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14 Marzo 2025 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Enghardt Media / Bad Punch Records / Metalpolis
Il chitarrista tedesco Marty Punch, forte di una carriera decennale e noto per il suo hard rock autentico e appassionato, rilascia il suo terzo album. Guardando i musicisti che hanno collaborato al disco, come si potrebbe non essere quantomeno incuriositi?
Partiamo tosti con “The Time Is Now”, potente apertura, dalla ritmica martellante e dalle sfumature gradevolissime: ottimo biglietto da visita. Un elegante giro di basso ci apre le porte di “Keep Pushin´ On”, molto ben strutturata e dal groove trasportante. “Dream In The Dark” ci porta su atmosfere più oscure e misteriose, proponendo una dinamica varia e accattivante. Arriviamo al momento del lento suadente e contemplativo: “Have Faith” presenta tutte le caratteristiche consuete del genere, mettendo in luce un’altra faccia dello stile di Marty Punch. Arriviamo ad “Heart Attack”, dalla componente strumentale molto interessante ed articolata, dai fraseggi melodici e ben intarsiati tra di loro. Proseguiamo nel viaggio incontrando “Deadwood”, dall’inconfondibile intro di flauto di Pan, un brano molto intenso e dall’ascolto decisamente piacevole. “In Deep Water” è un pezzo strano, cadenzato, “chitarristico”, dal sapore nostalgico e americano, che presto si spegne e ci porta a “Don’t Bother Me”, ben più scatenato e puramente hard rock. Scendiamo coi battiti con “The Little Things”, intensa e calda, da godere lentamente in cuffia, una piccola gemma di gusto e tecnica. Iniziamo la carrellata delle bonus track (ben 2): “Streets Of Belfast” ha qualcosa di molto irish nella stesura strumentale e vocale, riportandoci alla memoria qualcosa di molto anni ‘80 (coi dovuti paragoni, “Over The Hills And Far Away” del buon Gary Moore”), mentre la successiva “Better Be Strong” non presenta grandi spunti di riflessione. Concludiamo così un buonissimo lavoro, ispirato e ben suonato, dai momenti intensi e passionali, un buonissimo ascolto per gli amanti dell’hard rock melodico.
14 Marzo 2025 4 Commenti Giulio Burato
genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Un ricordo mi è tornato a galla vedendo l’artwork di questo “Night vision”, secondo estratto in studio dei promettenti svedesi Streetlight. Quando ero piccolo guardavo spesso il cartone animato Mazinga Z con i suoi “raggi fotonici” che qui hanno illuminato la visione notturna dell’album che esce tramite Frontiers il 14 marzo.
La band è la medesima presente nel buon debutto discografico del 2023 intitolato “Ignition”.
Il primo singolo rilasciato “Sleep Walk” è datato dicembre 2024 ed è una carica frenetica di AOR sincopato con sfumature che ricordano i Mr. Mister e i Cutting Crew e ci riporta agli adorati anni ‘80 con una brillantezza sonora invidiabile. L’unica pecca è che il breve intro risulti praticamente uguale a quello in “Standing On The Edge Of A Broken Dream” dei Groundbraker di Steve Overland.
Il secondo singolo è una prelibatezza gourmet; “Captured In The Night” infarcito di vibrazioni ottantiane e con quel ritornello che si stampa in testa a ripetizione.
Il terzo singolo è un capolavoro assoluto, un mix di Toto e Journey riportati al 2025, per una semi ballad dal testo malinconico e costruita con perizia e sagacia strumentale tanto da avere un outro molto elaborato che porta la canzone a superare i cinque minuti. Per distacco la mia canzone preferita.
A proposito dei sopra menzionati Toto, con “Leanna” abbiamo la perfetta canzone che omaggia Steve Lukather e soci. Freschezza compositiva ammirabile.
Il filo conduttore dell’album è retto alle fondamenta dalla briosità dell’iniziale “Long-Distance Runner” che accosto ai recenti lavori dei The Night Flight Orchestra, dal piglio leppardiano della chitarra presente in “Late Night Hollywood” e dalla suggestiva “Fly with eagles” che ci porta, in maniera sognante, a volare grazie al leggiadro ritornello e ci fa vedere dall’alto un’impostazione che riporta ai recenti Nitrate mixati con i Journey.
I giri del motore innalzano i giri con “Straight to Video”, con venature quasi rock and roll. Altro lento, meno ricercato del precedente, ma introspettivo e di spessore, “Where Did Love Go” posto a fine scaletta, dove appare anche la strutturata e sagacemente orchestrata “End game”, la canzone più lunga dell’album, con un titolo che è il perfetto slogan per la chiusura di questo “Night Vision”.
Gli Streetlght si dimostrano una delle più interessanti, giovani band AOR in circolazione e questo album ne è l’esempio tangibile.
14 Marzo 2025 1 Commento Giulio Burato
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Afm
Dopo due anni burrascosi, ritornano con una line-up quasi totalmente modificata, le Thundermother. Quanto logica sia la scelta di proseguire con lo stesso monicker non sta a noi giudicarlo, discorso che vale anche per altre band (vedi non ultima i Bonfire), ma sta a noi capire se c è un filo logico che lega il passato al presente.
In tale ottica mi sono addentrato in questo “Dirty & divine” con un titolo che ha un retrogusto simbolico.
La formula della female-band non cambia e ripercorre con le stesse scie stradali, quanto già ascoltato in passato, ossia un rock roll di chiara matrice Ac/Dc, Krokus e Airbourne ma con qualche spolverata di melodia in più.
La prima traccia di “D&D” è “So Close” che presenta subito sia la voce potente di Linnea Vikström Egg sia un deciso riff; canzone scolastica e diretta per il genere che trova la maggiore efficacia in uscita dal secondo ritornello al minuto 2:09 con un cambio di coro.
Energia e ruffianeria in “Can’t Put Out The Fire” con la chitarra che sprigiona la giusta carica; si prosegue nello stesso format con l’azzeccato ritornello di “Speaking Of The Devil”. Se in “Feeling alright” troviamo quella spolverata di melodia menzionata poco fa, rendendo la canzone molto radio-friendly, con “Take The Power” riparte la carica dinamitarda e le pelli sono percosse in maniera vertiginosa da Joan Massing.
“I Left My License In The Future”, primo singolo rilasciato nel 2023, ha il pregio di combinare un rock and roll di vecchio stampo abbinato a dei apprezzabili tocchi di modernità e con la neo rientrata Majsan Lindberg sugli scudi.
All’entrata della settima traccia “Dead or Alive” credevo di essere finito dentro ad un album dei D.A.D. con quel tocco di chitarra caro alla band danese, trade-mark della mitica “Sleeping my day away”, e che qui trova ampio spazio; il ritornello è efficace. Altro passaggio ruffiano è sicuramente presente in “Can You Feel It”; bello l’assolo sfoderato da Filippa Nässil.
Si chiude con la coinvolgente “Bright eyes”, una canzone che alla distanza è tra le migliori, per freschezza e coralità mentre “American Adrenaline” ha carica da vendere ma difetta di originalità.
In sintesi, ho pensato che il voto che rappresentasse perfettamente il disco sia 77, un numero che simboleggia il connubio tra un buon disco e ‘le gambe delle donne’ nella smorfia napoletana… che dite, calza?
10 Marzo 2025 2 Commenti Francesco Donato
genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Napalm Records
Tornano a distanza di quattro anni dalla loro ultima fatica discografica i Night Flight Orchestra, dando alla luce nei primi del 2025 questo “Give us the Moon”, album che di fatto rappresenta la loro settima fatica discografica.
Quattro anni non di certo leggeri per la band svedese, pesantemente influenzati dalla morte di David Andersson, mente e chitarrista del progetto, venuto a mancare tragicamente all’età di 47 anni nel Settembre del 2022.
Non nego di aver pensato che dopo i due ottimi capitoli Aeromantic e Aeromantic II, i nostri, colpiti da un così grave colpo, avessero ipotizzato l’idea di mollare la presa.
A smentirmi fortunatamente ci pensa questo “Give us The Moon”, album che non solo consolida il percorso di crescita della band, ma si pone a mio giudizio come uno dei più riusciti dischi della band.
La pubblicazione è al solito affidata alla Napalm Records, dodici brani che si faranno amare senza particolare fatica da chi ha apprezzato finora i sette album della band.
Formula che non cambia: Ritmiche trascinanti e coinvolgenti, melodie appiccicose e spensierate, brani che non necessitano di chissà quanti ascolti per restare impressi in mente.
Anticipata dall’intro “Final Cut”, apre il disco la bella “Stratus”, pezzo di puro AOR tirato e costruito attorno ad un gran lavoro di tastiere.
Tastiere che, è bene dirlo, anche questo lavoro si affacciano come importanti protagoniste, disegnando melodie accattivanti e un corredo di suoni non di certo moderno ma sicuramente ricco di fascino retrò.
E’ il caso della successiva “Shooting Velvet”, il classico pezzo alla NFO che ci aspettiamo di trovare in ogni album della band!
Melodia a go-go con un ritornello che si farà ricordare e canticchiare già al primo ascolto.
E’ il turno della trascinante “Like the Beating Of A Heart” brano nel quale la band svedese gioca ad autoriciclarsi con successo, utilizzando tutti i cliché che hanno mosso ad oggi le loro migliori produzioni.
Altre ottime prove sono le successive “Melbourne, May I?” e “Miraculous”, pezzi che manifestano con maggiore intensità l’anima anni ’80 del progetto. Miraculous” in particolare, porta in dote arrangiamenti sopraffini e intrecci strumentali davvero piacevoli.
E’ il turno di “Paloma”, primo singolo con il quale avevamo già felicemente testato le effettive potenzialità del disco.
Gran pezzo che conserva sotto pelle la dolce nota malinconica che accompagna da sempre alcuni pezzi del NFO alla “Lovers in the Rain”.
Con “Cosmic Tide” si fa un salto temporale ancora più intenso fino ad arrivare ai seventies, mentre con “Give us the Moon” e “A Paris Point Of View” gli scandinavi si avvicinano a quelle sonorità duraniane che molti di noi hanno amato negli ’80, tanto da riuscire ad immaginare John Taylor che suona il basso sul secondo brano come se fosse appena entrato in studio a registrare “Rio”.
Con “Runaways” si esplorano territori americaneggianti soprattutto nelle ritmiche.
Giunge quindi il turno di “Way to Spend the Night”, uno dei pezzi che alza ulteriormente l’asticella e che probabilmente, in caso di incertezza o dubbi, farà spostare i vostri soldini verso il vostro discaro di fiducia.
Ritmiche intense, melodia immediata e si scende in pista.Abbassa la saracinesca “Stewardess, Empress, Hot Mess (and the Captain of Pain)”, una sorta di piacevole suite di quasi 8 minuti.
Un ritorno pesante quello dei Night Flight Orchestra, un disco che per quanto mi riguarda rappresenta una vera dimostrazione di forza, compattezza e classe.
07 Marzo 2025 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Metalapolis Records
Secondo album per gli elvetici D’Or, band che propone un hard rock possente in stile ‘80, ispirato dai grandi del genere, con venature heavy.
Si parte in modo particolarmente pesante con “Shapeshifter”, dalla ritmica tagliente, molto ben strutturata, dai fraseggi corposi e interessanti. “The Howling” si mantiene sugli stessi livelli, con un’ottima dinamica interna, che riescono a renderla piacevole e coinvolgente. Sulle note di una intro di basso ben cadenzata, in pieno stile ‘80, arriviamo a “Scandal”, che presenta le medesime caratteristiche delle precedenti tracce, ovvero potenza strumentale e una timbrica vocale ben connotata, tagliente e “cattiva”. “Her Name Was Alice” è il terzo singolo estratto dall’album (uscito il 7 febbraio oltretutto): intenso, oscuro e malinconico, ci mostra un altro lato della compagine svizzera, capace sia di pestare, sia di esplorare orizzonti più introspettivi. Arriviamo quindi alla title track “Antihero”, ritmicamente trasportante, cadenzata, dal sapore oscuro e micidiale, un ottimo connubio di potenza e gusto. “Veleno – Bittersweet” ha un ritornello molto orecchiabile, soprattutto per noi italiofoni, e globalmente si presenta come un brano interessantissimo, dalla parte solista articolata e dalla coralità coinvolgente. Calano i toni con “Cold Drink In Hell”, più intensa e misteriosa nelle vibrazioni, dall’intenzione cupa, ma comunque godibile, al contrario della successiva “Float”, effettata, scanzonata e cadenzata, ma non particolarmente originale. “Kiss My Ass” ha nella linea vocale e in alcuni passaggi strumentali un sapore nostalgico e già sentito, che sfortunatamente non lascia un gran ricordo dietro di sé. Con “Nice To Eat You” andiamo proprio a pescare dall’universo eighties in tutto e per tutto: per gli amanti del periodo, un must. Concludiamo questo viaggio con “Disarming Elegence”, perfettamente in linea con un album interessante, ben eseguito, con una identità chiara: promettente.
07 Marzo 2025 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Doom hard rock
anno: 2025
etichetta: AFM Records
Avevamo già sviscerato gli Avatarium al momento dell’uscita di “Death, where is your sting?” (QUI la Recensione) a fine 2022, ora dopo una gestazione di diciotto e a distanza di ventisette mesi, ecco arrivare “Between you, God, the devil and the dead” e già dalla copertina si intuisce un riavvicinamento al doom che aveva caratterizzato le prime uscite degli svedesi, quando ancora avevano in line up il mastermind dei Candlemass, Leif Edling, ma non abbiate paura voi che sguazzate nel dolce, zuccheroso hard melodico, qui c’è classe, ispirazione, pathos e senso della melodia a profusione e la cosa è possibile grazie alla sempre più salda coesione fra i coniugi Jennie-Ann Smith e Marcus Jidell, copia sia nella vita, che nella band, di cui scrivono praticamente tutto, i testi sono opera della bella cantante, che ancora una volta esplora l’animo umano con metafore e sentimenti profondi con un trasporto che in poche hanno, mentre le musiche sono appannaggio del chitarrista (e non solo) che ricama ancora di più, se fosse possibile, rispetto all’album precedente, frutto di una composizione elaborata attuata al pianoforte e riportata poi sui diversi strumenti, arrangiando poi il tutto con maestria e dovizia di particolari.
Siamo quindi di fronte ad un “Death, where is your sting?” seconda puntata? In parte, diciamo che la base è quella, con la ricercatezza dei particolari, l’attenzione per i dettagli e la non convenzionalità a farla da padrone, ma rispetto al mostruosamente affascinante predecessore, c’è quel fisiologico istinto sulfureo, che da un alone di tenebra il quale solo in parte dirada, a cominciare dall’incalzante mid tempo di “Long black waves” dove, attenzione, assistiamo alla prima delle otto prove fantastiche alla voce per Jennie-Ann, una che è come il vino buono e migliora di anno in anno, la sua interpretazione sia qui che in tutte le altre sette tracce del disco è il valore aggiunto, ditemi voi se c’è in questo momento, se escludiamo la dea Anneke Van Giersbergen, una frontwoman così ispirata, e che si lascia trasportare in tal modo, capace di emozionare e far “vivere” le proprie canzoni, anche nella successiva e quasi radio friendly “I see you better in the dark” la bionda svedese riesce a trasportare un mood quasi scanzonato, in barba al titolo così minaccioso. La cosa prosegue con la doppietta delle meraviglie “My hair is on fire (But I’ll take your hand)” e “Lovers give a kingdom yo each other”, qualcosa che a parole è difficile spiegare, il pathos raggiunto da queste due tracce è enorme, le atmosfere cupe, ma sognanti, che danno sempre una speranza, sono qualcosa che solo gli Avatarium in questo momento riescono a sublimare e poco conta se la successiva “Being with the dead” parte con un riffone a-la Candlemass, Jennie e soci riescono a trasformarla in apertura melodica settantiana con naturalezza.
Tutto rose e fiori quindi? No, “Until forever and again” è costituita della stessa pasta, ma un po’ ridondante, come se Marcus e consorte non riuscissero a venire a capo di un ginepraio nel quale si sono infilati e lo strumentale “Notes from the underground” non aggiunge nulla al contesto, ma da il là al buon Marcus al suo solismo di gusto, seppur Malmsteeniano, ma sono dettagli, la chiusura è affidata alla title track, qualcosa di magnificamente emozionante, una ballad pianistica solo in parte squarciata dalla chitarra e tanto per cambiare, interpretata sontuosamente da Jennie, che ci trasporta in turbine di sensazioni intense, sublimate da un finale magniloquente!
C’è poco altro da aggiungere, se non che qui siamo di fronte ad una band superiore, capace di combinare melodia e robustezza senza essere scontata e zuccherosa, e quando un’entità del genere lascia l’ascoltatore senza parole, mentre (brutto vizio il nostro) cerchiamo di accostarla a qualcosa già sentito o già proposto anche in altri ambiti, beh, ci sarebbe solo da fare una cosa, supportarla in ogni modo, per far sì che la musica che amiamo non muoia o perlomeno non cada in quell’oblio nella quale, purtroppo, sembra destinata, gli Avatarium ci danno l’ennesimo mezzo per scongiurare questo triste destino, sta a noi cogliere l’occasione.
01 Marzo 2025 1 Commento Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Un’artista del calibro di Robin McAuley non necessita dal sottoscritto alcun tipo di presentazione. Un cantante ed un interprete sopra la media, ben oltre il minimo comune denominatore.
Rispetto ai precedenti due dischi solisti editi sempre da Frontiers (complessivamente siamo al quarto) cambia la produzione (ora in mano ad Aldo Lonobile) e la backing band (confermato il solo Andrea Seveso alle chitarre), tutta italiana.
Un muro sonoro più Clean e un’attitudine leggermente poco più heavy, ancor meno keyboard oriented, ma pur sempre melodica nel processo di songwriting sono i markers di distanza rispetto ai lavori precedenti.
Mentre il timbro del nostro irlandese sembra non voler invecchiare col passare degli anni.
Se chiudiamo gli occhi ci sembra di risentire la medesima ugola che illuminava i lavori targati McAuley Schenker Group, usciti oramai 35 anni fa e oltre…
I momenti più ispirati sono quelli in cui si ripropone il trademark Rock più ottantiano; volenti o nolenti riconducibile al passato più illustre del cantante (classe 1953!!): brani come “Let It Go”, “Reason” o ancora “Paradise” eludono la volontà dell’ascoltare di sentire qualcosa di inatteso o innovativo, riproponendo schemi e riff non di prima cottura ma favorevoli agli intenti fluidi e sedotti dal buon gusto.
Piacevoli e definite le Black Swaniane “Wonders of the World” e “Bloody Bruised And Beautiful”, connubio riuscito tra presente e passato, melodicamente compatte. Quando si punta all’aggressività (‘The Best of Me’) si rimane potenti ma inevitabilmente inflazionati.
Tra i brani più memorizzabili per appeal, cito ‘Crazy’, per i suoi piacevoli cambi di ritmo e per la ricerca di una melodia suggestiva, e “One Good Reason”, pungente, dotata di un ritornello a la Scorpions, calibrato e vincente. Percorso similare nella costruzione di “Born To Die” con quel basso pulsante ed espressivo.
Il difetto di un disco come ‘Soulbound’ rimane nel suo eccesso di coesione; privo di veri ed incisivi highlights e di una o due canzoni in grado di elevare l’intero lavoro e di direzionare la bussola artistica anche altrove; estremamente compatto come un insieme di nuvole che si muovono assieme e non riescono a distaccarsi l’una dalle altre, esente altresì da evidenti cadute di stile e quindi di brani da skippare.
Il risultato finale rimane ad ogni modo più raffinato che anonimo, per via dall’indiscutibile attrattiva di Robin di tenere l’ascoltatore saldato alle casse d’ascolto per mano di un’ugola davvero comparabile a uno di quei vini da degustazione pura.
27 Febbraio 2025 1 Commento Giulio Burato
genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Il tema infuocato rimane un cardine per i recenti artwork degli svedesi Perfect Plan che, dopo “Brace for impact” del 2022, tornano a riscaldare i fans con “Heart of a lion”, nuova uscita discografica di inizio 2025, la quarta in carriera.
La formula musicale sostanzialmente con cambia, anzi ritorna alle origini del loro primo album “All Rise” con un A.O.R. cristallino condito da un ricco dosaggio di tastiere, miele per i padiglioni auricolari. Non cambia anche la formazione capitanata dalla bella voce di Kent Hilli, Rolf Nordström alla chitarra, Mats Byström al basso, Fredrik Forsberg alla batteria e Leif Ehlin alle tastiere.
Si parte con la title-track un connubio perfetto di armonie di chitarra, batteria trascinante e un ritornello subito memorabile.
Il primo singolo rilasciato “We are heroes” è un inno rivolto alle persone (dottori, pompieri etc.) che indossano la veste di “eroi” di tutti i giorni. Canzone delicata nel suo incedere inziale ma che poi si apre ad una coralità contagiosa.
Le tastiere svettano nell’olimpo musicale in “All Night”, un mix tra gli Europe degli anni ’80 e i Survivor; stessa sensazione in “Too tough” in cui Kent Hilli sfoggia la sua notevole ugola.
Mentre “Lady Mysterious” aggiunge una spolverata blues con quel hammond che solletica la base della canzone, il lento “My Unsung Hero” fonde melodie con testi profondamente emozionanti dando a “Heart of a lion” un valore aggiunto.
Altro sigillo è “Turn up your radio” con un ulteriore ritornello che sale sino alle vette celestiali e con un Rolf Nordström che regala un assolo frizzante; altro omaggio alla band di Joey Tempest in “At your stone” e in “Danger on the loose” che ha un intro caro alle female-band per eccellenza, le Vixen.
All’appello mancano “Ready to break” e “One touch”; la prima mi porta ai Giant, band in cui Kent è recentemente subentrato dietro al microfono, mentre la seconda è sognante e nostalgica.
Un album che colpisce al cuore per freschezza compositiva e perizia strumentale; un salto agli anni d’oro dell’hard rock melodico. Per gli appassionati del genere, da comprare senza indugi.
27 Febbraio 2025 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy
Uscita da segnalare per gli inglesi Heaven’s Reign, con il loro hard rock di stampo classico, dai riff e dagli arrangiamenti particolarmente interessanti.
Introduciamoci nell’album: “City Sights” ci riporta subito ai classici anni ‘80, in tutte le sue componenti, sia strumentali che vocali, facendoci subito capire su quali frequenze siamo sintonizzati. Proseguiamo con “Here We Go Again”, sempre sulla stessa lunghezza d’onda, tosta, piena e ben strutturata, dall’ottimo groove. “Fire My Blood” non molla un colpo, dandoci una sensazione positiva di continuità tra le tracce, sempre ben orientate verso l’hard rock e dalle ritmiche importanti. Con “Lady Of The Night” ci addentriamo in atmosfere più oscure e taglienti, mantenendo sempre altissima la qualità del prodotto. Dolce e al contempo granitica, “Born To Fly” può essere definita una semi–ballad, dal gusto antico e dalla realizzazione impeccabile. Arriviamo alla title track “Northern Lights”, ampia e ariosa, dal richiamo epico ma un po’ scontato, di certo non proprio il brano più azzeccato del disco. “Listen To Your Heart” ci apre il cuore con le sue vibrazioni intense e melodiche, dal ritornello che resta impresso, giusta pausa di riflessione a questo punto del lavoro. Passa velocemente “Bad Boys”, cupa e spietata, originale a suo modo, e ci trasporta alla successiva “The Good Die Young”, dove ancora una volta possiamo gustarci l’ottimo lavoro strumentale svolto, soprattutto a livello ritmico e chitarristico. Dopo “Never Again”, corposa e scatenata, giunge il momento di tirare le somme: album eseguito in modo impeccabile, in stile classico e funzionale, piacevolissimo all’ascolto, quindi ampiamente promosso!
26 Febbraio 2025 4 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 2025
etichetta: SeelHeart Records
Puntuale come un Casio al quarzo made in Japan del 1985, Steve Emm torna con il suo quarto album, Pulsar. Dopo aver conquistato il nostro referendum di redazione e il podio degli Awards di Rock Of Ages, il nostro AOR-Man, sperduto negli anni ’80, si candida di diritto a un posto tra i dischi più rilevanti dell’anno.
Ciò che mi stupisce di Stefano Mainini, aka Steve Emm, è la sua straordinaria capacità creativa e la vena compositiva praticamente inesauribile. Pensate che, in soli quattro anni, ha pubblicato ben quattro album AOR, un disco di bossa nova sperimentale, un progetto di retro synthwave, un album punk/metal con i Visione Inversa (QUI la recensione) e, udite udite, un disco black metal a nome Zaphanel. Ho sempre pensato che pubblicare troppi dischi in poco tempo fosse un limite per la creatività, rischiando di portare a ripetersi e di bruciare la scintilla artistica. Ma qui ci troviamo di fronte all’eccezione che conferma la regola: un vero vulcano di idee, guidato da una passione smodata per la musica a 360 gradi, capace di sfornare gemme a getto continuo.
Questo “Pulsar” non fa che confermare la mia impressione: dieci brani capaci di catapultarci nel 1985 con una naturalezza e un’immediatezza che mancano a molti altri interpreti dello stesso genere. L’ho già scritto nelle recensioni dei suoi precedenti dischi e lo ripeto: questo ragazzo sembra provenire da un’altra epoca. Non si limita a riprodurre il sound e le atmosfere degli anni Ottanta, ma le incarna e le trasforma in musica. Come avveniva nel precedente “Framework”, si prosegue con il mood da ‘colonna sonora’, nel senso che ogni canzone ha un tema accostabile a un film o a una serie TV dell’epoca. È, a suo modo, un’opera cinematica: ascoltate la musica e poi provate ad abbinarla a un film o telefilm, un gioco che stimola l’ascolto e, per chi ha vissuto quegli anni, rappresenta un vero e proprio tuffo nei ricordi.
In “Pulsar”, però, gli arrangiamenti appaiono ancora più raffinati rispetto ai lavori precedenti, spostando leggermente il focus verso sonorità più hi-tech. Questo li rende forse meno immediati, richiedendo un paio di ascolti in più per coglierne appieno ogni sfumatura. Inoltre, questa volta il buon Steve si avvale della collaborazione di ospiti che arricchiscono il sound con le loro peculiarità, conferendo al disco un respiro più ampio. Il risultato è un album che si lascia ascoltare con grande piacere, un vero gioiello per chiunque si consideri un cultore del genere, desideroso di scoprirne ogni dettaglio nascosto.
Vi invito dunque vivamente ad ascoltarlo e a perdervi nelle atmosfere di brani come la serrata e super catchy “Into the Fire”, in cui compare come special guest la voce dal potenziale da fuoriclasse di Matteo Bertini. Un altro pezzo straordinario è “Never Too Young to Die”, che ospita il secondo duetto con Alessandro Del Vecchio, il quale, come sentirete, sembra divertirsi come un matto, regalando una prestazione da fuoriclasse. Su “Body Talks” e “Private Justice” aleggia l’ombra di Tim Feehan, mentre “Hard Day’s Work” sembra un outtake degli Huey Lewis and the News. Fighissimo anche (e finalmente, dico io) il lento crepuscolare “Too Little Too Late”.
Notevoli e preziosi i numerosi inserti di sax di Manuel Trabucco, che arricchiscono il sound di un disco che, anche quest’anno, si pone come riferimento assoluto del genere. E, per favore, non ditemi che in Italia non siamo capaci di fare musica sopraffina, perché questo album vi smentirà… sonoramente.