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21 Ottobre 2024 2 Commenti Paolo Paganini
genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Alzi la mano chi tra gli amanti dell’’AOR non conosce il nome di Tommy Denander, polistrumentista, produttore, compositore che calca ormai la scena musicale mondiale da decenni collaborando con i più svariati artisti, passando da Alice Cooper ai Deep Purple, da Anastacia a Tina Turner, oltre ad una serie di progetti che lo vedono coinvolto in prima persona tra i quali annoveriamo anche i qui presenti Radioactive giunti ormai al sesto album da studio. Come accaduto in precedenza Tommy si avvale della collaborazione di una nutrita schiera di ospiti tutti con un curriculum da paura.
L’album è praticamente un tributo ai Toto sia nelle sonorità che nella struttura delle composizioni, con qualche inserimento qua e la di Journey, Def Leppard e Foreigner. Il disco suona compatto e la maestria e la cura con cui tutte le canzoni sono confezionate è davvero qualcosa di impressionante. Nulla è fuori posto, nessun assolo non all’altezza tutto perfetto. Ma c’è un ma… eh si altrimenti non si spiegherebbe il voto finale. La verità è che pochi dei brani in scaletta prendono davvero il cuore dell’ascoltatore. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad una copia dei Toto ma senz’anima. Alcuni brani più diretti come Sentimental, Shame On You, Sahme On Me o Hard Times To Fall In Love riescono a fare centro già dal primo ascolto mentre altri quali In A Perfect World, Reset o Midnight Train sembrano una vera e propria clonazione della band si Steve Lukater. Ci stiamo lamentano del brodo grasso? Si forse è così e sicuramente molti di voi non saranno d’accordo con le mie considerazioni ma la sensazione che si ha è proprio quella di trovarci davanti ad un mero esercizio stilistico. Proprio per quanto detto sopra non me la sono sentita di andare oltre al voto che trovate in fondo alla recensione.
Lascio a chi tra di voi avrà voglia di ascoltare questo cd se considerarlo un capolavoro da avere a tutti i costi e o se derubricarlo a uno dei tanti ottimi progetti del buon Denander.
15 Ottobre 2024 3 Commenti Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Tornano con cadenza regolare da oramai oltre dieci anni gli House of Lords, capitanati dall’inossidabile James Christian, voce e basso, e da una restante line-up ad oggi solida, cristallizzata dall’ingresso di Mark Mangold alle tastiere (già presente sull’ottimo ‘Saints and Sinners’ del 2022, qui la nostra review).
‘Full Tilt Overdrive’ rappresenta l’episodio più heavy nella nutrita discografia targata HOL, con un Jimi Bell in assoluto spolvero, non tralasciando la matrice Pomp tipica della band americana.
L’opener “Crowded Room” tinge le coordinate dure tramite un vigoroso up tempo orecchiabile.
Se “Bad Karma” suona eccessivamente ruffiana, convince maggiormente il melodic rock di “Cry Of The Wicked” funzionale all’economia del disco.
La title track rappresenta una scheggia melodica impazzita, con quell’uscita di tastiere che tanto ricorda lo stile di Greg Giuffria.
La sudista “Taking The Fall” rappresenta un ottimo intermezzo con un coro vagamente gospel che aggiunge appeal e difformità;
“You’re Cursed” funge da “copia e ricorda” rispetto al sound sviluppato dai tempi dell’ottimo ‘World Upside Down’ (2006).
L’episodio più moderno, marchiato da riff di chitarra a cavallo tra il new metal e l’alternative, si intitola “Not The Enemy”, pienamente promosso.
Con le tastiere di Mangold protagoniste ci avviciniamo al territorio ballad con la cadenzata “Don’t Wanna Say Goodbye”, radiofriendly, semplice e d’impatto se non fosse per il testo del ritornello abusato negli anni.
A non dimenticare le linee vocali drammatiche tipiche ottantiane abbiamo “Still Believe”, consona e non eccessivamente convenzionale per via di parti soliste ispirate che possiamo gustare lungo l’intero airplay.
Subito dopo la notturna e superba “State of Emergency”, una sorta di Whitesnake di 1987 in salsa AOR, uno degli highlights del disco.
Chi ha estrema familiarità con le uscite degli HOL noterà una certa ridondanza in merito alle soluzioni stilistiche adottate, contrapposte a un songwriting convincente, solido e a tratti divertente.
Questo potrebbe essere l’unico difetto a volerne trovare uno, unito a un suono di batteria a tratti non convincente.
Rimanendo alle parole di James Christian, sperando che la salute rimanga dalla sua visto la battaglia che ha iniziato a combattere contro una forma di cancro, c’è la volontà di portare il disco in sede live. Incrociamo le dita.
15 Ottobre 2024 0 Commenti Paolo Paganini
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Libero Corp
Cosa più unica che rara trovare sulle nostre pagine la recensione di un cantautore italiano che scrive e suona i propri brani per dipiù cantando nella nostra lingua. E’ il caso del debut album di Thomas Libero giovane e talentuoso musicista padovano che come racconta lui stesso sulla sua pagina facebook riesce finalmente a concretizzare un progetto nato nel 2018 e passato attraverso mille vicissitudini. Il genere proposto mi ricorda molto l’hard rock italiano di metà anni ’90 che vide protagonisti gruppi come Animali Rari, Dhamm, Rats, Nikki, Filippo Malatesta e pochi altri. Band che riscossero un discreto successo mescolando elementi del cantautorato rock italiano alle melodie dell’hard rock americano e che cercarono di cavalcare l’ultima onda dell’hard rock da classifica che in quegli anni era già stato travolto nel resto del mondo dal ciclone grunge. Punto di forza del disco sono sicuramente le melodie di facile presa ed i testi nei quali ognuno di noi potrà sicuramente ritrovarsi almeno in parte. Lungo le dodici tracce che compongono l’album possiamo trovare brani più riflessivi ed intimi come In Questa Città, o la menestrellesca La Mia Guerra che mi ha ricordato molto il Filippo Malatesta dell’epoca La Figlia Del Re per passare a pezzi come Disordine Dei Mille Perché, vicina allo stile dei Dhamm e alla toccante balata Eri Tu per arrivare al puro rock di Lasciatemi Stare, Questa Storia La Scrivo Io, Nella Notte e la conclusiva Favole.
Nel complesso possiamo sicuramente parlare di un buon lavoro penalizzato da una produzione un po’ troppo plafonata che soffoca sia a livello vocale che strumentale lo slancio che Thomas riesce a dare alle proprie composizioni. Come dice lo stesso autore “ora è tempo di finire questa storia e aprire un nuovo capitolo”. Le premesse per un futuro brillante ci sono tutte. Aspettiamo con ansia il nuovo materiale che verrà e che saremo bel lieti di recensire.
13 Ottobre 2024 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: AFM
Dopo aver cantato per qualche anno col mio gruppo di amici la cover di “Sleeping My Day Away”, ogni nuovo disco dei D-A-D è, per chi vi scrive, un momento di trepidante curiosità e “Speed Of Darkness” segna anche un momento significativo per i D-A-D, un’opera di hard rock di alta qualità, piena di entusiasmo e divertente da ascoltare. La band, con una storia di quarant’anni alle spalle, mostra una maturità artistica che traspare in ogni traccia, offrendo un mix di riflessione e energia rock’n’roll. Questo album non solo celebra la loro carriera ma promette di aggiungere un nuovo capitolo emozionante al loro già impressionante repertorio.
“God Prays To Man”, la traccia che apre l’album, è un chiaro omaggio al rock classico, con un riff che ricorda i grandi del genere e i rimandi ai AC/DC sono sin troppo evidenti, anche se integrati con variegati tocchi blues. I singoli, “1st, 2nd & 3rd” dai ritmi serrati e le atmosfere ‘sculettanti’ e “The Ghost” dove le atmosfere sono più ammiccanti e vicine all’ autocitazione, hanno già riscosso successo tra i fan, fungendo da ottimo antipasto per il full-length. La title track, “Speed Of Darkness”, al contrario delle aspettative generate dal titolo, ci offre un mid-tempo accattivante che mette in risalto il marchio di fabbrica della band in modo assolutamente non scontato. Il mood generale dell’album è un mix tra classe e sapienza arrangiatoria. .”Head Over Heels”, ad esempio, segue questa direzione, dimostrando come i D-A-D siano capaci di reinventarsi pur rimanendo fedeli al proprio stile ed anche se magari la tendenza dell’ album è su pezzi un po’ meno tirati ed immediati che in passato, è un segnale evolutivo che a me non dispiace per nulla.
‘I D-A-D sono più che una band, sono un esperimento sociale’, come affermato dal bassista Stig Pedersen. Sono la prova che la musica può unire e può evolvere resistendo alla prova del tempo. Celebrare quarant’anni di carriera è un traguardo che poche band riescono a raggiungere senza interruzioni, e i D-A-D lo hanno fatto mantenendo la loro integrità e la loro passione per la musica.
L’album dei D-A-D è un esempio lampante di come la musica possa evolversi e rimanere rilevante attraverso i decenni. La band ha dimostrato una capacità unica di rinnovarsi, mantenendo un legame forte con i fan storici e allo stesso tempo tentando di conquistare il cuore delle nuove generazioni. Il loro stile, che fonde energia e passione, è un esempio nel mondo del rock, e la loro abilità nel trasmettere emozioni attraverso la musica è indiscutibile. Nonostante due/tre brani meno incisivi, l’album è comunque una testimonianza della loro arte senza tempo e merita di essere ascoltato ed inserito nelle vostre collezioni.
11 Ottobre 2024 6 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl
I Fans of the Dark sono una band svedese nata dall’idea del batterista e compositore Freddie Allen nel 2020. Il progetto ha preso forma con l’intento di riportare in vita l’energia e le sonorità del rock melodico e dell’AOR degli anni ’80 e ’90, unendo atmosfere nostalgiche a una produzione moderna e accattivante. Dopo aver coinvolto il talentuoso cantante Alex Falk, la band ha rapidamente guadagnato attenzione nella scena musicale underground grazie a un sound ricco di influenze classiche ma con un’identità forte e personale.
Nel 2021, i Fans of the Dark pubblicano il loro omonimo album di debutto (qui la recensione), a cui fa seguito nel 2022 l’album di pari livello Suburbia (qui la recensione).
L’album Video, terza fatica dei Fans of the Dark, è ancora una volta un tributo nostalgico agli anni ’80 e ’90, e come nei precedenti lavori lo fa rivisitando intelligentemente quel periodo con un sound moderno. Novità di questo lavoro è la “perdita” del lato forse più diretto e grezzo che caratterizzava il precedente lavoro a favore di un sound molto più radiofonico e fortemente anni’80.
La produzione è curata in ogni dettaglio, richiamando il meglio dell’AOR e del melodic rock più seminale riuscendo al contempo a mantenere un’identità valida e riconoscibile. I Fans of the Dark portano l’ascoltatore in un viaggio fatto di atmosfere dense di ricordi, con suoni vintage intrecciati a elementi attuali.
Ancora una volta, oltre all’ottimo songwriting di Allen, un ruolo chiave lo gioca la voce di Alex Falk, che si erge insieme ai pezzi come uno dei protagonisti dell’album. Falk dimostra una grande versatilità, passando da un approccio potente ed energico nei pezzi più rock come “Let’s Go Rent A Video” e “Savage Streets”, a interpretazioni più emotive e introspettive in ballate come “Christine” e “Tomorrow Is Another Day”. La sua voce dal timbro cristallino e la capacità di spaziare tra alti e bassi con disinvoltura aggiunge profondità con interpretazioni che arricchiscono il tessuto emotivo dell’album.
Dal punto di vista musicale, ogni traccia presenta arrangiamenti ricchi e stratificati, con chitarre potenti e tastiere avvolgenti che creano un’atmosfera cinematografica. In pezzi come “The Neon Phantom”, le sonorità più cupe e drammatiche rievocano il sound dei Queensrÿche, mentre brani come “The Wall” richiamano l’epicità di Def Leppard, grazie ai cori grandiosi e alle chitarre decise. “Find Your Love” abbraccia un mood più spensierato e glam, con influenze tra Bon Jovi e Poison, e un ritornello facilmente memorizzabile che risplende per la sua energia positiva.
L’album spazia tra atmosfere più cupe e brani più leggeri con grande abilità. “In The Bay Of Blood” si distingue per il suo sound sinistro e i riff pesanti che richiamano Dio e i primi Iron Maiden, mentre “The Dagger Of Tunis” introduce elementi esotici e progressivi, simili a quelli esplorati da band come Asia o Kansas.
In definitiva, Video è un album che riesce a bilanciare perfettamente la nostalgia degli anni ’80 con un sound moderno, capace di attrarre nuovi fan senza tradire le radici del genere. Grazie alla produzione curata, alle influenze ben dosate e alla voce carismatica di Alex Falk, i Fans of the Dark ancora una volta creano un’opera che rende omaggio al passato, ma suona attuale e credibile.
11 Ottobre 2024 1 Commento Vittorio Mortara
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: self released
Sono passati oltre dieci anni dal debutto autointitolato del 2013. Nel mentre si sono susseguiti diversi platter con formazione sempre piuttosto rimaneggiata, nella quale si sono date il cambio deiverse stelle più o meno luminose del firmamento hard rock presente e passato. Quello che, invece, è cambiato pochino è il sound dei nostri, sempre legato a doppio maglio alla tradizione rockettara stradaiola, grezza e priva di fronzoli, di fine 70/inizio 80. Si sentono influenze pesanti di AC/DC e root rock americano. I pezzi sono tutti di breve durata. Il tratto distintivo consta nei riff taglienti di Aldrich sui quali si stendono le melodie vocali della graffiante voce di John Corabi. Dunque, facciamo una premessa: questo genere di musica è un po’ una sorta di sabbie mobili. Se ci rimani invischiato rischi grosso che le tue canzoni sappiano un po’ troppo di sentito e risentito, senza che i pezzi aderiscano irreversibilmente alla corteccia cerebrale di chi ascolta. Poche bands sono riuscite a creare un proprio tratto distintivo che permetta loro di svettare fra le altre ed essere riconosciute al primo ascolto. Purtroppo, secondo me, i Daisies non fanno parte di questo ristretto novero. Metteteci anche che la voce di Corabi a me non va giù dai tempi dei Motley ed il quadretto è completato. Che poi il singolo/title track sia un po’ più catchy (ma sarebbe meglio dire digeribile), che “I wanna be your bitch”, “I’m gonna ride” e “Take a long ride” possano risultare gradevoli ai fans dei fratelli Young e che la grungie “Back to zero” possa essere apprezzata dagli estimatori dell’infame disco dei Crue, non riescono però a salvare il lavoro dall’insufficienza.
Chi vi scrive ritiene che questo “Light’em up” non aggiunga assolutamente niente a quanto già prodotto dal gruppo. Acquisto consigliato solo a chi vuole avere tutto della band o dei singoli musicisti.
11 Ottobre 2024 1 Commento Denis Abello
genere: AOR - Prog Rock
anno: 2024
etichetta: Escape Music
Cosa aspettarsi da una band AOR con venature prog che si chiama Keys? Riff graffianti di chitarra e batterie pestate? Direi proprio di no! Direi che da un progetto che si chiama Keys e che nasce dall’idea di Mark Mangold, tastierista leggendario noto per aver fondato i seminali American Tears oltre che per gli splendidi Drive She Said senza dimenticare il suo lavoro con artisti come Michael Bolton e Cher, dove si va a parare sia ben chiaro… una profusione estrema di tastiere.
Jake E, ex frontman di Amaranthe e attualmente con i Cyhra si unisce in questi Keys! Insieme i due hanno creato un album che fonde il rock classico con suoni completamente elettronici cercando di dare vita ad un’esperienza unica, particolare e nostalgica.
Mark Mangold porta il suo inconfondibile tocco sulle tastiere, trasformandole nel fulcro di ogni brano. Il suo stile utilizza arrangiamenti sofisticati e epici assoli di tastiera che rimpiazzano le tradizionali chitarre. Oltre a questo lato, Jake E offre una performance vocale che è un omaggio agli anni ’80, con la sua voce graffiante e melodica che sa emozionare e dare energia alle tracce più dinamiche.
L’album The Grand Seduction, secondo lavoro a nome Keys, si apre con la traccia omonima, un pezzo di 9 minuti che fonde melodie epiche miste a incursioni di Hammond. A seguire canzoni come “All I Need” e “Shining Sails”, che ci riportano all’arena rock era. Tuttavia la totale dipendenza da strumenti sintetizzati, soprattutto nella sezione ritmica, penalizza il risultato sonoro finale del tutto.
Il brano “Vortex” emerge come uno dei momenti migliori, con il suo ritornello potente e l’atmosfera epica, mentre tracce come “Skin and Bones” e “Turn to Dust” si spostano sul pop elettronico e il synthwave, creando un’interessante fusione tra passato e futuro. Valida e apprezzabile anche la presenza di diverse ballads, anche se va detto che potrebbero anche portare ad un effetto finale fin troppo edulcorato, effetto già enfatizzato dalla massiccia presenza delle tastiere.
In sintesi, The Grand Seduction è un album che si lascia ascoltare e tenta un approccio differente all’AOR. Gioca a favore l’esperienza dei musicisti coinvolti. Inutile sottolineare che questo è un album volutamente orientato a chi ama ed ha amato le tastiere tipiche degli anni ’80 e a cui non dispiace un approccio elettronico. La presenza di molti suoni sintetizzati lo porta invece ad essere evitato da chi è alla ricerca di un sound grezzo, diretto e assolutamente autentico.
09 Ottobre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Sneakout Records - Burning Minds
I My Darkest Red sono la nuova incarnazione dei Poisonheart, band hard rock bresciana che aveva debuttato nel 2017 per Sneakout/Burning Minds, ma che, con l’arrivo del bassista ex Dreamhunter Andrea Verginella, a completare la band composta anche da Fabio Perini alle voci e alla chitarra ritmica e da Andrea Gusmeri alla chitarra solista, vira più decisamente verso sonorità dark-gothic, pur mantenendo la base hard rock.
Date le premesse, per me, che sono un fan di quella scena, soprattutto inglese, che ha caratterizzato la prima metà degli anni ottanta, questo album arriva come una ventata di aria fresca in un panorama, quello hard’n’heavy attuale, abbastanza stagnante e, seppur i rimandi alle atmosfere create da The Sisters of Mercy, The Cure, Bauhaus e i The Damned di “Phantasmagoria”, siano abbastanza evidenti, la commistione di generi risulta ben fatta, con un piglio sicuramente più hard rock rispetto, ad esempio, ai The 69 Eyes, che hanno anche loro preso a piene mani da quella scena oscura e decadente.
L’inizio con “The house on the hill” può fuorviare e far sembrare che il gothic rock sia solo un lieve contorno per un robusto hard rock, seppur le tematiche siano già ben incentrate su i vecchi film horror, ma da “By the moonlight” si manifesta evidente l’amore per la darkwave, con Fabio Perini che si atteggia un po’ Dave Vanian e un po’ Andrew Eldritch, cosa che succede anche con la successiva “Tears in the snow”, che ricalca nel testo la classica storia d’amore per una donna che cerca conforto dopo una brutta esperienza, con “Black lullabies” si cambia sensibilmente tiro, pur mantenendo un velo di grigiore, il brano si evolve come una semiballad sorretta da un riff potente, con un testo incentrato sulla pazzia del genere umano nei confronti del mondo in cui viviamo, “Eternity” si dipana verso un horror metal che ricorda le cose oramai più easy fatte da Steve Sylvester, sia musicalmente che dal punto di vista delle liriche, “The flame” chiude quella che viene nominata Midnight side, con una tetra nenia che si apre in una semiballad acustica e che racconta l’ennesima storia orrorifica. La Supremacy side si apre, anche se chiaramente nel cd non ci sono due lati, con “The dirty way”, che mantiene il tiro dell’opener, preferendo un solido hard rock ai limiti col metal e lasciando la parte oscura solo per il testo, cosa che, tutto sommato, si protrae anche per le successive quattro canzoni, “Only after midnight”, “From dusk till dawn”, che ha un’andamento decisamente più vigoroso, “Merry-go-round” e “Dark night, fright night” e qui mi preme dire una cosa, è proprio tutto così rose e fiori questo album? Non del tutto e sono proprio le canzoni di questa ipotetica Supremacy side che non decollano del tutto, come quelle decisamente più ispirate della Midnight side, non che siano brutte, forse solo “Only after midnight”, con quel ritornello scontato rimane sottotono, ma il confronto con la prima parte è davvero squilibrato, per fortuna, arriva “Miriam (She wakes up at Midnight)”, che già dal titolo rimanda allo stupendo film gotico con Catherine Deneuve, Susan Sarandon e David Bowie, qui si capisce che i My Darkest Red si trovano decisamente più a proprio agio quando vogliono scrutare nella bruma e portare la loro musica verso quei territori che tanto hanno fatto proseliti in terra d’Albione negli anni ottanta, la canzone è un vero e proprio inno dark-goth con Fabio Perini in gran spolvero e le tastiere orrorifiche di Sonny “STK” Montanari a dettare legge.
Non è sicuramente una novità fare una crossover tra gothic-dark e hard rock, in passato lo hanno già fatti i The Cult, che però arrivavano dal goth, al contrario dei The 69 Eyes e molti altri hanno comunque venato il loro hard rock di oscurità, ad esempio i Bang Tango di “Dancin’ on coals” o gli L.A. Guns di “Hollywood vampires”, ma riuscire a farlo in maniera così ispirata e soprattutto così centrata sulla materia oscura, non è cosa da pochi.
Infine, se avete notato, ho scritto anche dei testi, cosa che è difficile fare se non si ha in mano un supporto fisico, cosa che oramai è difficile succeda, ma di questo devo ringraziare Stefano Gottardi, Boss della Burning Minds ed è anche per questo motivo che non ho scritto la recensione prima dell’uscita del disco, volevo dare più informazioni possibili, dare visibilità maggiore ad una band che, a mio parere, merita davvero e credo proprio di esserci riuscito. Grazie a questo si sa anche che la band ha curato gli arrangiamenti e l’artwork, ha prodotto l’album assieme a Oscar Burato e che quest’ultimo lo ha registrato e mixato ai Sonic Bang Studios di Isorella in provincia di Brescia, mentre la bella e tenebrosa dark lady in copertina e sul cd si chiama Nicoleta Nikita, tutte informazioni che, normalmente, non si riescono ad avere, soprattutto quando si ha a che fare con degli scarni files di streaming e personalmente tendo ad essere poco attratto da chi non vuole fornire lo stretto necessario per una recensione fatta come si deve, ma tant’è, il trend è questo purtroppo…
04 Ottobre 2024 1 Commento Yuri Picasso
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers
Dopo 11 anni dall’ultima testimonianza, torna in scena sotto Frontiers il moniker danese di culto Fate. Nel rivedere il loro percorso artistico da quando Hank Sherman nel 1984 dipartì dai Merciful Fate per avvicinarsi a sonorità mainstream, ad oggi, possiamo riconoscere due identità distinte e riuscite lungo la loro carriera. La prima fase rispecchiava il tipico sound Melodic Rock/AOR proveniente dal freddo nord Europa: tastiere + Synth predominanti, ricerca del ritornello a presa rapida il tutto trainato dal frontman Jeff Lox Limbo (ai tempi definito il David Lee Roth di Danimarca). Con ‘Scratch and Sniff’ (1990) si virò verso un sound Hard & Heavy trascinato dall’ecclettico e dotato Mattias “IA” Eklundh alle 6 corde e fronteggiato dalle vocals alte e potenti di Peer Johansson. Un cambio netto, riuscito, proseguito con l’ottimo ‘V’ (2006), primo disco della reunion, dove alla chitarra trovavamo Soren Hoff. Della Line Up originale oggi abbiamo il solo bassista Peter Steincke, accompagnato dal rientrante Johansson dietro al microfono.
Il sound guidato dal chitarrista deus ex machina Torben Enevoldsen (Fatal Force, Section A – qui alla terza prova in studio) rimane orientato a un Heavy dai tratti teutonici e saltuariamente sconfinanti nell’epic.
Sarà colpa delle personali e forse elevate aspettative, ma dopo ripetuti ascolti stento a memorizzare molti dei passaggi strumentali e vocali della scaletta di questo ‘Reconnect’ N Ignite’; se la forma stilistica segue lo stile del capace Enevoldsen, il songwriting a più riprese appare eccessivamente di maniera e a tratti sterile.
Oltre le mie sindacabili opinioni, prendete a musa i Pretty Maids più Heavy o gli ultimi Bonfire, mancando quella perizia in grado di elevare il full length a pienamente convincente.
Le canzoni meglio riuscite sono quelle che si avvicinano per imprinting heavy e melodico allo stile degli album del 1990 e del 2006, dove si riscontra l’attitudine catchy per sviluppo di melodie ariose e cori consoni.
Posso citarvi tra le mie preferite l’opener “Around The Sun” e la doppietta posta verso il finale “When It’s Over” e “Children of a Lesser God”, up-tempo conditi da soli azzeccati e strutture armoniche efficaci.
Auspicavo un ritorno più convinto e deciso alle sonorità legate alla voce di Peer Johansson, fautore di una buona prova nonostante emerga una comprensibile difficoltà anagrafica ad esprimere la grinta che un tempo solcava le sue linee.
Un passo indietro rispetto a ‘If Not For The Devil’ (2013) che mostrava una maggiore e globale coesione unite a un songwriting più ispirato.
Consigliato ai completisti del genere e agli amanti delle belle grafiche di copertina.
28 Settembre 2024 0 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Inverse
In una burrascosa settimana di metà settembre a Lampedusa, mi trovo a scrivere, visto il maltempo estivo, le righe di questa ‘particolare’ recensione di “Heartageddon”, terzo capitolo discografico dei WTN, uscito per Inverse Records, è composto da ben tredici tracce.
Il preludio atmosferico iniziale fa da perfetto contraltare al secondo singolo della band finlandese “Bulletproof” ambientato in una splendida cornice innevata. La bella canzone in stile W.e.t. è una combinazione di tastiere e chitarre cariche di energia, pronte a sciogliere ghiacci nordici e silenzi lampedusani.
Passando di spiaggia in spiaggia, abbino una coppia di canzoni ad ogni singola sosta al mare, apportando alla recensione un aspetto vacanziero o da puntata di “Kilimangiaro”.
Iniziamo il tour musicale.
Posta nei pressi dell‘aeroporto, in cala Maluk, dal nome quasi evocativo dei nativi americani, suona egregiamente la marcia di “I Can Take It All” che prepara la carica, manco a farlo di proposito, de “Cowboyz & Call Girlz”, moderna e ben orchestrata, entrambe infarcite da una potente base di basso e chitarre.
Nella poco pubblicizzata cala Galera, quale miglior colonna sonora se non il primo singolo dal titolo “Alive”? Uscito al primo maggio, ha in dote un bel giro di chitarra e un video quanto meno particolare. A seguire, perfetto appare il titolo “The shadows”; la canzone ricorda il mood dei One Desire per struttura e presenze di tastiere; bello l’assolo.
Terza tappa, la più suggestiva e rinomata, la spiaggia dei Conigli, dove, se fosse possibile, sarebbe spettacolare guardare il tramonto con un sottofondo come “Crossroads”, sognante anche nel testo, e la “Wheel of fortune” che qui non servirebbe visto il luogo paradisiaco (un po’ troppo affollato).
Quarta ed ultima tappa al settimo giorno, cala Pulcino, impervia e non accessibile dalle strade, a cui affianco cronologicamente la canzone “Seven”, con un’anima glam dal ritornello di facile presa tra Crashdiet e Crazy Lixx, e la semi acustica “Street of fire”.
Il tour turistico-musicale termina; la varietà delle spiagge e dei paesaggi in pochi chilometri di isola si sposano alla perfezione con la proposta eterogenea dei Wake the Nations che toccano diverse sfumature del hard melodico scandinavo.
p.s. dedicato A. una persona che silenziosamente ha influenzato una vacanza.