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BLINDSTONE – Scars to Remember – Recensione

10 Agosto 2023 6 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Blues
anno: 2023
etichetta: Mighty Music

Era da un pò che non arrivavo a dire: ‘appena esce ‘sto disco, me lo prendo!’, ma anche quest’anno, come l’anno scorso per “Death, where is your sting?” degli Avatarium, è arrivato il momento e il platter in questione è “Scars to remember”, nono album in studio (decimo se si considera la compilation “Rare tracks”) degli hard/blues rockers danesi Blindstone, che cambiano etichetta discografica e passano dall’americana Grooveyard Records alla loro compatriota e molto attiva Mighty Music, ma non cambiano il loro tiro musicale, tant’è che se si fa partire L’iniziale “Embrace the sky” e si chiudono gli occhi, si ha la sensazione di essere trasportati in Lousiana o in Mississippi.

I Blindstone sono la classica formazione ‘power trio’ che nel mondo dell’hard/blues ha molte facce, ad esempio Cream o ZZ Top, e seppur non facendo niente di nuovo o particolarmente originale, lo fa maledettamente bene a tal punto che mi trovo in netta difficoltà a citare una canzone piuttosto che un’altra, forse il singolo con video annesso “Waste your time”, tipico pezzo hard/blues che si snoda su un riff circolare sorretto dal mid tempo della sezione ritmica e dalla voce graffiante del chitarrista Martin Jepsen Andersen, il quale centra il segno nel ritornello catchy che recita “I don’t care if you waste your time, just don’t you waste mine”, ma come ho già detto, fin dall’opener “Embrace the sky” e dalla successiva esaltante, irresisitibile” A scar to remember” ci si ritrova catapultati in un turbinio hard/blues che sa tanto di John Mayall, ma anche dei più recenti Jonny Lang e Kenny Wayne Sheperd, che si avvicina ai già citati ZZ Top nella cadenzata “In the eye of the storm”, che sfiora il Satriani più ispirato nella strumentale “The fields of Bethel”, il quale titolo fa capire quanto questa musica sia legata alla terra, i campi di Bethel nella Carolina del Nord sono tra i più fertili degli USA e nel brano i nostri tre si staccano un filo dalle sonorità prettamente blues, per sfociare in un mare di chitarra che rincorra basso e batteria incalzanti, che omaggia i Cream di “Crossroads” con “World weary blues” brano che decisamente sguazza nel blues più classico, che si avvicina all’hard rock purpleiano degli ultimi Spiritual Beggars con “Drums of war”, dal titolo che riporta ad avvenimenti tragici recenti, che si butta nel fumoso e sofferto lento “Drifting away” altro brano dal testo tristemente reale, cosa che peraltro riguarda anche la già citata “A scar to remember”, la quale parla della quasi irreale, sicuramente da ricordare, pandemia del 2020, infine che giostra sul mid tempo dalle classiche dodici battute, ma decisamente ispirato di “Down for the count” e “Shining on through”.

Cosa fa la differenza tra un disco così e un qualsiasi altro palesemente indirizzato verso un genere già sviscerato? Semplice, le canzoni, che risultano fresche ed ispirate, si sente che i tre rockers danesi vivono e respirano questa musica viscerale, si sente che hanno esperienza da vendere, si sente che con i loro strumenti ci sanno fare, ma non si perdono in tecnicismi fini a sè stessi ed il risultato è questo album godibilissimo, che scorre via esaltando sempre più ad ogni ascolto e che ti invoglia a riascoltarlo, per goderne appieno dell’ispirazione, cosa che non ti aspetteresti da gente che arriva dalle zone più settentrionali della Danimarca, ma il bello è proprio questo, anche in posti dove si pensa che la popolazione sia fredda, c’è chi scalda il cuore con la musica più vissuta e sentita del mondo e lo fa con enorme passione!

Hell In The Club – F.U.B.A.R. – Recensione

09 Agosto 2023 5 Commenti Giulio B.

genere: Hard Rock / Sleaze Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Gli italiani Hell in The Club arrivano al sesto capitolo della loro discografia, sempre maggiormente infernale, se andiamo ad analizzare copertina, titoli e testi del loro nuovo album in uscita tramite Frontiers il giorno 11/08/2023. “F.U.B.A.R.” (acronimo che potrebbe significare “Fucked Up Beyond All Recognition”, come la serie tv dello zio Schwarzy?), è stato registrato ai TMH Studio con Aldo Lonobile e in altri studi. Mixaggio e masterizzazione sono stati curati da Simone Mularoni ai Domination Studio di San Marino. La base solida della band è da sempre formata da Dave, Andy e Picco, mentre recentemente è stato inserito Mark alle pelli.

Passa subito alla mia vista la presenza nella tracklist di una canzone dal titolo italiano (“Cimitero vivente”) anche se è meramente una nota visto che la canzone è in inglese; la sua struttura ripercorre ciò che è presente all’interno di tutta release, ossia un sleaze rock con venature glam metal, e dove segnalo la mancanza di una power ballad, presente nelle precedenti uscite discografiche (su tutte ricordo le belle “Stars” e “Lullaby For An Angel”). I primi singoli rilasciati sono stati “Sidonie” e la folgorante “Total disaster”, canzoni con i contro***i che lasciano presagire la potenza diabolica di gran parte delle canzoni in scaletta. Senza soffermarmi ad un “elenco della spesa” vado a toccare i punti salienti al mio carrello uditivo. La canzone che più mi ha coinvolto per composizione e melodia è “The arrival”, con un perfetto connubio basso-batteria a supporto delle strofe e Picco che lavora sullo sfondo (prendendo spunto dalle ombre nell’artwork). Altro brano interessante è “The Kid”, carico e dal coro che si stampa “maledettamente” in testa al primo ascolto. Dinamitarda e senza fronzoli “Best way of life” mentre in “Tainted sky” appare un maggior spruzzo di melodia che mi riporta ai primi album. A chiudere l’album “Embrace the sacrifice” con interessanti variazioni di ritmo poste nel refrain.

A fare un breve riassunto, la prima parte dell’album (la vecchia side A) è uno scalino sopra alla seconda parte. “F.u.b.a.r.” è probabilmente l’album meno incentrato di melodia rispetto al passato ma, come ci hanno spesso dimostrato, gli HITC offrono sempre degli spunti compositivi interessanti.

Streetlight – Ignition – Recensione

09 Agosto 2023 6 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Ennesimo progetto proveniente dalla Svezia che si accasa sotto l’ala protettrice della nostrana Frontiers Records. Gli Streetlight nascono nel 2021 quando il il chitarrista Erik Tilling ed il cantante Johannes Hager decidono di unire le proprie forze per incidere la canzone Overjoyed e sottoporla al giudizio del vocalist Anel Pineda il quale pur apprezzando molto il lavoro svolto non inciderà il brano con i Journey. Nasce così l’idea da parte di Hager di portare ugualmente avanti il proprio sogno di fare musica nonostante l’abbandono di Tilling, costituendo il progetto musicale Streetlight che arriva oggi al debutto discografico. Il risultato è questo Ignition un album di classico AOR/Melodic Rock fortemente debitore a band quali Toto, Def Leppard, Chicago fino ad arrivare ai contemporanei Generation Radio e Roulette.

Già dalla copertina (Aviator?) si percepisce un chiaro rimando all’AOR anni 80. Tra i brani più interessanti troviamo l’opener nonché primo singolo estratto Hit The Ground, fresco e di immediata assimilazione e la coinvolgente Chutes And Ladders. Da segnalare il bel mid-tempo di Closer e la Leppardiana Awake. Non tutti i brani sono sullo stesso livello così capita che Fire Burnin’ e Love Riot risultino troppo scontati o che la ballad Words For Mending Hearts non faccia breccia nei nostri cuori. Tutto sommato un buon debutto per una band che ha ampi margini di crescita e miglioramento.

Damn Freaks – III – Recensione

04 Agosto 2023 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard n' Heavy
anno: 2023
etichetta: andromeda relix

Terzo album per i nostri Damn Freaks con annessi due scossoni, uno nella line up, dove se ne vanno il cantante Jacopo “Jack” Meille e il chitarrista Marco Torri, sostituiti da Giulio Garghentini, voce dei Dark Horizon e da Alex De Rosso, chitarrista dall’esperienza ultradecennale, essendo stato il sostituto di Alex Masi nei seminal Dark Lord, avendo avviato una buona carriera solista e avendo poi anche preso il posto che fu di George Lynch nei Dokken, seppur per un breve periodo e solo dal vivo, l’altra “spallata” arriva nel sound, sicuramente più vicino al metal che non all’hard rock tout court del precedente “Love in stereo”.

Detto questo, è facile capire che i due nuovi arrivati hanno dato un’impronta ben precisa alla musica della band fiorentina, anche se l’album è decisamente diviso in due parti, la prima che arriva fino a “My resurrection”, addirittura è un esempio di metal old style, con rimandi a certi gruppi della Ebony Records tipo Chateaux, ma soprattutto Grim Reaper, dove l’energia della tarda nwobhm veniva sapientemente fusa con parti molto più orecchiabili ed anche la produzione spavaldamente scarna e senza ritocchi, ricorda quelle ambientazioni, che magari facevano un po’ storcere il naso ai puristi del metallo, ma che ebbe il suo momento di gloria; con “You ain’t around”, ballad dal sapore agrodolce si assiste ad una netta sterzata, sia nella musica che nel modo di cantare di Giulio e da qui in poi, il class metal dei Dokken, dei Ratt o quello più sbarazzino dei Cinderella, fanno decisamente la parte del leone, ma andiamo per gradi. continua

Edward Reekers – The Liberty Project – Recensione

04 Agosto 2023 5 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock/ Prog. Metal
anno: 2023
etichetta: Mascot Label Group

Edward Reekers, cantante e polistrumentista noto in campo progressive anche per la sua partecipazione a vari album degli Ayreon, propone quest’anno la sua rock opera.  La traccia che si snoda attraverso il concept è quella di un universo parallelo scaturito da un secondo Big Bang, ma non è che le cose vadano poi in modo così diverso dal mondo che noi conosciamo, in una sorta di ripetizione senza redenzione della razza umana…

Musicalmente parlando siamo di fronte a tutto ciò che lo scibile del prog ha sciorinato negli anni e come mi è capitato già in passato di dire, recensendo concept album di simile estrazione, l’approccio consigliato è sicuramente quello di sedersi comodi, stile cinema, prepararsi a seguire la storia passo dopo passo ed immergersi nell’atmosfera musicale. Non è ovviamente un approccio facile, ma gli amanti del progressive saranno deliziati dal navigare attraverso atmosfere talvolta sognanti, talvolta serrate con sonorità più metal alternate, ad esempio, ad altre più vicine al pop, sul genere proposto dal Meat Loaf più teatrale.

Le parti che più ritengo coinvolgenti sono: il singolo ‘Good Citizens’, impreziosito dalla performance di Damian Wilson, l’epica cavalcata a tinte folk di ‘The Present Days’, oltre agli splendidi duetti e gli intermezzi di sax di ‘The Break Up’. Pur non essendo un fan accanito degli strumentali vorrei citare anche ‘Remember The Fallen, Celebrate Life’ che rappresenta un bignami di tutte le sonorità presenti nel disco.

In sostanza più di 80 minuti di viaggio nel progressive e nella sperimentazione che certamente renderanno il disco difficile da digerire ai più, ma che i progsters più sofisticati non mancheranno di gustare con soddisfazione.

Kent Hilli – Nothing Left To Lose – Recensione

04 Agosto 2023 12 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Torna (avete ragione, non si è allontanato di molto dai nostri condotti uditivi) uno dei Singer più medialmente chiaccherati e in parte apprezzati dell’ultimo lustro in campo Melodic Rock: Kent Hilli. Dall’esordio della band madre, i Perfect Plan, datato 2017, lo svedese ha avuto modo di mettersi in mostra con risultati che variano dall’apprezzabile all’ottimo; tre volte con la sua band di origine, con un bellissimo esordio solista, con i Giant (o quel che ne rimane), con il progetto T3enors, con i Restless Spirits. Da pochi anni nel mondo del music business che conta, ma già richiesto e di conseguenza inflazionato.

Ad opinabile parere del sottoscritto Kent è tecnicamente un buon cantante, carente di quella policromia vocale in grado di renderlo un ottimo cantante. Il rischio di “sapore” di una qualsivoglia eccessiva uniformità è dietro l’angolo, uscita discografica dopo uscita discografica, quindi…
quindi l’ago della bilancia è dettato dalla qualità delle canzoni a disposizione, scritte ad hoc per valorizzare la sua capacità espressiva, un mix di testosterone e romanticismo, su tonalità ed ottave alte, con un maggiore peso specifico attribuibile alla scelta degli arrangiamenti, eseguiti qui da uno stormo di ottimi musicisti in qualità di backing band.

L’esordio, ‘The Rumble’, mi aveva stupito: i richiami ai Survivor e ai Giant erano intensi, ricercati e ben confezionati, ancora oggi lo ascolto volentieri. Le coordinate artistiche non subiranno nel qui presente ‘Nothing Left To Lose’ una sensibile variazione, inserendo intermittenti tracce di cambiamento come puro processo evolutivo.

Passiamo quindi all’analisi del disco. Si parte molto bene con la sontuosa “Too Young”, colma di rivalsa, degna del Jim Peterik più aggressivo. La Title Track fa il verso a Joe Lynn Turner e alla sua versione dei Sunstorm . Con la seguente “Could This Be Love” iniziamo a percepire che il chiaro intento di replicare il successo del precedente sulle coordinate più congeniali, non riesce a soddisfare appieno le aspettative. Le soluzioni intraprese sono vincenti, ma, almeno fino ad ora, prevedibili. “A Fool To Believe” shakera l’ultimo compianto Jimi Jamison e lo stile di scrittura proprio del Melodic Rock scandinavo. La monotonia di “Stronger”, sentita e risentita, è spezzata da un ottimo lavoro di chitarra firmato Jimmy Westerlund. Veniamo alle vere perle. Le dinamiche estive e malinconiche di “Everytime We Say Goodbye” memore dei migliori The Storm. Song dalla melodia vincente. Il sax di “Does He Love Like Me” rende il brano notturno plasmando un’atmosfera romantica e dinamica, lontana dallo stucchevole: ottimo pezzo che eleva il proprio valore quando Chitarra e Sax dialogano in un’efficace parte strumentale. Il lento “Only Dreaming” è notevole, graziato da un’intensa e lunga tensione soffusa da armonie sofferte.

Globalmente l’impatto è meno intenso dell’esordio; ‘Nothing Left To Lose’ è un disco prevedibile ma non scontato. Le soluzioni pronosticabili ma funzionali levano un paio di punti a un lavoro complessivo in grado di regalare emozioni intervallate da qualche sbadiglio tipico di noi consumati naviganti mercenari del AOR/Melodic Rock.

Pride Of Lions – Dream Higher – Recensione

31 Luglio 2023 4 Commenti Lorenzo Pietra

genere: AoR / Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers Records

Presentare una band come i Pride Of Lions penso sia superfluo, e ogni uscita di questa grandiosa band AoR ha sempre aspettative molto alte, che non sempre lasciano il segno. Sarà il caso di questo nuovo e settimo sigillo Dream Higher?

Passiamo alle canzoni, infatti in occasione dei vent’anni del gruppo, Jim Peterik si affida nuovamente all’ugola calda e potente di Toby Hitchcock, una garanzia nel genere e una voce carismatica e coinvolgente. Ed il nuovo Dream Higher possiamo dire che non appaga al massimo le aspettative e soffre forse di troppo “mestiere” e meno “cuore” rispetto ai precedenti lavori.
La proposta musicale è quella che l’ascoltatore si aspetta da un disco dei Pride Of Lions e questo non lascia dubbi su cosa ci aspetteremo e sia chiaro che questo non è un brutto lavoro, emerge purtroppo un calo di creatività e novità ma che ad uno come Peterik può essere perdonato. In tutti i pezzi manca la scintilla, “IL” refrain vincente, nonostante non manchi mai la classe e la melodia che contraddistingue Peterik e soci.
I bei pezzi comunque non mancano con la bella Blind To Reason, un’opener di tutto rispetto, la title track Dream Higher e Another Life parlano l’Aor più classico e anche se un po’ scontate riescono a lasciare il segno. Ma è con le tracce più eightes che Jim e Toby riescono a divertire di più rieccheggiando il sound dei mitici Survivor, se vogliamo fare un “grande” paragone. Find Somebody To Love ne è un esempio lampante, mentre i momenti più westcoast e più soft li troviamo con Driving and Dreaming, fresca, solare, la ballad Everything To Live For e la conclusiva Generational.
Lato musicale non si può dire assolutamente nulla, Peterik e la sua chitarra sembrano parlare ad ogni nota, il disco è comunque registrato discretamente e Toby Hitchcock non sbaglia un colpo.

IN CONCLUSIONE :
I Pride Of Lions sono questi, prendere o lasciare, personalmente penso che cambiare o snaturarli non avrebbe senso ed anche se il sound e le canzoni hanno dei momenti di stanca, riescono comunque ad emozionare.

Tony Mitchell – Radio Heartbeat – Recensione

21 Luglio 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Pride & Joy

Ritorno gradevole in questo inizio estate per il grande Tony Mitchell, artista celebre e poliedrico, noto per la sua militanza nei Kiss Of The Gipsy e per aver preso parte in alcuni progetti di Alice Cooper e Alan Parsons Project.

Partiamo con la bonjoviana “Blue Lightning”, intensa e decisa, che apre in modo magistrale le danze. “Keep The Love Alive” cerca di staccarsi un po’ dal canone, soprattutto nella ritmica forsennata, risultando globalmente piacevole e frizzante. La title track “Radio Heartbeat” non splende per originalità, entrando senza troppa difficoltà nella miriade di esempi di genere, ma comunque egregiamente eseguita e col giusto grado di convinzione. Sound più oscuro con “Rockin In A Hard Place”, vocalmente rude e ritmicamente trascinante, che si getta nella successiva “Top Of The World”, classica ballatona con inizio al pianoforte che tanto scioglie il cuore di noi metallari. “Another Beat Of My Heart” non si scosta di una virgola dal genere: ampio, arioso, ritmicamente colossale, piace nella sua interezza, malgrado non lasci un grandissimo ricordo di sé. “Darkness Remains” si butta ancora sulle atmosfere oscure e tenebrose, che rendono il brano piacevole e intrigante, cosa che lo accomuna al successivo “This Side Of Midnight”, sempre dal sapore misterioso e drammatico. “Borderline” non presenta grandi variazioni sul tema, risultando gradevole ma banale. Leggera e solare, “Sunflower Girl” centra perfettamente il clima e i crismi del genere, passando senza fronzoli e gettandosi nella successiva “Find A Way”, un lento arioso e dolce, che spezza in modo azzeccato l’andazzo del disco. Per il finale, ci imbattiamo in “Phoenix Rising”, molto contemporanea, graffiante e tonante, leggermente più originale ed un po’ fuori genere rispetto al resto del lavoro, che, come il precedente, pecca forse di originalità, nonostante una esecuzione e una resa oggettivamente positiva.

Mitch Malloy – The Last Song – Recensione

10 Luglio 2023 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Godsend Records/ Cargo

Dopo 7 anni dall’ ultimo Making Noise ed a ben 31 dal folgorante debutto omonimo (Recensione QUI), vede la luce questo The Last Song che mostra il biondissimo e sempre in formissima Mitch, cimentarsi con tutti gli strumenti, nel songwriting, nel missaggio e nella produzione, come un vero tuttofare poliedrico.

Dopo aver sciolto il sodalizio con i Great White, si ripropone in quella che, secondo me, è la sua veste più consona, ovvero il solista; è infatti evidente come nella veste cantautoriale si trovi perfettamente a suo agio ed inoltre, la sua ottima vena di songwriter non può che trarre vantaggio dal poter tenere tutti gli aspetti della canzone sotto completo controllo. Eccoci dunque a questo The Last Song dove sono contenute dieci canzoni che parlano di tutto ciò che coinvolge la sua storia personale, della quale l’autore ci rende partecipi.

Le canzoni che più ho gradito sono le ballad, che a mio avviso sono sempre stati i pezzi pregiati dell’autore ed anche in questo caso devo ammettere che I See You, ma ancor di più la delicata ed intima Using This Song, danno un vero tocco di classe al menu. Ma non di sole ballad vive il rock ed infatti anche i pezzi più tirati sono sempre di qualità sopraffina e ad esempio, come non citare  l’elettrica e vibrante One Of A Kind e la crepuscolare e sofferta Building A Bridge. Notevoli e di intrattenimento anche la opener I’m Living In Paradise, My Pleasure e You’re The Brightest Star, che però rimanda un po’ la memoria alla Cowboy And The Ballerina dell’esordio.

In sostanza un disco vario ed interessante che ci propone un Mitch Malloy in splendida forma ed ispirato, sono sicurissimo che questo The Last Song farà la felicità di chi ama le sonorità melodic rock made in Usa. Grazie Mitch and see you to the… next song!

 

Gardner/James -No String- Recensione

10 Luglio 2023 2 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Rock
anno: 2023
etichetta: Pavement / Frontiers

Direttamente dalla voce delle Vixen, ecco tornare in veste solista Janet Gardner, che grazie alla Pavement e Frontiers Music, prosegue la sua collaborazione con il chitarrista Justin James ed insieme propongono il nuovo “No String”, naturale proseguimento dell’album del 2020 Synergy.

L’album presenta diversi temi stilistici, proponendo sempre un rock energetico con tanta melodia.

Il fruscio del vinile apre alla bellissima I’m Living Free, potente, con un riff energico e ben suonato, con un refrain che rimane in testa già dal primo ascolto. Janet in grande forma si conferma un’ottima cantante. Inizio veramente di buon auspicio!
Turn The Page conferma quanto detto, con James che detta ritmo, potenza ed energia alla chitarra e mantiene il pezzo ad alto livello.
85 da una sterzata a livello sonoro, rivelandosi un rock moderno ma senza mordente, dove stavolta la melodia non prende, pezzo decisamente anonimo, a mio avviso strano averlo scelto come singolo. Si continua con la title track No String, siamo di fronte alla prima power ballad, pezzo dove la chitarra ritmica si fa sentire, buon riff, ritornello nella norma con Janet in risalto con una bella prova vocale e buon assolo di James. Il risultato non è niente di esaltante ma si lascia ascoltare. Don’t Turn Me Away parte con una chitarra acustica, il pezzo esplode in un rock energico in pieno american style ma ancora una volta il ritornello lascia l’amaro in bocca, anonimo e poco trascinante.
Con Set Me Free ritorniamo a parlare hard rock, con James in primo piano ma ancora una volta il pezzo soffre di un refrain poco ispirato, senza mordente e molto anonimo. Peccato. Hold On To You parla il rock piu’ ottantiano, un mid tempo con inserti di tastiere, tappeti di chitarre e un assolo finalmente coinvolgente. Un buon pezzo che rialza un po’ il morale!
Into The Night parte forte con la batteria e la chitarra in primo piano a dettare il tempo, si torna finalmente ad un rock potente, hard al punto giusto dove Janet graffia con la sua voce e i cori sorreggono il buon refrain, pezzo ancora ottantiano fino al midollo! I’m Not Sorry ha un sound più moderno, rock melodico veloce e senza fronzoli dove il duo funziona alla perfezione, con un ritornello avvolgente e potente.
Si arriva al decimo pezzo You’ll See, ancora un hard rock deciso e grezzo, con Janet sugli scudi che porta direttamente al country/blues di She Floats Away, acustico ma energetico al punto giusto bello il riff di James!! Promosso!! Si chiude con Drink, dove si incrociano chitarra/pianoforte/voce e dove il rock n’ roll si fonde al country e sfocia in un ritornello catchy con un assolo al top! Pezzo veramente esplosivo!!

IN CONCLUSIONE:
Un album con alti e bassi, a volte troppo disomogeneo dove troviamo troppi stili diversi. Si alternano bei pezzi a momenti troppo anonimi. Album sicuramente sopra la sufficienza ma che non può arrivare ad alti livelli.