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Corvus – Immortals – Recensione

23 Gennaio 2024 0 Commenti Denis Abello

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy Music

Usciti nel 2015 con l’album Chasing Miracles, tornano ora dopo otto anni gli Inglesi Corvus! Nati nel 2012 per volere del chitarrista John Clews, che qualcuno magari si ricorderà per la sua presenza nei Serpentine, i Corvus altro non sono che una bella realtà AOR pura, semplice e diretta!
La particolarità della band si può ricercare nella voce di Ciaran James dallo stile a tratti teatrale e romantica che mi ha ricordato a tratti quella di Morrissey.

La proposta musicale è interessante. Pur non discostandosi da un AOR per lo più fresco, catchy e altamente orecchiabile di matrice puramente inglese, come potrebbe essere per fare un paragone recente quello dei Cats in Space ma ancora più edulcorato, riesce ad uscirne a testa alta grazie a brani ben confezionati e ad una produzione pulita e colorata che evita l’effetto “binario unico” che spesso si percepisce nelle produzioni odierne di questo genere.

Un album da ascoltare con spensieratezza, ma non per questo privo di liriche anche impegnate, e con sempre quel senso di vintage AOR a coccolarci i timpani. Forse qualche brano che tende ad assomigliarsi qua e la ma anche qualche bella perla come You Make Me Live Again in cui i tratti della voce segnalati a inizio recensione di Ciaran tra teatrale e romantico si fondono perfettamente dando vita ad un brano sognante e poetico con l’eleganza tipica di un certo AOR di matrice inglese.
Bella e atipica, ma trademark della band visto che già lo avevano fatto nel precedente lavoro, la chiusura sulle note della strumentale Stardust.

Da notare comunque in aggiunta due bonus come la versione alternativa di Chasing Miracles dal primo album e la natalizia Can You Hear The Sleigh Bells Rings, singolo del 2016, che poco valore agiungono all’album ma che risultano comunque un gradito presente da parte della band.

Niente di nuovo sotto il sole e questo è forse l’unico vero appunto che si può fare a questo lavoro, ovvero una certa mancanza di originalità che volente o nolente mina il voto finale. Va detto però che il tutto viene comunque ben bilanciato da un lavoro preciso e curato nello sviluppo e nell’esecuzione dei pezzi. Così se con il primo album i Corvus avevano posizionato un tassello che faceva capire le intenzioni della band, con questo nuovo lavoro a titolo Immortals piazzano un buon secondo diretto che sicuramente metterà KO qualche cuore AOR dal tratto “mieloso” rimasto fermo nelle terre di Albione dei primi anni ’80.

Cobrakill – Serpent’s Kiss – Recensione

23 Gennaio 2024 0 Commenti Vittorio Mortara

genere: Glam
anno: 2024
etichetta: Frontiers

I tedeschi Cobrakill qui hanno tentato di sfornare un album di glam metal sporco e primordiale, avendo nel mirino i Motley di “Too fast for love”. Ci sono riff grezzi, batteria roboante e voce da ‘paperella’ ad accompagnare testi sex drugs and rock’n’roll… Ma niente più. Il quintetto teutonico sembra non avere le idee chiarissime su come si componga una canzone nel genere. I pezzi sembrano, per la maggior parte, collages di idee prese qua e là tra i classici stradaioli degli anni 80. Spesso tutti paiono troppo presi a suonare grezzi e cattivi. Il batterista picchia sulle pelli come se non ci fosse un domani. Le linee vocali non trovano mai una vena che le renda abbastanza catchy. Gli assoli di chitarra sono sempre stridenti e concitati. In aggiunta, come se non bastasse, la produzione approssimativa non aiuta affatto a migliorare la situazione.
E allora, in questo calderone ribollente, risulta difficile pescare qualche buon pezzo. Magari la motorheadiana “Above the law”. Oppure la street “Same ol’ nasty rock’n’roll” e, perché no, la più riflessiva “Silent running”, dove vengono usati con un po’ più di senso i cori e le tastiere.
Insomma, il vuoto lasciato sulla scena glam dall’eclipsizzazione dei Crashdiet non è ancora stato colmato…

Lazarus Dream – Imaginary Life – Recensione

23 Gennaio 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

In uscita in questo 2024 il nuovo album dei tedeschi Lazarus Dream, un concentrato teutonico di hard rock raffinato e potente.

Partiamo senza troppi indugi con la corale e coinvolgente “The Sweetest Chaos”, gagliarda, intensa, strumentalmente compattissima, ottimo biglietto da visita per la band. Passiamo alla successiva “Vulture’s Cry”, martellante e dall’impatto deciso, globalmente un pezzone riuscitissimo, per atmosfera e resa musicale. “Rebel Again” non delude, facendo assaporare all’ascoltatore un che di nostalgico e lontano, soprattutto nelle parti solistico – strumentali. Arriviamo alla title – track “My Imaginary Life”, molto suadente e corale, un marchio di fabbrica della band, che ci porta ad un livello compositivo ed esecutivo molto buono, soprattutto nel trasporto prodotto dal ritornello. Giungiamo immancabilmente al lento del lavoro dei Lazarus Dream: “Beauty Among The Ruins” spicca per intensità e calore, ma di per sé non si allontana moltissimo dalla miriade di lenti della storia dell’hard rock. “Disaster Love”, con il suo cry baby iniziale e i suoi fraseggi disorientanti, è un brano di grandissimo interesse e dall’esecuzione variegata e piacevolissima: perla assoluta. Tripudio di tecnica chitarristica per “Vertigo”, pezzo smanettone dalla grande intensità, che sfocia nell’ovattata e confortevole “My Prayer”, senza grandi picchi da rilevare. “Drink My Blood” ci proietta su orizzonti ipercontemporanei, al limite del genere, che però si ripresenta e si mescola, creando un prodotto di grande impatto. Chiusura affidata alla crudelissima “Empire Of Thorns”, non particolarmente differente dal resto del lavoro, ovvero un album molto ben suonato ed arrangiato, dagli spunti talvolta interessanti e globalmente riuscito in ogni particolare: buon inizio di 2024.

Jim Peterik & World Stage – Roots & Shoots-Volume One – Recensione breve

23 Gennaio 2024 1 Commento Yuri Picasso

genere: Rock/Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Se mai un giovane della Gen Z (o non) dovesse chiedermi come approcciare alla musica di Jim Peterik, consiglierei di ripercorrerla seguendo la linea temporale. Quali altre parole per evidenziare l’importanza di un percorso denso di highlights, partendo dalle Ides Of March, amando i seminali Survivor, riscoprendosi coi Pride of Lions, coniugato alle sue innumerevoli collaborazioni.
Inutile soffermarsi in questa sede sugli apici raggiunti dall’artista dell’Illinois e sulla longevità artistica, Encomiabili, degni di una sincera Stima.
Nel qui presente ‘Roots & Shoots – Volume One’, quarto capitolo a nome Jim Peterik & World Stage viene accompagnato e affiancato dal fedele Mike Aquino e il solito stormo di ottimi musicisti e cantanti, amici e colleghi, chi più chi meno veterano della scena.
Meno Aor dei capitoli precedenti, ascoltiamo un insieme di tracce Rock asciutte, lontane da uso di distorsori o sintetizzatori invadenti. Soluzioni melodiche stagnanti e prevedibili.
Ritengo salvabili “Last Dream Home” (ft. Don Barnes) e “As I Am” (ft. Ashton Brooke Gill) pur richiamando nella strofa “Dream On” (Aerosmith).
Un disco che risente di tutti questi anni passati a scrivere anche, ancora, grandi canzoni.
Superfluo a dir poco.

Gotus – Gotus – Recensione

19 Gennaio 2024 7 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Prodotto dal tuttofare Del Vecchio, prende forma sotto l’egida Frontiers il progetto discografico dell’ex ascia degli svizzeri Krokus, Mandy Mayer. Fiancheggiato dagli ex compagni Pat Aeby e Tony Castell, il nostro eroe si avvale dell’ugola del gettonatissimo Ronnie Romero e delle tastiere di tale Alain Guy.

La musica che scaturisce dai solchi dell’album è un hard rock classico, non molto distante da quanto proposto dalla band madre Krokus. Così è per l’iniziale “Take me to the mountain” piuttosto insipida. Scorre via piacevole la più moderna “Beware of the fire”. Carino il canonicissimo lento “Love will find its way”, reso molto bene dai vocalizzi del singer cileno. “Undercover” non lascia memoria di sé e cede il passo al discreto ritornello di “Weekend warriors”. Il picco si tocca con lo slow “Children of the night”, azzeccato in tutto: linea vocale, interpretazione e solo di chitarra. Sorvolando sulla cover di “When the rain comes” dei Katmandu, blues noiosetto, si arriva al singolo “Without your love”, bel pezzo di AOR melodico e sornione al punto giusto. La slide di “What comes around goes around” ci proietta nelle assolate lande americane con un certo sapore di già sentito e lascia spazio ad un’altra cover “Reason to live” dei connazionali Gotthard. Scusate ma con la voce del compianto Steve Lee era un’altra cosa… E siamo già alla fine con “On the dawn of Tomorrow”, strizzando l’occhio ad un hard moderno già sentito centinaia di volte sui dischi di centinaia di bands…

Difficile trarre le conclusioni su questo lavoro senza ripetere considerazioni già fatte e rifatte per altre uscite simili nel corso degli ultimi anni… Qualche bel pezzo c’è, ma manca la convinzione, lo spirito di gruppo nel perseguire un determinato sound. Anzi, determinati intenti. E così, alla fine, il tutto appare come l’ennesimo progetto partorito a tavolino senza anima né cuore…

Grand – Second To None – Recensione

18 Gennaio 2024 4 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Dopo il buon debutto di fine 2022 arriva a distanza di poco più di un anno il secondo lavoro delle band capitanata dal singer Mattias Olofsson. La proposta del gruppo non si discosta da quanto fatto sentire in precedenza, un facile (a volte fin troppo scontato) pop AOR influenzato da band quali Toto, Gaint e Foreigner. Il singolo di lancio nonché prima traccia Crash And Burn mi aveva fatto sperare di trovarmi di fronte ad un album da potenziale top ten di fine anno ma purtroppo le promesse sono state mantenute solo in parte. Alcuni brani come When We Were Young e Leave No Scar ci riportano al pop rock da classifica di fine anni 80 e insieme alla power ballad Out Of The Blue rappresentano il meglio dell’intero lavoro. A questo fanno contraltare canzoni di una banalità disarmante come il lento Lily o le iper stereotipate Rock Bottom, Sweet Talker e Achilles Hell. Da segnalare il duetto con la popolare cantante svedese Nina Söderquist sulle note della discreta Kryptonite. Come avevo già avuto modo di sottolineare in occasione della precedente recensione il vero punto debole della band è rappresentato a mio avviso dalla voce troppo ordinaria di Mattias il quale non riesce mai a valorizzare un lotto di composizioni tutto sommato buone.

Urge insomma un cambio di marcia, altrimenti i ragazzi si ritroveranno a navigare nel più completo anonimato fra le decine di band che affollano l’ormai iper inflazionato panorama hard rock scandinavo.

Magnum – Here Comes The Rain – Recensione

05 Gennaio 2024 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: STEAMHAMMER / SPV

Ecco in uscita Here Comes The Rain, purtroppo i problemi di salute che hanno colpito Tony Clarkin e costretto il gruppo ad annullare il tour di promozione dell’ album (QUI la notizia), i fans saranno dunque costretti ad ascoltare i Magnum in versione studio, almeno per un po’ di tempo.

Dopo un paio di ascolti dell’album ho pensato che avrei quasi voluto fare copia e incolla della recensione del precedente The Monster Roars, perché alla fine i concetti sono quelli. Chi siano i Magnum e quale sia il loro tracciato musicale è arcinoto ed è ovviamente improbabile aspettarsi cose diverse da musicisti di questa età e con un certo curriculum alle spalle, quindi preparatevi a gustarvi il “solito” disco dei Magnum, fatto con tanto mestiere, ma anche con un gusto ed una sapienza inarrivabile ai più.

Devo però ammettere che rispetto al disco precedente c’è un po’ più di varietà. Brani più orchestrali e melodici si alternano ad alcuni più tirati ed immediati, questa cosa fa sicuramente bene all’ascolto, tenendo alta l’attenzione. L’inizio è come sempre ottimo e Run Into The Shadows è proprio l’emblema dell’opener a la Magnum, un vero e proprio trademark che ti mette subito di buon umore. La title track è invece più cadenzata e forse più monocorde, mentre la seguente  Some Kind Of Treachery inizia lenta per poi esplodere nel magniloquente chorus Magnum style. La seguente After The Silence scorre via un po’ anonima, mentre con Blue Tango si rockeggia alla grande grazie alla sua struttura blueseggiante. The Day He Lied è pomposa nel suo incedere malinconico,  The Seventh Darkness ci mostra invece il lato folk della band, mentre Broken City è forse la canzone più piatta del disco. Chiudono le interessanti I Wanna Live con le sue tastiere progheggianti e l’articolata Borderline.

In sostanza un ottimo disco che con gli ascolti cresce e ci propone un gruppo ancora in splendida forma artistica, che probabilmente sforna uno dei migliori lavori della loro fase “matura”. Se arriva la pioggia noi apriamo l’ombrello e premiamo il tasto play, sarà comunque una bella giornata.

Purtroppo, appena due giorni dopo la pubblicazione di questa recensione, apprendiamo del decesso di Tony Clarkin, questo lavoro resterà dunque il suo epitaffio e tutto ciò rafforza ulteriormente quello che ho scritto del disco, che resterà l’ultima traccia del sound dei Magnum. Buon viaggio Tony e grazie di tutto.

Russell / Guns – Medusa -Recensione

05 Gennaio 2024 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Quando ho letto della collaborazione di Tracii Guns e Jack Russell, inutile nascondervi un pelo di scetticismo riguardo l’ennesimo tentativo di coniugare artisticamente due o più musicisti della golden era.
Spesso ci siamo ritrovati tra le mani lavori alla meglio apprezzabili, che nulla aggiungevano al bagaglio di star arrivate alla sessantina od oltre, se non confermare il proprio carisma e le proprie doti tecniche.
La musica è arte, arte è avere qualcosa da esprimere, di nuovo, di più; espressione sincera del proprio stato di ispirazione.
Il sospetto iniziale fa compagnia alle aspettative ordinarie durante l’ascolto di questo ‘Medusa’, dove assieme al duo troviamo Johnny Martin, Shane Fitzgibbon, e l’immancabile Alessandro Del Vecchio.
Eppure…l’attacco di “Next in Line” seguito da una strofa grintosa permette al classico headbanging di liberarsi in quello che sarà il mood del disco. Peccato per la linea del ritornello un poco fiacca seppur accompagnata da un piano Honky.
Di livello la graffiante “Tell Me Why” intramezzata da uno stacco dove la variazione di dinamica la fa da padrona per poi martellare nuovamente sul finale.
“Coming Down” alza il tasso di adrenalina spingendo ancora su di un uptempo diretto e dal chorus misurato.
Se in “Where I Belong” assaporiamo un appassionato lavoro alle 6 corde, in “For You” avremo il presentimento di essere coinvolti in una scazzottata all’interno di un vecchio saloon tra bottiglie di scotch, tavolini e sgabelli di legno fracassati, per mezzo di un riuscito accompagnamento pianistico.
“Give me the night” trae spunto, malamente, dallo stile dello squalo bianco meno ispirato, cosi come farà “Back Into Your Arms Again”.
Malinconica e introspettiva “Living a Lie”, spezza l’iter del lavoro rallentando i ritmi, con la performance di rilievo di un ritrovato e vocalmente in forma Jack Russell.
“In and Out of Love” e la title track confermano il fervore e l’estro che contraddistingue una di queste prime uscite del 2024.

Nel nostro immaginario ‘Medusa’ dovrebbe suonare come un mix degli L.A Guns meno sleazy / più bluesy, riprendendo le linee vocali dei Great White dei tempi D’oro aggiornando il tutto con una produzione (purtroppo) moderna e di conseguenza leggermente asettica.
E cosi, l’immenso mestiere degli artisti coinvolti accompagnati da un’inattesa dose di ispirazione ci dona un album assolutamente godibile , fruibile da chiunque possegga buon gusto musicale.
Piacevole Sorpresa.

Last In Time – Too Late – Recensione

04 Gennaio 2024 0 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Rockshots

“Last in Time è un progetto formato nel 2021 come band in studio, con l’obiettivo di registrare brani originali nel genere Progressive e Classic Rock/AOR. A capo del progetto c’è Massimo Marchetti, autore, produttore e arrangiatore dei brani del gruppo. Il progetto ha una formazione diversificata, in quanto è stato gestito come una All-star band, al fine di garantire che ogni canzone avesse un diverso tocco artistico. Infatti, la possibilità di avere più voci, tra cui una femminile, ha ampliato notevolmente la proposta compositiva delle canzoni, consentendo una gamma di generi e sfumature.” Questo è quello che viene dichiarato dalla band sulle note che accompagnano il promo e bisogna dire che è quello che mi ha incuriosito maggiormente, perché chi legge i miei articoli certamente saprà che adoro queste commistioni di genere, secondo me utili al rilancio di una scena che ultimamente soffre di una grigia ripetitività.

In effetti sia la presenza di vari interpreti vocali, sia le eclettiche capacità compositive della band, si notano fin dal primo ascolto proponendo un ampio ventaglio sonoro che spazia dall’ aor di stampo eighties, fino ad arrivare a riff al limite del metal, il tutto condito da ritmiche certamente non canoniche che indubbiamente guardano al prog metal degli anni 90. I pezzi si alternano vari tra loro senza seguire un concept predefinito ed, a mio orecchio, sembra che vengano fuori da epoche diverse, mostrando così caratteristiche derivanti dalle diverse  sfaccettature del mondo hard rock. Prendiamo per esempio l’opener The Way To Rock, che sembra scrutare ad orizzonti ottantiani con il suo coro anthemico, ma anche  la struttura estremamente dinamica di The Animal rimanda ai classici dei tempi che furono, mentre gli echi Whitesnake si odono in Too Late. In tutto ciò spiccano Believer In Love e Moonlight Dreamers, entrambi interpretati dalla ottima voce di Caterina Minguzzi, che fornisce un suond con un tocco più moderno ed attuale. Mi sento però di muovere una critica, alcuni pezzi sono troppo ridondanti di strumenti ed i brani risultano così un po’ troppo barocchi ed impastati. Insomma, se da un lato non avere una direzione musicale univoca è senza dubbio un pregio, può essere anche che il troppo variare, senza seguire un canovaccio sonoro univoco, possa rischiare di spiazzare l’ascoltatore meno smaliziato.

Riassumendo, mi sento di fare un plauso alla band italiana, perché al netto di qualche difettuccio, le idee ci sono ed il coraggio di osare va sicuramente premiato. Un lavoro che consiglio agli ascoltatori più open minded, che amano uscire dai soliti cliché del genere.

Ignescent – Fight In Me – Recensione

21 Dicembre 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Alternative
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Ecco la mia ultima recensione di questo 2023 denso e intenso:  gli statunitensi Ignescent, con il loro alternative metal molto contemporaneo ed elettronico.

Partiamo alla grande con la coinvolgente e crudele “Monster You Made”, dalle atmosfere interessanti, martellanti e oscure. “Unholy” ci porta su nuovi orizzonti, con sonorità e ritmiche particolari, taglienti, possenti, che creano un pezzo assolutamente eccellente. Arriviamo alla title track “Fight In Me”, bella pestata, dalla dinamica perfetta, ottimo brano dall’inizio alla fine, dal ritornello suadente alle parti strumentali. Il momento del lento è sempre dietro l’angolo: “You’re Not Alone” ci scalda l’anima e il cuore con le sue vibrazioni dolci e intense, culminanti nel finale duro e pestato. “Under Attack” ci riporta nelle sonorità pazzesche e iper distorte dei brani precedenti, con una sessione ritmica presente e trainante, pesante al punto giusto e ben incastrata nella trama globale del pezzo, così come la successiva “Triple Threat”, molto più strumentale e oscura, ma ugualmente gradevole. Passa rapida e senza grandi picchi d’interessa “Shadows”, anch’essa ben identificabile nello stile Ignescent, così come la super potente “Carries Me”, dalla struttura quadrata e dalla dinamica crescente. Altro pseudo lento intenso sulle note di “The Hurt”, globalmente piacevole, non indimenticabile, ma in grado di suscitare le giuste emozioni, così come la successiva “Woman On Fire”, decisamente più movimentata, ma senza grandi slanci di originalità. Conclusa “Not Today”, interessante duetto con il cantante dei Disciple, arriviamo a tirare le somme di questo ultimo lavoro degli Ignescent: la sensazione è di trovarsi di fronte a un album spaccato in due, con una grande parte iniziale che via via si spegne, diventando poco originale nel finale; la verve e il sound sono però di grandissimo impatto, bisogna essere onesti, e c’è molta curiosità su come sarà la resa live di tracce così elaborate a livello di suoni.