nel panorama internazionale gli Art Nation raffigurano uno dei migliori esempi delle prolifera scena scandinava. Reduci dalle ottime critiche del precedente Inception (2023) i ragazzi cercano di bissare con il qui presente The Ascendance.

Diciamo subito che l’obbiettivo è stato quasi raggiunto se non fosse per alcuni brani non proprio memorabili che sembrano messi lì come mero riempitivo. Purtroppo, anche il genere di riferimento non lascia spazio a grandi soprese e il sentore di copia/incolla inizia ad avvertirsi piuttosto nettamente. La sensazione è che il gruppo abbia bisogno di spingere sempre di più sull’acceleratore per poter impressionare gli ascoltatori. Set Me Free è un bano quasi Speed Metal se non fosse per l’ugola di Strandell che addolcisce e rende più abbordabile il tutto. Stesso discorso per le schiacciasassi Thuderball e Halo capaci di proporre un ritornello corale che stempera la tensione dettata da una sezione ritmica a dir poco dirompente. Runaways così come Rise e Fallout sono quei filler a cui facevo riferimento prima mentre l’accorata ballad Julia, scritta e dedicata da Alex alla propria compagna, rappresenta l’unico momento di (relativa) calma del disco. Da menzionare Lightbringer dalle atmosfere sacrali ed epiche capace di travolgervi con un muro sonoro di grande impatto. Tirando le somme possiamo dire che complessivamente la prova sia più che superata anche se la potenza di fuoco sprigionata appare un po’ troppo sproporzionata rispetto a quanto necessario. Come direbbe il buon Max Angioni, “anche meno”.

 

Harem Scarem – Chasing Euphoria – Recensione

21 Aprile 2025 10 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock / Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Un paio di premesse: un nuovo disco degli Harem Scarem è sempre un evento da celebrare. Lo è, innanzitutto, per il ruolo che la band ha avuto negli anni ’90 e 2000, quando ha rappresentato, quasi in solitaria, un baluardo del rock melodico, in un periodo in cui l’industria musicale proponeva tutt’altro. E lo è anche, e forse soprattutto, per l’incredibile qualità artistica delle loro uscite: non credo, infatti, che gli Harem Scarem siano capaci di realizzare un brutto disco, nemmeno volendolo.

Anche se questo non è certo il loro miglior lavoro in assoluto, spazza via, senza sforzo, le uscite di gruppi più o meno artificialmente resuscitati (chi ha detto Giant?) e di tante band sulla rampa di lancio. Alla voce “classe”, infatti, gli Harem Scarem temono ben pochi rivali.

Queste considerazioni servono a contestualizzare il voto, che a prima vista potrebbe non sembrare eccelso, ma che, a mio avviso, colloca correttamente l’album all’interno della loro sterminata discografia.

Veniamo alle canzoni: il disco parte davvero col botto con la title track, che rimanda ai fasti di Mood Swings, mostrando come classe e gusto per gli arrangiamenti siano ancora di una categoria superiore. La seguente ‘Better the Devil You Know’ si regge su un refrain molto accattivante, esaltando la sapienza negli inserti di chitarra, assolutamente non invadenti e mai scontati, come da tempo è marchio di fabbrica di Pete Lesperance. ‘Slow Burn’ e ‘Gotta Keep Your Head Up’, quest’ultima con Darren Smith alla voce, scorrono come un piacevole sottofondo, senza però lasciare tracce profonde. ‘World on Fire’ è il classico lento di matrice Harem Scarem: evocativo, catchy, ma assolutamente non stucchevole, con il loro inconfondibile gioco di voci, fatto di canto e controcanto. Con ‘Bad Way’ e ‘Reliving History’ si scende un po’ di tono, muovendosi su territori più scontati e già sentiti, anche se comunque gradevoli. ‘A Falling Knife’ riporta in alto la tensione con un brano molto tirato, non proprio nella tradizione degli Scarem, ma ogni tanto è anche piacevole sentirli uscire dagli schemi, e ve lo dice uno che ha adorato Voice of Reason. Mentre ‘Understand It All’ scorre via piuttosto innocuo, la chiusura con ‘Wasted Years‘ è di livello assoluto, e insieme al brano di apertura rappresenta uno dei momenti migliori del disco.

Insomma, gli Harem Scarem non deludono mai. Magari non hanno sfornato l’album dell’anno, e le canzoni sopra la (loro) media sono solo due o tre, mentre il resto del disco si crogiola un po’ nella loro classe infinita. Ma che il Signore ce li preservi a lungo, perché in ogni loro lavoro nulla è mai banale. Anche nei brani che possono sembrare più ‘scontati’, c’è sempre qualcosa che emerge con gli ascolti, perché, signori miei, questi musicisti hanno un gusto e un talento per gli arrangiamenti che riuscirebbero a far brillare anche un jingle di un banalissimo spot pubblicitario. E se non li avete mai visti dal vivo, cogliete l’occasione del Frontiers Rock Festival: sul palco, sono semplicemente immensi.

Captain Black Beard – Chasing Danger – Recensione

18 Aprile 2025 0 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Mighty Music

“Chasing Danger” è il nuovo album dei Captain Black Beard, uscito il 4 aprile 2025 per Mighty Music. Punto di svolta per la band svedese per l’ingresso del nuovo frontman Fredrik Vahlgren, subentrato a Martin Holsner nel 2023. La formazione attuale è completata da Robert Majd al basso, Daniel Krakowski alla chitarra e Vinnie Strömberg alla batteria. Il disco, registrato ai Wing Studios di Stoccolma con la produzione di Sverker Widgren e la co-produzione dello stesso Majd e di Krakowski, si presenta come un viaggio sonoro energico e coinvolgente che si muove con disinvoltura all’interno del melodic rock, con forti richiami ad artisti come The Night Flight Orchestra e H.E.A.T.

L’album si apre con “Dreams”, una traccia potente dai riff incisivi che introduce immediatamente l’atmosfera vibrante del disco. Segue “When It’s Over”, dove spicca un ritornello coinvolgente e la voce di Vahlgren risulta nel complesso ben integrata con il sound della band. “Chasing Rainbows” è un brano in pieno stile AOR, con melodie orecchiabili e un assolo di chitarra eseguito con buona precisione. “Shine” gioca su un crescendo strumentale che culmina in un finale molto curato. “AI Lover” mescola elementi moderni e classici grazie a riff robusti e a una sezione ritmica compatta, mostrando la versatilità del gruppo. “Can’t You See” mantiene alta la tensione con un ritmo incalzante e una buona carica che si sposa con le sonorità più hard del disco.

La seconda metà dell’album si apre con “Read Your Mind”, un mid-tempo dove le tastiere creano un’atmosfera più avvolgente e malinconica. “Piece of Paradise” cambia completamente registro, offrendoci una ballata melodica e toccante dal tratto nettamente zuccheroso. Impatto radiofonico assicurato! Con “Where Do We Go” si ritorna su binari più energici. Infine, “In Your Arms” chiude l’album con un mix ben calibrato di melodia e potenza.

Dal punto di vista sonoro, “Chasing Danger” è un buon prodotto dove ogni strumento trova il suo spazio. Il sound moderno riesce comunque a mantenere un certo calore tipico dell’AOR degli anni ’80. Il nuovo cantante, Fredrik Vahlgren, se la gioca egregiamente, la sua voce potente e versatile riesce a dare nuova linfa al gruppo senza snaturarne l’identità.

Nel complesso, “Chasing Danger” è un album ben scritto e ben suonato che ha forse il suo difetto più grande nel non riuscire ad aggiungere nulla di veramente nuovo e di impatto in un genere che va detto è ultra inflazionato. È un lavoro che saprà comunque soddisfare gli appassionati del genere e convincere anche chi si avvicina per la prima volta alla band. Sicuramente una uscita interessante in ambito melodic rock in questo 2025.

Luponero – Luponero – Recensione

09 Aprile 2025 2 Commenti Denis Abello

genere: Alternative Rock / Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Icons Creating Evil Art

Luponero, nome italianissimo per una band… Finlandese. Quindi? Chi c’è dietro a questo terzetto Finlandese? Originaria di Helsinki, guidato dal cantante e polistrumentista Marco Luponero, già noto per il suo lavoro con Altaria, Terrorwheel e Marco Luponero & The Loud Ones. Nel 2024 adottano il nome Luponero e affinano il loro stile musicale, che mescola elementi del rock anni ’90, punk rock, metal, classic rock, AOR e Sinth… Tanta roba? Troppa roba? Vedremo…

L’album omonimo dei Luponero, uscito il 21 marzo 2025 sotto l’etichetta Icons Creating Evil Art, è un lavoro che mescola, come scrivevamo sopra, parecchi generi differenti… si va dall’ alternative rock, un pizzico di punk, classic rock con sfumature synthwave e un tocco di AOR. La band finlandese, composta da Marco Luponero (voce, basso), Jim Heikkinen (chitarra) e Simon Grundvall (batteria), ha creato un disco energico e dai testi più profondi e riflessivi di quello che potrebbero sembrare ad un primo approccio.
Tra i brani spiccano Everything/Nothing, che si apre con un basso ipnotico prima di esplodere in un mix di batteria potente e chitarre taglienti, e Killing Time, singolo caratterizzato da influenze synthwave ispirate ai film di fantascienza anni ’80. Pickup Artist gioca con ironia sui temi della disillusione, mentre Angelo, dedicata al padre di Marco Luponero, si distingue per un’intro emozionante.
Luponero è un disco che porta avanti la tradizione del rock contaminato e proprio per questo potrebbe risultare ostico per i “puristi”, ma una produzione solida e una scrittura ricercata nel complesso danno carattere ad un album che merita attenzione, soprattutto per chi ama il rock con un tocco sperimentale.