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Lionville – Supernatural – Recensione

15 Novembre 2024 7 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Uno dei dischi più attesi del 2024 era sicuramente il nuovo lavoro dei Lionville, band fondata nel 2010 dal cantante e chitarrista genovese Stefano Lionetti che col tempo si è guadagnato una grande fama a livello internazionale. La sua creatura nata anche grazie al supporto iniziale di Alessandro Del Vecchio e Pierpaolo “Zorro” Monti ha trovato nel corso degli anni una formazione stabile e affiatata fino al qui presente Supernatural dove è avvenuto l’avvicendamento dietro al microfono tra l’uscente Lars Säfsund (Work Of Art) ed il nuovo arrivato Alexander Strandell (Art of  Nation, Nitrate). L’innesto di Alex ha comportato una leggera variazione nelle composizioni che ora suonano più fresche ed energiche pur mantenendo sempre un altissimo tasso melodico. Il risultato finale è di altissimo spessore e pone la band tra le migliori a livello mondiale nel loro genere.

Le 11 tracce che compongono l’album si collocano a metà strada tra Toto e Journey con almeno 4/5 brani da considerarsi delle vere e proprie hit. L’apertura affidata a Heading For A Hurricane ci introduce nella nuova versione della band grazie ad un ritornello da stadio e ad un tessuto chitarristico che affonda le radici nell’hard rock di fine anni 80 (alla Giant di Time To Burn per intenderci). Il singolo di lancio Supernatural vi si stamperà in mente già dal primo ascolto così come la seguente power ballad Gone degna dei Danger Danger dell’esordio. Breakaway sembra scritta per fare da colonna sonora a Rocky o Top Gun mentre l’eterea The Right Time (una delle vette dell’album) mi fa tornare in mente Stand Up dei Def Leppard. La moderna Nothing Is Over si piazza ai livelli di Creye, Degreed, Eclipse ed H.E.A.T., insomma il meglio che la scena melodic rock attuale possa proporre. La splendida ballad Unbreakable arriva dritta al cuore mentre la grintosa e moderna The Storm si rifà al già citato panorama rock scandinavo. Il classico Lionville-sound fa capolino nella suadente Another Life che vi riporterà ai dischi precedenti della band. Siamo ormai ai titoli di coda ma anche The One e la conclusiva Celebrate Our Life hanno un tiro incredibile e fanno venir voglia di riascoltare tutto dall’inizio. Un album impeccabile, praticamente perfetto sotto ogni punto di vista. Le chitarre robuste ma allo stesso tempo brillanti della coppia Lionetti-Cusato si innestano su abbondanti ma mai invadenti tappeti di tastiere (Fabrizio Caria) e si affiancano magnificamente ad una sezione ritmica (Dagnino-Malacrida) che non sbaglia un colpo.

Arrivati a novembre possiamo ormai dire senza ombra di dubbio che questo lavoro abbia tutte le carte in regola per candidarsi a disco dell’anno senza se e senza ma.

Aursjoen – Strand – Recensione

14 Novembre 2024 2 Commenti Samuele Mannini

genere: pop wave folk
anno: 2024
etichetta: Stratis Capta Records

Oramai dovreste saperlo, ogni tanto amo andare clamorosamente off topic, però quando nella lista dei promo trovo materiale interessante e magari il carico di uscite da recensire lo permette, adoro proporre ai lettori del sito anche cose poco ortodosse. Certamente non considererò questo disco nella nostra abituale classifica di fine anno, prendetela come una scoperta che magari a qualcuno con gli orizzonti musicali più aperti ( e so che ce ne sono molti) farà piacere ascoltare.

Terminato il disclaimer andiamo a conoscere la protagonista di questo Ep, ovvero Ria Aursjoen.  Cantante e tastierista del gruppo post-punk di San Francisco, Octavian Winters. Ria Aursjoen è inoltre cantante e polistrumentista di formazione classica ed esperta di arti visive con un passato intriso di generi che vanno dal folk celtico e nordico alla darkwave e al progressive metal. (e qui almeno un aggancino tematico per il sito l’ho trovato :-))

Se volessimo definire il disco con un aggettivo quello che mi sembra più calzante è: etereo. Tutto si svolge intorno ad atmosfere nordiche leggiadre ed armoniose, crepuscolari ed evocative e, se vi venisse in mente la prima Bjork, non sareste poi così lontani dalla realtà. Le citazioni possibili sono però anche molte altre, tocchi i folk alla Lorena McKennitt e le atmosfere pianistiche che rimandano a Tori Amos, possono essere certamente altri punti di riferimento nel cercare di identificare le coordinate sonore, ma se volessimo estremizzare, anche certe pennellate presenti nei dischi degli Amorphis vanno a pescare nella tradizione del folk nordico, rendendo quindi certe assonanze facilmente assimilabili.

Certamente non è un disco per tutti, bisogna ascoltarlo con il giusto mood emotivo, ma è estremamente evocativo come raramente mi è capitato di ascoltare negli anni.  Prendiamo Nytar per esempio, riflette la transizione del mondo fuori dalla pandemia. Scritta durante la notte di Capodanno del 2022, questa traccia evoca immagini di cristalli di ghiaccio trasportati dal vento in una serata invernale, simboleggiando il desiderio collettivo di ritrovare la luce e il calore dopo tempi bui, Nytar infatti in danese significa anno nuovo. Su “Apollo” la voce svetta suprema andando a toccare registri mistici mentre ai odono echi di certe composizioni dei Type o Negative mentre “Lilypad” viaggia delicatamente in bilico tra evocazione  ed ossessività allo stesso tempo. Suns of Tomorrow è traslucida e diafana quasi incorporea ed ipnotica. “For Want Of”, il secondo singolo rilasciato, si svolge languida e sognante e ditemi poi se l’interpretazione non vi ricorderà la Tori Amos più introspettiva e sinfonica o la Anneke van Giersbergen più alternativa. Chiude la title track “Strand” dove  le atmosfere folk si mischiano ad arie che potrebbero appartenere alle ultime produzioni degli Anathema.

Insomma la faccio breve, se vi ho incuriosito e vi va di ascoltare qualcosa di diverso dal solito, prodotto da Dio e che inoltre possa stimolare emozionalmente tutti i vostri sensi, io vi consiglio vivamente di dargli un ascolto, la mente aperta non fa mai male.

7Th Crystal – Entity – Recensione

08 Novembre 2024 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Per rispetto a chi si impegna tanto per far uscire un disco di questi tempi, prima di scrivere una recensione ascolto l’album per intero almeno 4-5 volte, di cui almeno due sull’impianto Hi-Fi, seduto in poltrona. A volte è arduo mantenere questo impegno, ma non è questo il caso: la voglia di ascoltare la nuova fatica dei 7Th Crystal a ripetizione è venuta subito, e dopo numerosi ascolti, mi sento pronto per scriverne.

“Entity” è un album che propone una rivisitazione completa del concetto di hard rock moderno. All’interno di ogni canzone, la band riesce a fondere elementi tipici dell’hard melodico scandinavo con potenti riff di origine power e heavy, oltre ad arrangiamenti che, oserei dire, sfiorano il progressivo. Ogni traccia è un patchwork riuscitissimo che mescola tutte le anime dell’hard and heavy, intrigando l’ascoltatore ad ogni passaggio e conferendo alla band un tratto distintivo unico nel genere.

In passato, avevo ascoltato alcune canzoni dei precedenti album dei 7Th Crystal e ne ero rimasto intrigato, tanto da voler recensire assolutamente questo nuovo disco. Devo dire che l’evoluzione del loro sound è davvero impressionante. Mi ripeto, pur non inventando nulla di completamente nuovo, la miscela creata è altamente coinvolgente ed il disco cresce con ogni ascolto, spingendo l’ascoltatore a coglierne ogni piccola sfumatura. Il contrasto e il contrappunto tra i vari brani sono sempre azzeccati, e la voce di Kristian Fyhr spesso raggiunge registri simili a quelli di Danny Vaughn, ma con una vena interpretativa originale, multicolore ed evocativa.

Qualche esempio random? Perché no… “404” è ossessiva e aggressiva, ma si canticchia subito con piacere nella sua sofisticata semplicità. “Architects of Light” inizia con un’introduzione funerea, crescendo nella strofa con punteggiature prog. La canzone sfocia in un cantato moderno che potrebbe sembrare un pop rock da classifica, per poi sorprendere con un ritornello iper melodico e catchy, ma epico allo stesso tempo. “Interlude” inizia con un’introduzione narrata, accompagnata da motivi sonori che non sfigurerebbero in gruppi più estremi. La canzone si sviluppa su un potente riff power ed un cantato aggressivo, per poi sorprendere con un ritornello in stile Eclipse. È incredibile come il tutto risulti estremamente funzionale e ben orchestrato, soprattutto per me che gli Eclipse non li reggo nemmeno tanto… Che faccio? Siete curiosi? Vado avanti? Ma sì, dai… “A Place Called Home” comincia così sempliciotta che sembra impossibile che poi si sviluppi in modo così arioso ed etereo, mentre la conclusiva “Song Of The Brave” è epica e sognante, e vorresti che durasse un quarto d’ora.

Questo disco entra direttamente nella mia top ten perché rappresenta un esempio di come si possa rinnovare e reinterpretare un genere ormai più che cinquantennale. Prestando attenzione ai testi, agli arrangiamenti e alla produzione, i 7Th Crystal non temono di attingere dalle varie tradizioni musicali delle numerose branche del genere, ma lo fanno con una perizia e una passione eccezionali. Ed ora via con il 58 esimo ascolto! Must Have.

 

 

Fighter V – Heart Of The Young – Recensione

07 Novembre 2024 3 Commenti Giulio Burato

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Rock Atack Records

Tornano dopo ben cinque anni e diversi cambi di line-up i promettenti svizzeri Fighter V che seguono le orme dei connazionali Gotthard e che già si erano fatti notare col loro album di esordio.
Il cambio di frontman è sempre un passaggio delicato e difficile da digerire per i fans di qualsiasi band. Nel primo album alla voce dei Fighter V c era Dave Niederberger che nel 2021 ha lasciato la band per problemi vocali; subentra ora Emmo Acar, dal timbro vocale più roco.
“Heart of the young” è un album con varie influenze che passano dagli adorati anni ’80 del hard rock melodico ai recenti gruppi della scena scandinava.
Nel primo singolo rilasciato intitolato “Eye to eye” viene a galla la voce più ruvida di Emmo che mi destabilizza rispetto alla precedente uscita discografica. Ascolto dopo ascolto però ci faccio l’orecchio.
La title track e la successiva “Run N Hide Away” sfoggiano un fiume di tastiere, sapientemente gestite da Felix Cammerell, presenti in maniera copiosa in tutta la release.
Un piccolo gioiello è la quarta traccia “How low” dal coro molto “leppardiano” che sposa alla perfezione quanto espresso negli anni dagli H.e.a.t. Acar risulta più controllato nei toni vocali e tutto fila alla perfezione.
Andatura molto serrata, mitigata solo dall’intro blues chitarristico, per “Speed Demon” che ricorda le sfuriate di Y.Malmsteen. La power ballad “Bringing It Back” spara un altro incredibile ritornello che mi trafigge il padiglione auricolare. E il sax come assolo? Canzone fantastica.
Sapore da colonna sonora ottantina per “Miracle heart” che ci ricorda quanto erano grandi i Surviror mentre con “Stepped On A Landmine” vengono omaggiate band come Deep Purple e Van Halen.
Tappeto rosso per il lento “I’m There”, emozionante e dalle orchestrazioni sonore da brividi, arricchite nuovamente da un sax che fa salire la pelle d’oca in chiusura di canzone.
In “There Is No Limit (Speed Limit)” sembra cha appaia un clone di David Coverdale, e il serpente bianco stringe il “Heart of the young”. Combo di voci grazie alla presenza di John Diva nella adrenalinica “Power”. Si chiude con “Radio Tokyo”, devota ai Brother Firetribe, che riassume e sintetizza perfettamente la caratura di questo album.

Nationwide – Echoes – Recensione

01 Novembre 2024 2 Commenti Francesco Donato

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Gli scandinavi Nationwide esordiscono sulle scene con un album piacevole che si lascia ascoltare andando “diritto alla meta” senza inciampare mai nella noia.
Per sintetizzare quello che troverete dentro questo “Echoes” è un ottimo album di hard rock melodico fondato su una minuziosa ricerca dell’orecchiabilità, caratteristica che rende il lavoro non di certo originalissimo per via delle influenze entro cui si muove la band, ma sicuramente altamente valido. Pur essendo autoprodotto dalla band, dietro le fila di “Echoes” si è mosso in fase di mixaggio e mastering uno dei big della scena, ovvero Erik Martensson degli Eclipse.

L’opener “Fade Away” costruita su ottime melodie e una trascinante interazione di chitarre e tastiere ci consegna subito una band in grande forma, con un’ incisiva prova vocale di Daniel Groth. “Echoes” è anche un album in cui i suoni risultano finalmente freschi e poco “addomesticati”, cosa non da poco rispetto alle molte uscite di genere.
La seconda traccia è l’ottima “Dreams” , pezzo ben suonato e arrangiato dove è ancora la melodia a far da padrona con chiari richiami AOR.
Si prosegue con “Can’t Get Over You”, pezzo dal netto taglio Danger Danger, sorretto da una bella linea vocale incisiva e da un ritornello urlante.
“Without You” è uno dei tre singoli estratti, anche in questo caso si viaggia su territori marchiati da band come i già citati Danger Danger e tutta la derivativa scena scandinava degli ultimi decenni.
Ottime prove risultano anche le ritmate “In Your Eyes” e “Passion Ignite”. La titletrack strizza l’occhio ai migliori Bon Jovi degli anni 2000, rivelandosi un’altra grande canzone dell’album. Sul finale di solito ci si aspetta qualche filler, ma ecco “The One”, secondo singolo, che mantiene in piacevole tensione l’ascolto.
A far passare il mio voto da 80 a 85 è la delicata ballad “The Last Goodbye”, un pezzo aperto da piano e voce nella premiata tradizione bonjoviana, che alla lunga risulterà vincente proprio nella sua semplicità. Riffone di chitarra e parte “Reason”, il primo singolo con i quali i Nationwide si sono presentati. Chiude l’hard rock potente di “The Other Side”, giocata su ottimi intrecci chitarra e tastiera.

“Echoes” è un ottimo album, maturo, non scontato e soprattutto suonato ed arrangiato molto bene. I Nationwide sono una bella scoperta, un esordio che certamente lascia il segno in questo 2024.

Casandra’s Crossing – Garden Of Earthly Delights – Recensione

26 Ottobre 2024 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Che George Lynch sia diventato un creatore seriale di progetti discografici è oramai cosa arci nota, che tali e tanti progetti abbiano avuto (chi più, chi meno) rilevanza artistica è tutto un altro discorso.  Questa volta l’artista coinvolta in questa avventura è Casandra Carson, già voce nella band hard rock a stelle e strisce Paralandra, che dà addirittura il nome al progetto, segno evidente che Frontiers vuole introdurre anche sul mercato europeo questa cantante dalle innegabili doti interpretative.

Il disco musicalmente si colloca non lontano da ciò che Lynch ha recentemente offerto con i suoi The End Machine, ma a mio avviso, in determinati punti va più vicino a quello che aveva proposto nel progetto Dirty Shirley insieme al vocalist Dino Jelusick ovvero un hard blues rovente ed aggressivo, che non manca certo di attingere a piene mani agli Zeppelin ed agli Whitesnake, inacidendone però il suono e trasportandolo alle coordinate delle sonorità odierne.

Il disco parte a bomba con il singolo “Stranger” dove il buon George si autocita prendendo il riffing pari pari  dai Dokken dei tempi che furono, ma anche se si tratta di un brano di più di cinque minuti, funziona dannatamente bene. La seguente “Impatient” è un mid tempo molto articolato dove la voce di Casandra ci prende per mano guidandoci in un acido viaggio che sfocia nel torrido e onirico (magari un po’ prolisso) assolo di Lynch. Si prosegue con l’ammiccante “Closer To Heaven”  ed anche qui la vocalità della nostra protagonista la fa da padrone, facendoci canticchiare  quasi involontariamente  il ritornello. Il quarto brano è l’allegrotta e catchy “Ring Me Around” gradevole ed efficace, scorre bene seppur non lasci il segno. Eccoci poi al mio brano preferito, ovvero “Devastating Times” energico ed intenso, ma anche orecchiabile ed immediato.

Ma quindi, mi direte, se son tutte rose e fiori perché non hai dato un voto più alto? Beh perché da qui in avanti la mia soglia di attenzione comincia ad abbassarsi pericolosamente e le canzoni seguenti diventano una sorta di gradevole rumore di fondo. A partire dalla anonima e  pseudo southern “Waltzing Nites” e, seppur la seguente “Just Business”, mi rialzi un po’ il morale ricordandomi i già citati Dirty Shirley, le ultime quattro canzoni scorrono via anonime, con annessi sbadigli e voglia di skippare. Probabilmente un disco di 7 canzoni era un po’ troppo corto, ma 11 songs con più di 50 minuti di durata devono aver prosciugato eccessivamente la vena creativa dei protagonisti.

In sostanza il disco piacerà sicuramente ai fans di Lynch e ci mostra anche una Casandra Carson in splendida forma, probabilmente destinata a comparire in numerosi altri progetti Frontiers, ma temo molto che il limite sia proprio questo, sono progetti e non band… e alla lunga possono stancare…

Nota a margine per la copertina che finalmente denota una certa attenzione e gusto, cosa non certo comune al giorno d’oggi.

Daytona – Garder La Flamme – Recensione

24 Ottobre 2024 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Escape Music

In uscita, per tutti gli amanti del sound hard rock anni ‘80, il nuovo lavoro dei Daytona, superband di volti noti nell’ambiente, che propone brani tosti e genuini, dallo stile pregevole.

Addentriamoci nel mondo Daytona: “Welcome To The New World” è un manifesto coerente del loro stile, un’ottima apertura che ci fa capire la natura della musica proposta. “Kelly” presenta una pasta sonora scarna e non particolarmente impattante, sfociando senza grandi rimpianti in “Through The Storm”, più riflessiva e coinvolgente, dalla buonissima intensità emotiva. Sempre sulla stessa linea dei brani precedenti troviamo “Downtown”, cadenzata, dalle atmosfere oscure e crudeli. “Time Won’t Wait” ci risveglia sensazioni malinconiche e uggiose, giocando molto sulla dinamica strumentale, dando così prova di una buonissima tecnica individuale da parte della band. Senza allontanarci molto dal mood dell’album, troviamo “Looks Like Rain”, non molto originale e a tratti un po’ scontata, così come la successiva “Town Of Many Faces”, sfortunatamente non molto accattivante. Con “Slave To The Rhythm” qualcosa si muove, avvicinando il sound della compagine svedese a qualcosa di più americano, senza mai eccedere in originalità, ma limitandosi a dare sfoggio di grande quadratura e tecnica. Arriviamo alla title track, “Garder La Flamme”, brano molto articolato, dalle molteplici sfaccettature, pregevole e finalmente frizzante. Cala il silenzio sulle note di “Where Did We Lose The Love”, sempre orientato verso un hard rock melodico ben riconoscibile.

Nel complesso ci troviamo di fronte ad un lavoro ben eseguito e prodotto, ma che pecca molto per originalità e dinamica, risultando a volte ridondante e monotono, nonostante la presenza di alcuni spunti tecnici interessanti.

Moonpark – Good Spirit – Recensione

22 Ottobre 2024 0 Commenti Denis Abello

genere: Melodic rock
anno: 2024
etichetta: Indipendente

I Moonpark, band originaria della Repubblica Ceca, sono nati come tante altre realtà dalla comune passione per il melodic rock / hard rock di alcuni musicisti che, sin dagli esordi, hanno saputo combinare influenze classiche e contemporanee. Fondati nei primi anni 2000 da Jiri Doležel (chitarrista) e Michal Koláček (cantante), i Moonpark hanno iniziato a farsi strada nel panorama europeo grazie a un sound che mescola melodie accattivanti e riff emozionanti nel più classico stile del melodic rock di matrice Europea.

“Good Spirit” è infatti un album che mescola rock melodico e hard rock, supportato da una produzione precisa e pulita. Il disco è stato curato dal produttore americano Derek Saxenmeyer che gli ha donato una qualità sonora pulita e ben bilanciata.

Le canzoni variano dalle più energiche, come “Dancing In A Lie” e “Blinding Fire”, a quelle più malinconiche e riflessive, come “Light In The Morning” e “When We Were Young”. La title track “Good Spirit” è probabilmente il cuore del disco, con la sua combinazione di melodie accattivanti e una forte energia.

Uno degli elementi di spicco dell’album è il lavoro di chitarra di Jiri Doležel, che spazia tra riff potenti e ritmi più delicati. Nei brani più veloci, come “Rock ‘n’ Roll Train”, la sua chitarra impone un ritmo trascinante, mentre in tracce più emozionali, come “Kiss Me” e “When We Were Young”, emergono arpeggi delicati e assoli melodici. La sua abilità nel bilanciare tecnica e sentimento contribuisce a dare coerenza al progetto.

La voce di Michal Koláček, sebbene solida, in alcuni brani risulta un po’ monotona e priva di quella carica emotiva che ci si aspetterebbe da alcune delle tracce più intense. Cito ad esempio “No Way Back”, dove la sua interpretazione risulta piuttosto statica. Questo porta a rendere alcuni momenti di questo Good Spirit meno coinvolgenti di quello che potrebbero essere.

In definitiva comunque “Good Spirit” si distingue come un album ben prodotto e coeso, capace di soddisfare gli appassionati di rock melodico unito ad una spruzzata di vigoroso hard rock. Band e album interessanti, come si direbbe… Buona la prima aspettando il colpaccio con il prossimo giro.

DGM – Endless – Recensione

21 Ottobre 2024 1 Commento Alberto Rozza

genere: Progressive Metal
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Uscita esplosiva per questa ultima parte del 2024: il supergruppo italiano progressive metal DGM arriva alle nostre orecchie con un nuovo album tutto da scoprire.
Una lieve e suadente chitarra acustica ci apre le porte dell’universo DGM: “Promises” si presenta così, con un’innata eleganza, una dinamica importante e una tecnica strepitosa, declinata attraverso tutti gli strumenti consueti e meno. Arriviamo così alla titanica “The Great Unknown”, che segue la filosofia strumentale della band e che ci permette di apprezzare appieno le doti vocali di Marco Basile, in un crescendo di emozione e di virtuosismo. Pienamente aderente al genere progressive, “The Wake” ci impressiona per complessità e trame oscure, un rollercoaster di sensazioni sempre più coinvolgenti. “Solitude” stupisce per dinamica e per gusto, un condensato di tecnica votata alla sensibilità, dalla coralità e dall’armonia complessiva veramente pregevole. Arriviamo alla folle “From Ashes”, movimentata e pestata, molto metallara e tirata, capace di far battere il piede durante l’ascolto e contemporaneamente lasciare a bocca aperta l’ascoltatore per un’esecuzione assurda. Giungiamo a “Final Call”, variegata e spietata, un piacere per le orecchie e un enigma per la mente: come si può rendere così godibile un tale labirinto musicale? “Blank Pages” può definirsi un lento, una ballata, un classico brano per rendere l’ascolto più dinamico e rilassante, una sorta di momento relax prima del colossale finale (che non si fa attendere): arriviamo dunque a “… Of Endless Echoes”, quasi una title track, quasi 15 minuti di pura poesia in musica, dalle variazioni e dai colpi di scena esagerati, un vero e proprio compendio di progressive metal.

In conclusione, ci troviamo di fronte a una delle migliori sorprese discografiche del 2024 (o riconferma, a voi la scelta): un lavoro maturo, eseguito in modo eccellente, tecnicamente sopraffino ma allo stesso tempo piacevole; interessante sarà inoltre ascoltare e vedere live la riproposizione di queste deliziosissime tracce.

Radioactive – Reset – Recensione

21 Ottobre 2024 2 Commenti Paolo Paganini

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Alzi la mano chi tra gli amanti dell’’AOR non conosce il nome di Tommy Denander, polistrumentista, produttore, compositore che calca ormai la scena musicale mondiale da decenni collaborando con i più svariati artisti, passando da Alice Cooper ai Deep Purple, da Anastacia a Tina Turner, oltre ad una serie di progetti che lo vedono coinvolto in prima persona tra i quali annoveriamo anche i qui presenti Radioactive giunti ormai al sesto album da studio. Come accaduto in precedenza Tommy si avvale della collaborazione di una nutrita schiera di ospiti tutti con un curriculum da paura.

L’album è praticamente un tributo ai Toto sia nelle sonorità che nella struttura delle composizioni, con qualche inserimento qua e la di Journey, Def Leppard e Foreigner. Il disco suona compatto e la maestria e la cura con cui tutte le canzoni sono confezionate è davvero qualcosa di impressionante. Nulla è fuori posto, nessun assolo non all’altezza tutto perfetto. Ma c’è un ma… eh si altrimenti non si spiegherebbe il voto finale. La verità è che pochi dei brani in scaletta prendono davvero il cuore dell’ascoltatore. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una copia dei Toto ma senz’anima. Alcuni brani più diretti come Sentimental, Shame On You, Sahme On Me o Hard Times To Fall In Love riescono a fare centro già dal primo ascolto mentre altri quali In A Perfect World, Reset o Midnight Train sembrano una vera e propria clonazione della band si Steve Lukater. Ci stiamo lamentano del brodo grasso? Si forse è così e sicuramente molti di voi non saranno d’accordo con le mie considerazioni ma la sensazione che si ha è proprio quella di trovarci davanti ad un mero esercizio stilistico. Proprio per quanto detto sopra non me la sono sentita di andare oltre al voto che trovate in fondo alla recensione.

Lascio a chi tra di voi avrà voglia di ascoltare questo cd se considerarlo un capolavoro da avere a tutti i costi e o se derubricarlo a uno dei tanti ottimi progetti del buon Denander.