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20 Febbraio 2025 6 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy
Sono passati 5 anni circa da quel ‘Into The Future’ che aveva fatto storcere il naso ai puristi dell’Aor e del Melodic Rock vista la sterzata heavy negli intenti, inaspettata e ad ogni modo non completamente riuscita da parte degli Alien. Ancora oggi guidati dalla sei corde di Tony Borg e dall’ugola pregiata di Jim Jidhed (ri-ascoltata di recente nel progetto Radioactive) e accompagnati dallo storico Toby Tarrach dietro le pelli.
La copertina richiama volontariamente e inequivocabilmente l’esordio tanto elogiato e consumato dal sottoscritto (e da ciascuno di voi). Marketing dal palese sapore di nostalgia, da comprare (o ascoltare fate voi) a scatola chiusa? La fiducia e di conseguenza l’attenzione di ascolto si nutre di una moderata speranza.
A fine airplay l’impressione marcante suggerirà che i nostri abbiano guardato molto alle origini, a ciò che ascoltavano da giovani prima di diventare professionisti, evitando di cadere e ricercare qualsivoglia trappole machiavelliche.
Partiamo con “In The End We Fall”, dannatamente convincente, con quel finale allungato e sfumato, suonato, per quanto i livelli sul mixer siano rimasti estremamente contenuti.
Il singolo d’apertura “If Love Is War” è scanzonato e contornato da melodie semplici ma di qualità, efficaci.
Richiami ai Rainbow e ai primissimi Europe sono ora e saranno ben marchiati in alcuni episodi come nel riffing di “Aming High”, alla Blackmore, un mid-tempo melodico stile vecchia scuola, discorso analogo per “Signs”; Classe a profusione nella sofisticata “Strange Way”, soffusa e notturna contornata da un senso di malinconia autunnale. Sensazione che personalmente apprezzo e che suonano coerenti con gli anni che camminano e le esperienze che si susseguono come nella delicata e crepuscolare “Coming Home”. Entrambe mi hanno riportato alla mente le migliori composizioni presenti in quel piccolo capolavoro da riscoprire intitolato ‘Full Circle’ (2003 – Jim Jidhed Solista).
“I Remember” parte da ballad pianistica per poi sconfinare in territori 70’s non così distanti dagli Abba più rock, tramite uso di cori in falsetto. Anche qui, come nella precedente “I Belong” notevole ed ispirato il lavoro chitarristico di Tony Borg, immerso nella volontà di interagire in ogni brano per renderlo più completo ed appetibile a chi non si stanca e non si stancherà mai di assoli e parti strumentali. 13 brani sono tanti, e sul finire un po’ di staticità compositiva la si avverte, senza ledere al risultato finale.
Il lavoro degli Alien è godibile e retrò, assolutamente credibile; Un ipotetico canto del cigno artistico in grado di guardare con una sana spontanea nostalgia a un passato non ancora del tutto concluso.
17 Febbraio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Rock
anno: 2025
etichetta: Spv
Intanto lasciatemi fare una polemica: io capisco che ci siano molte ragioni per contrastare la pirateria musicale e che i siti come il nostro non siano più opinion maker come lo erano le riviste del passato, ma miseriaccia boia, almeno mandateci i file mp3 a 320 kb! Soprattutto perché io i dischi che recensisco li ascolto davvero, e ascoltare mp3 a 160 kb sul mio impianto è abbastanza frustrante. Inoltre, non rende giustizia agli artisti, condizionando anche il giudizio sull’album. Io lo so che magari sono strano io, ma se le etichette preferiscono far ascoltare la musica dal telefonino, tanto vale smettere di scrivere e di gestire un sito come il nostro, che ci costa tanto tempo, fatica e fornisce zero remunerazione economica.
Esaurita la sfuriata iniziale e scusandomi con la band, che sono assolutamente convinto non sia minimamente coinvolta in questa vicenda, passiamo a parlare del disco, perché è stata una gradevole sorpresa.
La Ellis Mano Band si è formata nel 2017 e “Morph” è il loro quarto album, in uscita il 21 febbraio 2025. La band svizzera è nota per le sue esibizioni dal vivo, energiche e coinvolgenti, e ha aperto i concerti dei Deep Purple durante il tour tedesco del luglio 2024.
Musicalmente ci muoviamo in territori classic rock di matrice strettamente americana, con un’anima bluesy e cantautorale tipica degli anni ’70 e ’80, senza disdegnare, di tanto in tanto, l’inserimento di linee più psichedeliche e Hammond-oriented di derivazione purpleiana. Questi elementi rendono alcuni brani più vari e interessanti, spezzando il ritmo altrimenti un po’ troppo monocorde di certe composizioni.
A me questo disco piace soprattutto per la sua atmosfera rilassata e scorrevole, che forse oggi può risultare un po’ desueta, ma credetemi: le suggestioni che evoca sono estremamente intense e molto affini a certi miei stati d’animo. Per certi versi, lo definirei un disco terapeutico.
Vi citerò qualche canzone in ordine sparso, giusto per vedere se riesco ad accendere la vostra curiosità. “Count Me In”, per esempio, poggia su una solida base rock cantautorale e, con quel suo incipit alla Bowie, cattura subito l’attenzione. “20 Years” evoca le highway americane in mezzo al deserto, dove il tempo scorre lento, il clima è torrido e il sole brucia la pelle. La sua struttura bluesy è semplicemente spettacolare. In “For All I Care”, invece, è come se Joe Cocker si fosse messo a fare una cover dei Deep Purple: l’alternarsi tra momenti acustici ed evocativi e cavalcate psichedeliche di Hammond spezza il ritmo del brano, rendendo l’ascoltatore partecipe di un mood davvero particolare. L’ombra di ‘slowhand’ Clapton fa la sua comparsa in “Scars” cullando l’ascoltatore in tutto lo scorrere della canzone. Altri brani che vi segnalo sono la rilassatissima “Ballroom” e la divertente e old fashion opener “Virtually Love” che tratta però di tematiche attualissime. E proprio i testi sono a mio avviso un punto forte di questa band, riuscendo a mescolare atmosfere, se vogliamo, datate con tematiche assolutamente attuali.
In sostanza, se vi piace il rock/blues, vi consiglio di dare un ascolto ai brani usciti come singoli e di valutare l’acquisto. Spero che i difetti notati durante l’ascolto siano dovuti alla scarsa qualità dei file e non alla produzione. Ad orecchio, direi che è proprio così, quindi incrocio le dita e resto ottimista sulla resa finale dell’ascolto in CD.
13 Febbraio 2025 9 Commenti Francesco Donato
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Anticipato da un poker di singoli, esce l’attesissimo “Thrill Of The Bite” ottavo lavoro in studio degli sleaze rockers svedesi Crazy Lixx.
La band capitanata da Denny Rexon può essere fino ad oggi considerata una delle massime espressioni del cosiddetto movimento New Wave of Swedish Heavy Metal, vivace carrozzone che vede seduti ai suoi piani alti oltre appunto ai Crazy Lixx, band come Hardcore Superstar e Crashdiet.
“Thrill Of The Bite” arriva ad un anno di distanza da “Two Shots At Glory”, raccolta contenente due brani inediti e nove rivisitazioni, e a quattro da “Street Lethal” la loro ultima fatica in studio.
Nulla di nuovo rispetto agli album precedenti, coerenti al loro mood stradaiolo, i Crazy Lixx ci regalano una quarantina di minuti di puro godimento a suon di riffs energici e cori godibilissimi.
Questo “Thrill Of The Bite” si pone a parer mio in netta evoluzione rispetto al precedente lavoro, facendo respirare atmosfere accostabili all’ottimo “Ruff Justice” del 2017.
L’album si apre con la furibonda “Highway Hurricane” che ci accomoda subito in quello che possiamo considerare il trend dell’album: più pezzi tirati rispetto ai precedenti lavori con un gran lavoro da parte delle chitarre in fase di costruzione dei riffs.
La nota maestria della band nel mettere sul piatto ritornelli anthemici si concretizza in “Who Said Rock N’Roll Is Dead”, brano CRIMINOSAMENTE non selezionato nella rosa dei singoli apripista.
Per me non solo il miglior pezzo dell’album, ma brano destinato ad entrare tra i classici della band.
Se Danny Raxon leggesse mai questa recensione: Ma chi li sceglie i singoli? Denunciali!
Arrivano dunque “Little Miss Dangerous” e “Call Of The Wind” due dei quattro singoli selezionati.
Ottimi pezzi che non tradiranno gli amanti del tipico sound Crazy Lixx.
Il secondo lo preferisco nettamente con la chitarra iniziale palese omaggio a “Flesh of the Blade” degli Iron Maiden.
“Recipe Of the Revolution” è l’anello di congiunzione con il lavoro precedente, pezzo trascinante con in dotazione un altro ottimo ritornello.
Si arriva al divertente ritornello di “Run Run Wild” che anticipa il primo singolo “Midnight Rebels” forse paradossalmente il pezzo a mio parere più debole del disco.
“Hunt For Danger” invece è un’altra grandissima prova, scelto con ultimo singolo pre-album saprà affascinarvi con le sue atmosfere alla “Ruff Justice”.
Chiudono il disco la selvaggia “Final Warning” dove i nostri pestano sul pedale come forse non mai, e la sleazissima “Stick It Out”.
In conclusione se amate le sonorità a cui finora ci ha abituato la band svedese non resterete certamente delusi da questo lavoro, un possibile album da top 10 di fine anno.
11 Febbraio 2025 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: SM Noise Records
Super uscita per il produttivissimo chitarrista tedesco Andy Susemihl, artista poliedrico e dalla grandissima attività live, fatto che negli anni gli ha consentito di ottenere uno status riconosciuto ad alto livello.
Partenza riservata alla turbolenta “The Freakshow”, ritmicamente importante, dal ritornello che subito resta impresso, globalmente una buonissima canzone. “King For A Day” risulta essere molto conturbante, sensuale, suadente, grazie alla presenza della chitarra acustica nella trama ritmica e di fraseggi molto azzeccati, così come la successiva “End Of The Road”, molto intensa e calda, a tratti addirittura struggente, a comporre una coppia di brani molto interiore. Con “Breaking The Silence” torniamo a galoppare: la struttura ritmica sale di livello, con un groove non pesantissimo ma gradevolissimo, sempre intervallato dai noti fraseggi e da parti solistiche sempre ben inserite. Come dice il titolo, “Summertime Blues” è un bluesettone d’altri tempi, pienamente centrato e aderente al genere: nulla da aggiungere. “En Route To Babylon” si sposta sull’hard rock più convinto, sia per la struttura che per il sound caldo e avvolgente, così come la successiva “Television Lullaby”, leggermente scarica di intenzione e non propriamente accattivante. Torniamo su orizzonti più blues con “No Disguise”, un buonissimo brano che rientra nella confort zone di Susemihil. L’immancabile lentone ci travolge e ci avvolge: “Going Home” non tradisce e aderisce perfettamente alla miriade di brani del genere “ballad”. Con “Higher” ci prendiamo una pausa rilassante, con un pezzo tranquillo e solare, che ci porta su orizzonti più rilassati e luminosi, senza mai tralasciare le eccellenti parti di chitarra solista che questo disco ci offre. “Your Life” risulta molto intensa, in piena tradizione anni ‘80, gradevole ma complessivamente non così originale, come la successiva “Of Fools & Liars”, non particolarmente accattivante e dal sapore di già sentito. Saliamo un po’ di tono con la granitica “Wasteland”, tosta e compatta, dalla base ritmica quadrata e monolitica, molto interessante e piacevole all’ascolto. Concludiamo questo disco (ben 14 tracce!) con “End Of The Road Slight Return”, un brano strumentale molto intenso, che mette in mostra ancora una volta le indiscutibili doti di Andy Susemihl, che, come spesso ha fatto nella sua lunga carriera, ci consegna un lavoro ben eseguito e ben pensato, dal sapore nostalgico.
Per gli amanti dell’hard rock con chitarre intense e presenti, un album da sentire e risentire.
11 Febbraio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/Alternative
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Dopo anni di evoluzione, la band finlandese Ginger Evil è pronta a lasciare il segno con il suo attesissimo debutto, “The Way It Burns”, in uscita il 14 febbraio 2025 per Frontiers Music. Con radici nel rock alternativo degli anni ’90, nel grunge e nel rock classico, il quartetto, guidato dalla potente voce di Ella Tepponen, ha catturato la mia attenzione con singoli come “Rainmaker”, “Shame Old” e “Arrowhead”.
Dalle note stampa che accompagnano il promo, l’album promette un sound energico e viscerale, in bilico tra riff graffianti e melodie avvolgenti, capace di racchiudere l’essenza più autentica del rock.
Ma “The Way It Burns” sarà davvero all’altezza delle aspettative e delle promesse? Vediamo di scoprirlo insieme in questa recensione.
Il gruppo si descrive come un incrocio tra Foo Fighters e Fleetwood Mac, e questa definizione non è poi così aliena dalla realtà. In “The Way It Burns” si possono riconoscere influenze diverse: dal rock alternativo al grunge, dal classic rock al pop più leggero. Questa varietà di influenze potrebbe rappresentare uno dei punti di forza dell’album, a condizione che venga estrinsecata appieno. Tuttavia, come cercherò di spiegare, la missione è riuscita solo in parte.
Sicuramente, la voce di Ella Tepponen è la vera arma segreta della band. Potente, roca al punto giusto, con un timbro che ricorda un mix tra Pat Benatar e Lzzy Hale, riesce a dare un’identità precisa ad ogni brano, spaziando con disinvoltura tra sonorità diverse. La sua interpretazione è sempre sentita e coinvolgente, donando ad ogni canzone un valore aggiunto inconfondibile.
La sezione ritmica, con Tomi Julkunen alla chitarra, Veli Palevaara al basso e Toni Mustonen alla batteria, crea una solida base su cui si innestano le melodie e gli assoli di chitarra. La produzione di Teemu Aalto (Insomnium), insieme al mastering di Svante Forsbäck (Rammstein, Volbeat), non solo garantisce un suono all’altezza dello stile, ma riesce nell’ intento di bilanciare le diverse sonorità, creando un’atmosfera che accompagna ogni pezzo senza appesantirlo.
L’album si apre con la carica di “Rainmaker”, un brano classic rock che mette subito in mostra le qualità vocali della nostra protagonista. “Dead On Arrival” è un pezzo radiofonico, con un’ottima melodia e un uso efficace della doppia traccia vocale. “Flames”, invece, è una ballata rock che può in effetti ricordare vagamente i Fleetwood Mac, mentre “Arrowhead” è un brano più intimo e malinconico, che vede l’introduzione del pianoforte e rimandi ad Alice In Chains e Saigon Kick. Nell’allegrotta “Better Get in Line” la voce di Ella mi ricorda il tono della Anouk degli esordi, mentre “Black Waves”, singolo già uscito, unisce oscurità e melodia. In mezzo a questi brani, però, ci sono anche tracce che restano nell’ombra, risultando meno incisive e appesantendo l’ascolto. E credetemi, ho dovuto faticare per non premere il tasto skip; non tanto perché le canzoni siano brutte, ma perché scorrono via piuttosto ‘insapori‘.
Nonostante i numerosi pregi, “The Way It Burns” non è esente da difetti. Purtroppo, in diversi punti, l’album tende a ‘sedersi’ un po’ troppo sulle medesime sonorità, mancando forse di una maggiore attenzione agli arrangiamenti, con la band che sembra ancora in cerca della propria identità musicale definitiva. Probabilmente il potenziale del gruppo non è stato ancora completamente espresso, ma ci sono comunque ottime basi su cui lavorare. In definitiva, sebbene l’album non sia privo di difetti, la sua unicità e la potenzialità che offre sono preferibili all’ennesimo clone di altre band, più o meno note. Consiglio vivamente l’ascolto ai nostri lettori più open-minded.
09 Febbraio 2025 5 Commenti Giulio Burato
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Baysis Media
Dalle ceneri della fenice “Frontline”, band tedesca degli anni Novanta, rappresentata oggi da Stephan Bayerlein e Thomas Bauer, ecco i Ray of Light, dal nome che è un segnale di rinascita ma anche di speranza e ricordo del compianto Robby Boebel, chitarrista e co-fondatore dell’attuale monicker, scomparso in fase di preparazione di “Salute”, titolo (probabilmente) scelto per ricordarlo.
A completare i Ray of Light, ci sono il subentrato Joerg Wartman alla chitarra e l’interessante vocalist inglese Greg Cromack, dalla timbrica riconoscibile e perfetta per questo hard rock di stampo british-teutonico.
La prima strofa presente nel singolo di lancio “Falling into pieces” è un’ulteriore riprova dei riferimenti all’ex membro del gruppo:
“How does it feel when your life´s been shattered, pick up the pieces – form a new horizon”, frase che esprime quella sensazione malinconica che pervade ogni singola nota della canzone. Il video fa vedere Robby Boebel sia inizialmente quando da giovane suonava nei Frontline, sia in chiusura, con una foto più recente, e scema nel finale con la dovuta dedica “rock in peace”. Il secondo singolo “Stand up” nasce dalla collaborazione con Paul Sabu, noto per i suoi lavori con Madonna, John Waite, Alice Cooper, Shania Twain, è la cosa si nota immediatamente; la canzone è la più radiofonica del lotto ed è un appello alla resilienza e alla determinazione al superare ostacoli o per inseguire obiettivi. Ad oggi, i singoli usciti sono tre, è l’ultimo in ordine cronologico è “City of Angels”, un pezzo che ricorda le coordinate sonore dei primi Winger.
Altre canzoni che costituiscono le fondamenta di questo esordio discografico sono la band-track (non l’unica presente) “Ray of light” in cui si elevano i cori con un retrogusto “leppardiano”, la conclusiva “How long” col lavoro di Joerg Wartmann in buona evidenza e “Best of me” che stringe idealmente la mano ai Bon Jovi del periodo di “Bounce”. Infine, come non citare la strofa che ricorda la band da cui provengono i componenti, ossia… standing on the “Frontline”.
Il “raggio di luce” luccica di quella vena malinconica che è presente in questo “Salute”, album omogeneo contenente diverse canzoni di rilievo e dove la voce di Greg Cromack spicca incontrastata.
29 Gennaio 2025 5 Commenti Denis Abello
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Allora, partiamo subito con il dire che se siete amanti dei “vecchi” Bonfire, quindi per chiarirci era Lessmann e roba tendenzialmente melodica, e non avete vissuto in un tombino negli ultimi anni (nel qual caso sappiate che Lessmann non c’è più alla voce) oltre al cambio di più voci sicuramente saprete anche che il sound della band capitanata dalla chitarra di Hans Ziller ormai ha virato verso un hard rock al limite con l’heavy metal! Non richiudetevi però nel tombino perché forse quello che leggerete vi potrebbe comunque incuriosire.
Ecco, questo nuovo album a titolo Higher Ground, prima fatica sotto la bandiera della nostrana Frontiers Music, conferma questa strada hard/heavy rock e porta con se l’ennesimo cambio dietro al microfono per la band Tedesca che vede ora Dyan Mair a giostrare la parte di frontman.
Stabili ormai da qualche anno troviamo invece Frank Pané alla chitarra e Ronnie Parkers al basso. Chiude la formazione Fabio Alessandrini alla batteria!
L’album attacca con un’intro carica di tensione ma sostanzialmente inutile per poi lanciarsi diretta sulle note del singolo I Will Rise. Un bel pezzo, niente di eclatante o fuori dagli schemi ma un brano nerboruto che sa di vecchia scuola heavy metal teutonica!
Sempre di scuola heavy metal la voce di Dyan fa parte dei bravi urlatori che tutto sommato convince non solo urlando… infatti pare funzionare anche su bravi che riportano ai Bonfire di matrice hard rock come sulle note di Higher Ground!
Si continua bene anche con la successiva, questa volta urlata, I Died Tonight (riconoscete la voce ai cori?) per perdersi un po’ sulla cavalcata power metal azzoppato di Lost All Control.
When Love Comes Down è la classica ballata che si lascia ascoltare senza colpo ferire, ma comunque con qualche scelta stilistica degna di nota.
Fallin’ è un buon intermezzo mentre la successiva Come Hell Or High Water piazza una sorta di doom rock che mi lascia un gusto insipido in bocca. Meglio con la successiva Jealousy che qui si che piazza una bella cavalcata in stile hard rock!
Si poteva chiudere tranquillamente in serenità con Spinnin’ in the Black ma i nostri piazzano ancora un colpo con la ripubblicazione in edizione 2024 del brano Rock N Roll Survivor… funzionava nel 2020, funziona ancora adesso (con una voce differente). Sicuro pezzo da casino nei Live!
Che dire, mi sono accostato a questo album con poche speranze e invece mi sono ritrovato ad ascoltare un album che regala un buon minutaggio musicale ascoltabile e godibile. I vecchi Bonfire sono i vecchi Bonfire ma questo nuovo corso in questa versione con il buon Dyan alla voce forse che forse qualcosa da dire all’alba di questo 2025 ce l’ha ancora!
So che a questo punto da buoni vecchi occupatori abusivi di tombini vi state facendo la fatidica domanda… ma quindi, cosa rimane dei “vecchi” Bonfire?
Hans Ziller ed il nome…
23 Gennaio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock/ AOR
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy
“Becoming The Enemy” è il quarto album della band britannica Trishula. La formazione è guidata dal chitarrista e compositore Neil Fraser, noto per le sue collaborazioni con Ten, Ged Rylands e Tony Mills. Insieme a lui ci sono il cantante Jason Morgan (Rage of Angels), il tastierista Rick Benton (Magnum), il bassista Dan Clark (Rebecca Downes Band) e il batterista Neil Ogden (Demon).
L’album propone un mix di ritmi energici e melodie accattivanti, con brani che spaziano dall’hard rock grintoso a ballate emozionali. Le influenze musicali attingono ampiamente dalla scena britannica, con richiami a band come Magnum, Ten ed anche Thunder quando si vanno a toccare le sfumature blues. Tra le tracce più riuscite emergono i due brani di apertura, “Wardance (Long Live The Rising)” e “Will Heaven Ever Give Us What We Need”, in cui il vocalist Jason Morgan riesce a dare il meglio di sé. Degna di nota è anche l’incalzante e orecchiabile “The Walls of Eden”. La parte centrale del disco, invece, zoppica un po’, non riuscendo ad incidere e restando solo un gradevole sottofondo. Tuttavia, il colpo da maestro, e vero gioiello del disco, arriva in conclusione, ed è la ballata “Hold My Hand”. Se, dopo 40 anni di ascolto di questo genere, una canzone riesce ancora a commuovermi, significa che c’è davvero qualità.
In sintesi, “Becoming The Enemy” dimostra la capacità dei Trishula di creare canzoni coinvolgenti, con melodie curate, assoli di chitarra ispirati e ritmi incalzanti. Nonostante le influenze evidenti, la band riesce a mantenere una propria identità sonora, evitando di cadere nel semplice copia e incolla. Nel complesso, si tratta di un album che merita attenzione da parte degli amanti del rock melodico. A mio personale avviso, è senza dubbio il miglior disco di gennaio in questo ambito musicale.
23 Gennaio 2025 1 Commento Alberto Rozza
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Iniziamo il 2025 con l’energia e la potenza di “Avenger”, ultima fatica di studio degli Wildness, band svedese dal degnissimo curriculum live e dal sound riconoscibile.
Ritmiche serrate e taglienti ci danno il benvenuto: “Wings Of Fire” è una buonissima presentazione, con tutti i crismi del genere e una esecuzione di livello. “Crucified” è un esempio di coralità e di trame ben strutturate, dal ritornello che fa presa e dall’arrangiamento convincente. Arriviamo a “Broken Heart”, dalla grande dinamica, capace di mischiare ritmiche toste a un’ambientazione delicata e suadente. Con “Caught Up In A Moment” ci addentriamo in un brano introspettivo e convinto, tradizionale nella struttura strumentale, ma dagli slanci non banali, soprattutto nella parte del solo. Caliamo il tiro: “Wasted Time” risulta piacevole e leggera, senza grandi lampi di fantasia e di originalità, passando senza grandi ricordi. Ci imbattiamo nella title track “Avenger”, poderosa, potentissima, quadrata, un brano che resta impresso, sia nella strofa che nel ritornello cantabilissimo: un piccolo gioiello. “Poison Ivy” è un pezzo che si lascia ascoltare, dalle atmosfere oscure, che ancora pecca in originalità, così come la successiva “I’ll Be Over You”, che lascia un po’ quella sensazione di già sentito. “Stand Your Ground” sale di livello: le ritmiche tornano a rombare e la voce si fa più crudele e tirata, facendo scatenare l’ascoltatore. Asciutta e cadenzata, “Eye Of The Storm” non stupisce più di tanto, facendoci tornare quella sensazione “montagne russe” che caratterizza questo lavoro: un saliscendi tra alti e bassi costante. Concludiamo l’ascolto con la scatenata “Walk Through The Fire”, in linea con il disco, che globalmente risulta essere ben eseguito ma discontinuo per dinamica ed energia.
23 Gennaio 2025 2 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Power Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Devo essere sincero, avevo abbandonato i Labyrinth dopo “Return to heaven denied pt.II”, che forse proprio per il richiamo al suo illustre predecessore, non mi aveva particolarmente colpito, probabilmente avevo richiesto molto a quell’album, il quale non mi aveva dato le sensazioni che perlomeno in piccola parte mi aveva dato il primo episodio, ora, con le premesse di un incattivimento del sound, ritorno a dare una possibilità alla band toscana, pur addentrandomi nel ginepraio del power metal, genere da me oramai completamente tralasciato, e delle produzioni Frontiers, tutte molto simili soprattutto a livelli di ispirazione e di suoni.
Ebbene, nonostante in fase di presentazione attraverso il press kit del promo, i componenti della band abbiano dichiarato: “ci sentiamo sempre più liberi da formule e confini stilistici che a volte intrappolano una band in un genere musicale specifico. Con questo album, ci siamo prefissati di raggiungere la totale libertà, consentendo a ciascuno di noi di esprimersi pienamente”, alla fine lo schema è quello, ossia power metal con ritornelli ariosi, velocità, doppia cassa e schema compositivo dei brani molto lineare, per cui, niente di nuovo sotto il sole, ma allora, ha senso pubblicare ancora un album con uno stile rimasto quasi invariato da trent’anni? Se si ricerca la novità a tutti i costi, no, anzi, ma se si vuole ascoltare quasi un’ora di musica ben suonata, ottimamente cantata da uno splendido Roberto Tiranti e prodotta con i controc…i, beh, direi che ci siamo e fidatevi, se lo dico io, che uso i miei cd di power metal comperati negli anni novanta come sottobicchieri…
Apertura devastante quella affidata a ‘Welcome twilight’, classico speed power metal, ma con ritmiche rocciose e la prima delle fantastiche esibizioni di Tiranti che declama un testo di amara verità, ossia la progressiva perdita della libertà che, attraverso gli avvenimenti degli ultimi anni si sta letteralmente disgregando sotto i colpi di chi decide, molto simile per approccio stilistico la successiva ‘Accept the changes’ che non dice niente di nuovo, così si arriva al secondo singolo, quella ‘Out of place’, dall’andamento simil prog metal, una semiballad che non segue i canoni, complice una furiosa accelerazione nella parte centrale e se il ritornello risulta decisamente classico, l’assolo di Andrea Cantarelli fa sognare portando il pezzo su lidi quasi onirici e fin qui abbiamo qualcosa che rappresenta l’anima dei Labyrinth da sempre e si potrebbe andare avanti con la solita, tediosa, track by track, ma ha senso? Assolutamente no, perché sappiamo benissimo che lo stile dei Labyrinth è quello del power speed metal classico e descrivere una canzone dopo l’altra sarebbe come scoprire l’acqua calda e allora, andiamo a vedere dove veramente la band riesce a tirar fuori quella grinta di cui sopra o stupirci con idee particolari e allora ecco “Heading for nowhere” che, a dispetto di un ritornello classicissimo valorizzato da un Tiranti maestoso, spazza con furia thrash qualsiasi dubbio sulla direzione che i Labyrinth hanno impostato già dal precedente “Welcome to the absurd circus” e mi preme di sottolineare come Oleg Smirnoff si inserisca alla perfezione su questo tappeto sonoro, laddove Andrea Cantarelli e Olaf Thorsen normalmente sparano le loro ritmiche e per far capire che la classe non è acqua, se ce ne fosse ancora bisogno, ecco la ballad “To the son I never had”, in bilico tra malinconia e splendore, grazie anche, e non temo di dire una bestemmia, al giro acustico che ricorda certe cose degli Alice in Chains e se vogliamo passare da una pulsione all’altra basta ascoltare “The right side of this world”, mid tempo dal refrain melodico e subito dopo “Inhuman race”, un monolite di stampo prog-thrash, in cui tutti, ma proprio tutti i musicisti dei Labyrinth danno il meglio di se, come idee e come esecuzione, a questo proposito, tanto fa la sezione ritmica del bassista Nik Mazzucconi e del terremotante, bravissimo batterista Matt Peruzzi, spiazzante infine il break di piano centrale, che porta verso la fine del disco in modo ancora una volta vigorosamente maestoso.
Prima di concludere mi piace parlare del duo d’asce Cantarelli-Thorsen, con il primo sugli scudi in fase di assoli al fulmicotone ed il secondo, più posato, quasi in stile Gilmouriano, tutto questo è stato registrato, come capita spesso ultimamente ai Domination Studio di Simone Mularoni, che da un tocco meno finto, meno pompato, quasi live e io non posso che esserne contento, data l’omologazione dei suoni oramai presente in quasi tutti gli album pubblicati, soprattutto, dalle grandi etichette, quindi, stranamente, promuovo a pieni voti un disco power metal, ma forse perché, quando si tratta dei Labyrinth, il termine risulta molto, molto stretto!