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Gotthard – Stereo Crush – Recensione

05 Aprile 2025 7 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR/Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Reigning Phoenix Music

Dopo “millemila” anni mi ritrovo con grande stupore a recensire il nuovo disco degli elvetici Gotthard, un’istituzione in campo hard rock a livello internazionale che per vari motivi avevo perso di vista.

A parziale giustificazione del mio disinteresse nei confronti del gruppo bisogna considerare sia la prematura quanto tragica scomparsa del carismatico frontman Steve Lee (5 ottobre 2010), sia le altalenanti prove da studio dell’ultimo decennio. Attirato dal singolo di esordio ho voluto comunque dare un’altra possibilità a questi “baldi giovani”. La partenza non è stata certo delle migliori. La modernissima AI & I sin dal titolo mi aveva fatto storcere il naso e al primo ascolto mi ha totalmente spiazzato. Per darvi un’idea ho avuto la stessa sensazione di quando i Warrant uscirono con Machine Gun; un vero e proprio pugno allo stomaco. A rimettere le cose a posto ci pensa comunque la solare (a dispetto del titolo) Thunder & Lighting, un tipico brano da Arena Rock come non se ne sentivano da tempo; ruffiana ed immediata quanto basta da catturare l’interesse degli appassionati del genere. Rusty Rose convince all’istante riportandoci agli anni d’oro della band, ma è con la successiva Burning Bridge che i ragazzi mettono a segno un colpo da maestro. Ascoltando questo splendido mid tempo mi sono venute in mente Rainbow Child dei Dan Reed Network e Don’t Walk Away dei Danger Danger. Un’intro pianistica da power ballad fa da apertura alla prima esplosiva strofa e ad un trascinante ritornello che da solo varrebbe l’acquisto del disco. Drive My Car rappresenta il tributo con cui Leo Leoni vuole rende omaggio all’irripetibile carriera dei Fab Four mentre un po’ banali e scolastiche si rivelano sia Boom Boom che la “gemella” Shake Shake. I ragazzi sanno però come farsi perdonare attingendo alla specialità della casa e piazzando immediatamente un paio di ballads di grandissimo livello come Life e These Are The Days. In questo campo bisogna essere onesti, i Gotthard hanno da sempre ben pochi rivali al mondo. Altro pezzaccio si rivela Liverpool le cui note iniziali mi ricordano tanto Johnny & Mary di Robert Palmer salvo poi virare nella ritmica verso Summer of 69’ di Brayan Adams. Degne di nota sia la roboante Devil In The Moonlight che la polverosa Dig A Little Deeper dalla quale emerge tutta la voglia di fare casino dei cinque musicisti. A tutto questo aggiungete una produzione curatissima, potente ed estremante brillante ed avrete la spiegazione del voto che trovate sopra riportato.

Un disco che non passerà di certo inosservato e che rappresenta una piacevolissima quanto inaspettata sorpresa.

The Darkness – Dreams on Toast – Recensione

01 Aprile 2025 3 Commenti Giulio Burato

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Cooking Vinyl

Il 6 Luglio del 2024 ho finalmente avuto modo di vedere la versione live dei The Darkness al Metal Park di Romano d’Ezzelino (VI). Ho assaporato e apprezzato, sotto un temporale estivo, la vena folle e simpatica della band capitanata da Justin Hawkins; tale vena scorre in maniera inesorabile ed evidente anche nel nuovo album “Dreams on toast” in uscita per Cookyng Vinyl il 28/03/2025.
Le influenze da cui attingono principalmente i quattro ragazzi inglesi sono da sempre gli AC/DC e i Queen.
L’irriverente copertina ritrae, stranamente e solamente, Frankie Poullain e Rufus Tiger Taylor intenti in uno sketch che mi ricorda, nei toni, i film demenziali di Jim Carrey.
A riprova ulteriore della bizzarria del gruppo, l’uscita di ben cinque singoli, ossia metà della tracklist, prima della divulgazione dell’intero “Dreams on toast” (e anche qui, come tradurlo?).

Se il primo singolo “The longest kiss” è molto british pop nel suo incedere, orecchiabile ma mai stucchevole, con un assolo che ricorda la band di Freddy Mercury, nel secondo intitolato “I hate myself” sembra di sentire inizialmente i Blink 182 per poi addentrarsi in una canzone dalle mille sfaccettature, istrionica e pazza all’ennesima potenza, con chitarre e fiati che la girano e rigirano come un calzino. “Rock And Roll Party Cowboy” è un piccolo anthem da sentire in un prossimo live, con le strofe che mi ricordano gli Slave Raider e un ritornello ispirato.
“Walking Through Fire” è il quarto singolo, un ibrido tra una power ballad e qualcosa di già sentito in “Permission to land”, mentre “Hot On My Tail” è una ballata impolverata di country che va a braccetto con “Cold hearted woman”.
“Don’t need sunshine” è una canzone spensierata come il suo testo, leggera, che scorre come un ruscello di montagna; fanno da contraltare a questa leggerezza “The Battle for Gadget Land” che sterza verso il punk ruvido e “Mortal dread” che porta a galla la devozione per la band australiana per eccellenza.

La scaletta si chiude inaspettatamente con un omaggio alla nostra capitale. “Weekend In Rome” è una carezza con una voce parlata che accompagna le basi orchestrali che chiudono la canzone e questo sorprendente album, meno carico del passato, ma ricco di idee e dipinto in vari stili musicali.

Ben tornati, ai matti The Darkness!

Phil X & The Drills – POW! Right In The Kisser – Recensione

28 Marzo 2025 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Street / Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Philip Theofilos Xenidis ossia Phil X, lo conosciamo un po’ tutti per aver sostituito Richie Sambora nei Bon Jovi, ma il chitarrista canadese di origine greche è in giro da più di quarant’anni e ha addirittura esordito con i Sidinex, misconosciuto gruppo metal, proprio nel 1985, poi ha collaborato con i Triumph, sostituendo Rik Emmet in “Edge of excess” del 1992, ha suonato con Aldo Nova e con gli Apocalyptica, insomma, non è proprio uno sprovveduto e con i qui trattati The Drills è già arrivato al quinto album e cosa ci si deve aspettare da uno con il suo curriculum? Beh, che si lasci andare a qualcosa di più muscoloso della sua famosissima band principale e così fa, in “POW! Right in the kisser” ci sono undici saette di hard rock fortemente venato di street e con qualche incrocio con il punk e già così potrei chiudere la recensione, senza incorrere in banalità dette e scritte centinaia di volte, ma non voglio sminuire quello che è un bel modo di trascorrere poco meno di una quarantina di minuti, per cui, cercherò di non fare la solita analisi traccia per traccia, vediamo se ci riesco…

Quando ci si avvicina ad un album come questo, non credo sia necessario fare disquisizioni di tipo tecnico o altro, quello si può fare quando si parla di gruppi prog (metal o meno), qui quello che conta è la voglia, la forza, la passione, insomma tutto ciò che trasuda rock’n’roll e qui Phil ne mette a quintali, grazie alla forza del power trio, formula di band che, a quanto pare, sembra legata all’impersonificazione dell’hard rock più sanguigno, basti pensa ai Cream, ai Trapeze, ai Motorhead, ai primi Spiritual Beggars, ma anche ai nostri Dobermann, quindi chiunque cerchi originalità o svolazzi di ipertecnica stia bellamente alla larga da questo album, qui c’è solo e non è poco, tanta voglia di suonare il più diretto possibile e non c’è nemmeno lo spazio per romanticherie sotto forma di ballad, per quello ci sono i Bon Jovi, qui Phil, assieme al bassista Daniel Spree e al batterista Brent Fitz rimescola l’hard rock più seminale, quello che affonda le radici negli ultimi anni sessanta, con urgenza punk in “Way gone (Beam me up, Scotty)” e velleità pseudoalternative in “Fake the day away”, riuscendo ad accattivarsi un appeal degno di nota e dando una netta sensazione di sincerità in quello che viene proposto fin dall’opener “Don’t wake up dead”, cosa che continua con le sanguigne “I love you on her lips” e “Broken arrow”, con quella che sembra un estratto dalla penna di Glenn Hughes, ossia “Find a way” e non a caso citavo i Trapeze in precedenza o con l’episodio più solare del disco, ovvero “Moving to California”, dove il fumo del sottofondo di sporco blues elettrico che pervade ogni solco, si dirada per lasciare spazio ad una positività in musica che sembra uscire da una rivisitazione aggiornata della Summer of Love.

Phil canta e suona bene sia chiaro, coadiuvato come già detto dai suoi compagni di band, ma non solo, dato che dietro alle pelli si ritrovano anche altri personaggi di spicco, quali il suo compagno di band newjerseyana Tico Torres, il tentacolare Tommy Lee dei Motley Crue, l’ex percuotipelli dei Five Finger Death Punch Jeremy Spencer e il solido Ray Luzier dei Korn, ma anche con George Lynch e Doug Pinnick nei KXM, però qui non tenta di far valere le sue comunque indubbie doti di chitarrista, piuttosto prova a raccontare storie di vita stradaiola con la formula più semplice ed efficace che ci sia, quella del rock’n’roll e, a mio parere, ci riesce benissimo, certo, non siamo di fronte a quel tipo di supergruppo che potrebbe far pensare quando l’anima di una band è sostenuta da uno o più personaggi che vivono sotto ai riflettori, ma a qualcosa di più casereccio se vogliamo e proprio per questo, ripeto, sincero e la sensazione che si ha al termine dell’ascolto di “POW! Right in the kisser” è questa, per cui, cosa si vuole di più da un album di hard rock, se non un pugno di canzoni che arrivano direttamente al cuore? Bravo Phil, ben fatto!

 

Blended Brew – Roll The Dice – Recensione

28 Marzo 2025 4 Commenti Paolo Paganini

genere: Rock/Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Mighty Music

Premessa doverosa: fino a poco tempo fa non conoscevo i Blended Brew, e proprio per questo mi sono avvicinato con grande curiosità al loro nuovo disco, un lavoro composto da nove tracce che, per un motivo o per un altro, non avevano trovato spazio nelle release precedenti. Sin dal primo ascolto, la band danese mi ha sorpreso in positivo, colpendo nel segno grazie alla straordinaria immediatezza delle loro canzoni e all’evidente talento dei musicisti coinvolti.

Ciò che emerge fin da subito è la varietà e la ricchezza delle composizioni, che spaziano con naturalezza tra diverse sfumature del rock, mantenendo sempre una grande coesione stilistica. Si parte con Roll The Dice, un brano che incarna alla perfezione l’essenza più pura e viscerale del rock & roll, mettendo immediatamente in luce le doti vocali di Jimmy Mansson, capace di dare grinta ed espressività al pezzo. Traveling Song si muove invece su territori blues/rock e richiama da vicino le sonorità degli U2 del periodo The Joshua Tree.  La successiva Burning Soul è una ballata avvolgente e intensa, con atmosfere evocative che sanno di strade polverose e tramonti infuocati. Con Corner Of Trust si torna a rockeggiare in grande stile, ancora una volta con richiami alla band di Bono, ma con un tocco personale che rende il tutto fresco e accattivante.

L’album continua a sorprendere con Weirdo, un pezzo che sembra uscito direttamente dal repertorio dei migliori Pearl Jam, mentre Crossing Craziness richiama l’energia diretta e sfacciata degli australiani Jet. Il disco si spinge poi verso sonorità più moderne con la dinamica e incisiva Intervene, per poi chiudersi con grande classe con King Confidence, un brano sensuale e avvolgente che strizza l’occhio alle migliori produzioni di Lenny Kravitz.

Nonostante i numerosi riferimenti stilistici che potrebbero far pensare a una mancanza di identità, i Blended Brew dimostrano di avere un sound ben definito e una personalità artistica solida. Il loro approccio musicale risulta sempre autentico e convincente, e la qualità dei brani presentati è davvero notevole. Con questo album, la band conferma di avere tutte le carte in regola per conquistare un pubblico ampio e trasversale, rappresentando una proposta originale e credibile nel panorama rock contemporaneo.

Alliance – Before Our Eyes – Recensione

28 Marzo 2025 0 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Degli Alliance di Robert Berry si erano un po’ perse le tracce dall’uscita dell’album “Fire and grace” del 2019. Oggi, dopo essersi accasati alla Frontiers, i nostri tornano sulle scene con un platter nuovo di zecca ed una formazione base che è sempre la stessa e che, quindi, garantisce esperienza e qualità tecniche al di sopra di ogni sospetto. E pure la proposta odierna degli americani non è molto diversa da quanto già ascoltato sui lavori precedenti: hard rock classico, che affonda le radici nel fertile terreno degli anni 70 e 80, qua e là annaffiato da melodie più catchy.

“Tell somebody” mostra subito il volto più easy listening della band, con un quattro quarti canonico ma piacevole. Più pomposetta “Nothin will make you change”, merlettata dalla chitarra di Phil. Il profumo dell’oceano e di creme solari delle affollate spiagge californiane pervade i solchi di “Too many people”, per chi scrive il pezzo più bello del disco. Gli accenni western di “Face of justice” e la poco incisiva “Good life” traghettano l’ascoltatore senza scossoni alla semi ballad dall’ispirazione vagamente springsteeniana “Joan of Arc”, pezzo di pregio assoluto per ispirazione ed esecuzione. Il mid tempo granitico “Can’t stop messin’” non incontra il mio gusto personale. Ed in realtà neppure “Right”, sferzata dal bassone prepotente di Robert, fa gridare al miracolo. “100 sad goodbyes” è la colonna sonora ideale per attraversare l’infuocato deserto dell’arizona in sella ad un’Harley Davidson guidando verso il tramonto. “Tonight” parte soffusa ma cresce ad ogni giro in spessore e ritmo, per poi cedere il passo alla conclusiva “A bone to chew on”, hard americano fino all’ultima nota.

“Before our eyes” non è un disco di facile ed immediata interpretazione. A prescindere dalle doti tecniche di chi lo suona, si barcamena un po’ troppo fra alti e bassi. Fra pezzi ispirati ed altri meno riusciti. Se la band fosse agli esordi, si direbbe che non abbia ancora una direzione precisa da seguire. Ad ogni modo, globalmente, è un album che vale la pena di ascoltare e riascoltare, prestando attenzione ai particolari. Non è una esplosione di fuchi d’artificio visto dal lungomare, ma piuttosto un tramonto fra le vette che gioca con le luci e le ombre, da osservare seduti su uno sbalzo roccioso, sorseggiando genepy.

W.E.T. – Apex – Recensione

27 Marzo 2025 8 Commenti Giulio Burato

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

La linea sottile che distingue un progetto musicale con uno simile, a volte, resiste agli anni e alle uscite discografiche. Questa distinzione per i W.e.t. e gli Eclipse è sempre stata attiva, seppure Erik Mårtensson e Magnus Henriksson siano le fondamenta di entrambe le band, in cui la differenziazione maggiore è sempre stata la presenza di Jeff Scott Solo alla voce principale dei W.e.t. Con il presente “Apex” tale linea, a livello musicale, si è assottigliata.

Dopo l’ottimo “Retrasmission” uscito nel 2021, ecco il nuovo “Apex”, un album che contiene derivazioni inevitabilmente più marcate rispetto al passato, riferite agli Eclipse, sparse un po’ qua e un po là nella tracklist.

I primi due singoli lanciati, “Believer” e “Where Are The Heroes Now”, non sono paragonabili alla bellezza del singolo “Got To Be About Love” presente nel precedente album; tra i due preferisco il secondo grazie ad un ritornello che viaggia lineare e ad un buon lavoro a livello compositivo. Con l’uscita del terzo singolo siamo già ad un discorso diverso; la canzona piglia, e come se prende; ha sicuramente nel suo DNA tanto della band di Erik e Magnus ma il ritornello ti manda al tappeto come un pugno di Conor McGregor.
Le canzoni che poi mi hanno gratificato sono la catchy “Pleasure – Pain” con un ritornello arioso, il lento “Love conquers all” dove Jeff Scotto Soto sfoggia un’ottima interpretazione. Altre buone partiture sono presenti in “Pay dirt” che ha una struttura non canonica e in “What are we fighting for” che si novamente apprezzare per la combo vocale, una sorta di “Got to be about love” targata 2025.
“Stay alive” contiene invece una intro e un assolo di chitarra tipici degli Eclipse; alla fine sa molto di già sentito. Altri territori musicali già esplorati si sentono nella conclusiva “Day by day” che incide solo in parte e in “Nowhere to run” che sembra avere, a livello di soluzione chitarristica, una parentela con “Freedom finder” degli Ammunition (Erik Mårtensson).

Di “Apex” apprezzo l’art-work e alcuni episodi che ci ricordano come questi artisti sappiano fare musica; peccato per alcuni passaggi che mancano di originalità. Nel complesso non so dire quanto siamo vicini o distanti “all’Apice” musicale degli W.e.t.; ai fans lascio misurare la giusta distanza.

Ginevra – Beyond Tomorrow – Recensione

26 Marzo 2025 1 Commento Paolo Paganini

genere: Hard Rock/Melodic Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers

L’iperproduttiva scena hard rock scandinava ci propone questa volta il secondo capitolo dei Ginevra band nata dal cantante Kristian Fyhr (Seventh Crystal) il quale alcuni anni fa sottopose al presidente di Frontiers Stefano Perugino un pezzo intitolato My Rock N’ Roll per eventuali future produzioni. Da lì l’intuizione del Pres di costruire una vera e propria band che sviluppasse le sonorità contenute in quel singolo. Vennero quindi arruolati il chitarrista Magnus Karlsson (The Ferrymen, Primal Fear), il bassista Jimmy Jay (H.E.A.T.) e il batterista Magnus Ulfstedt (ex-Eclipse, Nordic Union). Il resto è storia recente; nel 2022 esce We Belong The Star accolto molto positivamente dalla critica e a distanza di tre anni ecco arrivare il seguito Beyond Tomorrow. Trattasi di un album molto compatto, costruito su una granitica base di chitarre quasi power metal ma infarcito di un’abbondante dose di tastiere e melodia. Un perfetto connubio tra l’attuale scena nordeuropea rappresentata da H.E.A.T, Crowne, Seventh Crystal e l’hard rock dei Pretty Maids del periodo Jump The Gun. La carica la suona fin da subito Moonlight col suo tiro micidiale che esplode in un ritornello di facile presa. Atmosfere epiche per Lighting Roses mentre la splendida True North introdotta da un suggestivo solo di pianoforte deflagra in uno stellare refrain tutto cori. Let Freedom Ring passa senza lasciare il segno mentre di tutt’altra pasta è fatta Echoes Of The Loney uno dei brani migliori dell’album. Beat The Devil e Samurai sono Melodic Metal allo stato puro mentre la successiva Arms Of Oblivion aperta da una chitarra alla Pull Me Under (Dream Theater) rappresenta il vero e proprio vertice del cd e incarna appieno l’anima, l’essenza e le intenzioni dei Ginevra. Wild Ones e Higher mi ricordano molto Attention dei summenzionati Pretty Maids mentre la conclusiva Enemy Of Your Destiny suggella nel migliore dei modi un album di ottima fattura destinato ad una platea veramente ampia di appassionati. Dice Fyhr a tal proposito: “L’intero album affronta una causa più alta senza essere biblico o politico. Siamo tutti destinati a portare il meglio di ciò che abbiamo nelle situazioni e nella vita quotidiana.

Abbiamo circa ottant’anni per lasciare il nostro segno su questa Terra, quindi è meglio fare in modo che abbia valore. Missione compiuta, ragazzi!

Heart Line – Falling Heaven – Recensione

25 Marzo 2025 0 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy

Con “Falling Heaven”, i francesi Heart Line giungono al loro terzo album, proponendo un mix sonoro che si colloca tra synth scandinavi e hard rock americano. Il disco riesce a catturare alcune delle migliori influenze del genere, pur mancando di spunti davvero memorabili.

Il richiamo alla scuola scandinava è evidente in brani come “Love Song” e “Liar,” che evocano il sound di band come Glory e Madison. Tuttavia, il lavoro non si ferma qui: tracce più decise come “Everytime You Smile” attingono dalla tradizione americana dei Danger Danger, mentre pezzi come “I Don’t Want To Live Without You” esplorano un lato più melodico, ricordando i Wild Rose. “Fire in the Sky” si distingue per un tocco aggressivo e influenze teutoniche in stile Shakra, mentre “Broken Heart” evoca gli White Lion.

Nonostante una produzione moderna e curata, a mio avviso il punto più debole del progetto rimane la voce, che non appare completamente amalgamata con le composizioni. Sebbene l’album presenti una varietà di idee interessanti, manca di quei momenti di brillantezza che avrebbero potuto elevare ulteriormente la proposta della band guidata dal chitarrista Yvan Guillevic.

Falling Heaven è un lavoro che potrebbe risultare intrigante per i totalitaristi del genere, grazie alla sua mescolanza di influenze e alla qualità complessiva della produzione anche se probabilmente non riuscirà a lasciare un segno duraturo.

Wheels of Fire – All In – recensione

20 Marzo 2025 4 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Art of Melody Music / Burning Minds

Tornano i Wheels of Fire, uno dei pilastri del melodic rock made in Italy e lo fanno con un album che è l’ennesimo passo in avanti nella loro carriera e che va a incastrarsi in una storia artistica che prende sempre più valore album dopo album.
I Wheels Of Fire sono una band italiana nata nel 2006 grazie al cantante Davide “Dave Rox” Barbieri a cui da subito si sono uniti il chitarrista Stefano Zeni ed il batterista Fabrizio Uccellini. Il loro sound degli esordi era un mix di hard rock melodico e AOR dal taglio classico, ispirato a band come Bon Jovi, Journey, Bad English, Hardline e che marcava “temporalmente” il loro stile tra il 1988 ed il 1990. Con il passare degli anni la band ha affinato il suo sound incorporando elementi più moderni, pubblicando album sempre più curati sotto tutti i punti di vista, songwriting, produzione ed esecuzione.
Dopo “Hollywood Rocks” (2010), “Up For Anything” (2012) e “Begin Again” (2019), il nuovo album “All In” (2025) li vede maturare ulteriormente e chiudere la formazione con Simon Dredo al basso.

Il disco si apre con “Fool’s Paradise”, una traccia potente che richiama grazie ai suoi riff precisi e ad un ritornello accattivante (trademark della band) ai Danger Danger anche se lo stile vocale rimanda nell’intro ai migliori Bon Jovi (e non a caso il buon Dave Barbieri milita anche in un tributo proprio alla famosa band del New Jersey). “Under Your Spell” ha l’eleganza dei Tyketto, con tastiere ariose e nuovamente un ritornello che va dritto a segno. “End Of Time” non è facile da inquadrare, ma potremmo dire che è un brano dal tratto moderno e che piazza un crescendo notevole che si conclude con il solito ottimo ritornello. Da notare il gioco di tastiere che introduce il solo di chitarra. “Resonate” si muove in territori power ballad che richiama alla mente certi passaggi in bilico tra Survivor e Bad English, mentre “99 Lies” è un pezzo diretto e “cattivo”, in pieno stile vocale dal sapore Hardline degli ultimi anni.
“Neverland” si fa sognante su un ritmo sostenuto e trascinante. “EmpTV” piazza un hard rock melodico dal sound moderno che sembra fare il verso ai Winger più attuali. “9.29” è un brano moderno che richiama l’alternative rock, qua e la sprazzi ’80s sound, vedi il ritornello… la cosa funziona! “Invisible” è raffinato e malinconico, ricorda i Work Of Art più intimisti per eleganza e impatto emotivo. “Walking On The Wire” è immediato, diretto e accattivante mentre “Heaven Is Sold Out” ha una carica hard rock che rimanda ad una sorta di Dokken con l’abito da festa (quindi più tranquilli ed edulcorati).
Si chiude con “Staring Out The Window” che piazza un altro momento emozionante e nettamente riflessivo.

Che dire quindi di questo ritorno dei Wheels Of Fire! Vario e ben bilanciato, con una produzione pulita che esalta ogni strumento e una scrittura che dimostra la maturità artistica della band, l’album semplicemente funziona alla grande! Le influenze sono chiare ma per fortuna mai eccessivamente ricalcate ed il tratto moderno che la band ha saputo cucire su una base nettamente ’80 lavora egregiamente e, sul proseguio di Begin Again, serve a dar forza ad uno stile chiaro e ben definito che veste la band in maniera sartoriale.
In definitiva i Wheels Of Fire riescono a far proprie le sonorità del passato e a renderle attuali senza mai cadere nello scontato. Bel colpo e ascolto sicuramente consigliato.

Marty And The Bad Punch – Marty And The Bad Punch – Recensione

14 Marzo 2025 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Enghardt Media / Bad Punch Records / Metalpolis

Il chitarrista tedesco Marty Punch, forte di una carriera decennale e noto per il suo hard rock autentico e appassionato, rilascia il suo terzo album. Guardando i musicisti che hanno collaborato al disco, come si potrebbe non essere quantomeno incuriositi?

Partiamo tosti con “The Time Is Now”, potente apertura, dalla ritmica martellante e dalle sfumature gradevolissime: ottimo biglietto da visita. Un elegante giro di basso ci apre le porte di “Keep Pushin´ On”, molto ben strutturata e dal groove trasportante. “Dream In The Dark” ci porta su atmosfere più oscure e misteriose, proponendo una dinamica varia e accattivante. Arriviamo al momento del lento suadente e contemplativo: “Have Faith” presenta tutte le caratteristiche consuete del genere, mettendo in luce un’altra faccia dello stile di Marty Punch. Arriviamo ad “Heart Attack”, dalla componente strumentale molto interessante ed articolata, dai fraseggi melodici e ben intarsiati tra di loro. Proseguiamo nel viaggio incontrando “Deadwood”, dall’inconfondibile intro di flauto di Pan, un brano molto intenso e dall’ascolto decisamente piacevole. “In Deep Water” è un pezzo strano, cadenzato, “chitarristico”, dal sapore nostalgico e americano, che presto si spegne e ci porta a “Don’t Bother Me”, ben più scatenato e puramente hard rock. Scendiamo coi battiti con “The Little Things”, intensa e calda, da godere lentamente in cuffia, una piccola gemma di gusto e tecnica. Iniziamo la carrellata delle bonus track (ben 2): “Streets Of Belfast” ha qualcosa di molto irish nella stesura strumentale e vocale, riportandoci alla memoria qualcosa di molto anni ‘80 (coi dovuti paragoni, “Over The Hills And Far Away” del buon Gary Moore”), mentre la successiva “Better Be Strong” non presenta grandi spunti di riflessione. Concludiamo così un buonissimo lavoro, ispirato e ben suonato, dai momenti intensi e passionali, un buonissimo ascolto per gli amanti dell’hard rock melodico.