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Kings Crown – Closer To The Truth – Recensione

17 Ottobre 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Grande uscita per i Kings Crown, super gruppo formato da artisti navigati e dal grandissimo talento, che propongono un hard rock melodico compatto e dal grande sapore nostalgico.

La voce di Lee Smalls riverbera sin dalla prima traccia: “It’s Too Late” convince, ricorda il meglio dell’hard rock britannico di marca Whitesnake e prepara in modo eccellente le orecchie dell’ascoltatore. “Servant” si sposta su orizzonti più oscuri, creando atmosfere struggenti e dalla grande intensità. Tagliente e decisa, “Still Alive” ci avvolge col suo riff martellante, ben cesellato e intarsiato con le parti di tastiera, sempre molto coinvolgente e cantabile. Arriviamo al lentone di rito: “Standing On My Own” ci rimanda inevitabilmente alla tradizione, al canone dell’hard rock, sia per stilemi che per intenzione complessiva. Torniamo a picchiare con “Stranger”, anch’essa attingente a piene mani dai classici del passato (forse troppo), che non sfigura assolutamente e diverte dal primo all’ultimo secondo, cosa che accade anche per la successiva “Down Below”, che poco si scosta dalla precedente e dalla storia dell’hard rock. “Stay The Night” emoziona e mette in risalto una ad una le capacità strumentali della band. Arriviamo alla title track: “Closer To The Truth” è una cavalcata imperterrita nei meandri del rock melodico, coi suoi crescendo e la sua dinamica sempre azzeccata, così come la scelta vocale coinvolgente e la perizia strumentale. “I Will Remember” non spicca né per originalità, né per intenzione, risultando complessivamente insipida ma gradevole. Tambureggia nei nostri cuori e nelle cuffie “Don’t Hide”, buonissimo brano dalla struttura e dai passaggi a tratti scontati. Chiudiamo l’ascolto con “Darkest Of Days”, pezzo che non fa altro che confermare l’idea generale su questo lavoro: esecuzione impeccabile, struttura delle tracce convenzionale e standard, suoni azzeccati, ma una complessiva aria di nostalgia.

Twisted Rose – Cherry Tales – Recensione

17 Ottobre 2023 3 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard/Glam
anno: 2023
etichetta: 7us/7 hard

Si sa ben poco di questi Twisted Rose, band tedesca nata nel 2018 e autrice, a quanto si capisce dai loro media, di due ep, una manciata di singoli e questo “Cherry tales”, uscito lo scorso Settembre, ma si sa a che cosa si va incontro una volta che ci si avvicina a quello che parrebbe (un po’ più di chiarezza non guasterebbe, manco fossero dei misantropi blacksters norvegesi!) l’esordio su lunga durata dei quattro teutonici, ossia quel glam-street che ha fatto la fortuna trenta e oltre anni fa di Faster Pussycat, L.A.Guns e Vain, ma con un tocco di tamarraggine crucca che non può mancare e che, in certi frangenti, fa sfiorare il metal tout court.

L’opener “Greed4speed” è quanto di più impattante, vigoroso e lascivo al tempo stesso, con un riff azzeccatissimo e la voce potente e svergognata di Caro, definita nella bio ‘The First Lady of Rock n’Roll’, ok, ma ragazzi torniamo un attimino sulla terra prima di svolazzare verso lidi dove ben altre donzelle hanno già detto molto; vero è che la ragazza ha grinta da vendere e, almeno qui lo dimostra, ma come vedremo, non sarà sempre così. Intanto punterei subito il dito su una produzione che vede una batteria ipertriggerata, che tende a coprire gli altri strumenti, cosa che per un disco del 2023 non è più accettabile, ma evidentemente lo spingere su un sound più martellante è qualcosa che va per la maggiore, però a mio parere va a svilire il marciume streeteggiante che questi gruppi dovrebbero porre in risalto. A farci capire che non siamo di fronte ad un’accozzaglia di depravati sputati fuori da chissà quale buco fumoso del Sunset Strip, ecco che arriva “Wanted”, dove echi di Scorpions e di tamarraggine metallica tipicamente tedesca di cui parlavo anche in apertura, tendono non solo a rendere meno deflagrante l’approccio dei Twisted Rose, ma addirittura fanno scappare anche più di un sorriso non proprio benevolo e se da una parte c’è ancora qualcuno che strippa per queste sonorità quantomeno ingenue, dall’altra ci sono io, e vi assicuro di non essere solo, che queste cose non riusciva ad ascoltarle nemmeno negli anni 80, figuriamoci adesso.

Il disco è un susseguirsi di alti, ad esempio il blues fumoso di “Bring back those days” o quello più sbragato di “Friday night blues”, la struggente ballad “Crossing the line”, l’urgenza punk-street di “Back to the old days” e il metal melodico di “We can’t get enough”, e di meno alti, se non bassi , come la già citata “Wanted” e tutti gli altri pezzi finora non citati, che non sfondano, non hanno tiro, scorrono via senza lasciare traccia e addirittura qua e là sono pure ‘farciti’ da coretti non tanto abilmente truccati in studio, beccatevi gli ‘oh oh oh’ di “Party time” e ditemi se non è così, sono sicuro che se non ci fossero stati quei ritocchi, avrei valutato diversamente il brano, che comunque rimane in un limbo a mo’ di ignavi e a poco serve il lodevole tentativo di passare il giusto messaggio di pace in “World is burning”, perché la canzone non decolla.

Anacronistici? Forse. Amanti delle vecchie sonorità? Sì. Con queste caratteristiche potrei bocciare “Cherry tales”, se non fosse per la volontà dei quattro rockers di tirarsi fuori dal fango della celebrazione pedissequa degli anni 80, con un songwriting perlomeno vario, ora, a mio parere, dovrebbero alzare l’asticella, concentrarsi di più sulle idee valide, che comunque ci sono e lavorarci sopra, sono fiducioso e li aspetto alla prossima puntata.

Ronnie Atkins – Trinity – recensione

13 Ottobre 2023 4 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers Music Srl

Non accenna a perdere colpi la vena prolifica di Ronnie Atkins, voce strorica dei Danesi Pretty Maids.
Da qualche anno alle prese con una personale battaglia con il cancro (Forza Ronnie! Siamo tutti con te!) il nostro si è infatti buttato in quella che si è rivelata una promettentissima carriera solista e così in due anni ha rilasciato due splendidi lavori (One Shot – 2021 e Make it Count – 2022) e idealmente chiude con queto 2023 una sua personale trilogia con questo Trinity!

Dalle liner notes sembra che questo sia il lavoro più duro e guitar oriented di questa triade ed effettivamente dando una prima ascoltata ai brani la chitarra è sempre ben presente e si sente che alcuni pezzi girano intorno a lei.
Questo probabilmente dovuto anche alla presenza nella band e in fase di songwriting di Chris Laney, attualmente chitarrista in forza ai Pretty Maids. Tra l’altro lo stesso Laney figura come produttore mentre l’album è stato mixato e masterizzato da Jacob Hansen.

Suono più duro quindi rispetto ai due suoi predecessori ma che comunque non dimentica la melodia vincente, e su questo Ronnie ci ha sempre ben viziati, infatti già l’introdutti Trinity altro non è che un brano antemico da cantare a squarciagola e su questo filone non possiamo non citare anche Sister Sinister e la bella The Unwanted.
Così, se il sound si indurisce ancora più con Ode to a Madman (figlio della vena metal degli ultimi Pretty Maids) si torna a urlare pugno al cielo sulla riuscitissima Paper Tiger. Non manca poi la faccia intimista dell’album che in realtà mostra due facce, una più dark e oscura in brani come Godless e Raining Fire bilanciate dall’intenso lento Soul Divine (pezzo bellissimo) e la conclusiva What If.
In ultimo da notare l’ “easy and happy” rock del brano più anomalo del lotto, If You Can Dream It, che pensando anche al travagliato percorso personale che sta attraversando il nostro Ronnie non può che farcelo amare ancora un po’ di più.

Terzo centro per l’ugola Danese che non molla il tiro. Questo forse l’album più “classificabile” essendo nel filone dell’hard rock melodico praticamente da inizio alle fine e per questo forse un po’ meno vario ma sicuramente ispirato come i suoi predecessori! Altro bel centro a firma Ronnie Atkins!

Nitrate – Feel The Heat – Recensione

12 Ottobre 2023 10 Commenti Francesco Donato

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Quarto lavoro in studio per la melodic rock band inglese Nitrate. Anticipato dall’accattivante singolo “Wild in the city” arriva l’album “Feel the heat”, e la prima grande novità della band capitanata da Nick Hogg è la riconferma alla voce di Alexander Strandell (già Art Nation). Niente di scontato considerato che i primi tre lavori della band di Sheffield sono stati caratterizzati da un susseguirsi di avvicendamenti alla voce partiti con l’esordio di Joss Mennen (su Real World, 2018) e proseguiti con Phil Lindstrand (su Open Wide, 2019) e appunto Alexander Strandell (su Renegade, 2021). La band si completa con le ulteriori riconferme di Tom e James Martin, rispettivamente alle chitarre e tastiere, Richard Jacques alle chitarre e Alex Cooper dietro i tamburi.

Questo senso di continuità con il precedente “Renegade” pervade l’intero sviluppo dell’album, soprattutto quando la voce di Strandell tende ad esaltare “alla sua maniera” le melodie messe in campo dal songwriting della band inglese, caratteristica che arricchisce di enfasi soprattutto le strofe, che in quasi tutti i brani si aprono ariose, armoniose e ben congegnate sulle tonalità tanto care al vocalist. Non si esce dai canoni dello stile, questo è vero, ma dopo un paio di ascolti sul piano strettamente tecnico possiamo notare un netto miglioramento in chiave arrangiamenti, con un ottimo lavoro di ricerca e cura dei suoni da parte del tastierista James Martin, ed una produzione più uniforme e sicuramente ben curata.
“Feel The Heat” è anche il primo lavoro dei Nitrate per Frontiers Records, scelta che ha messo al servizio della band la produzione della Martin Bros Production (Vega) e collaborazioni di rilievo con artisti che gravitano l’orbita dell’etichetta italiana come la cantante norvegese ISSA, il leggendario Paul Laine (Danger Danger, oggi The Defiants), Leon Robert Winteringham (LRW Project), Alan Clark (Change of Heart), e Rob Wylde (Midnite City e Tigertailz). Avvio lanciatissimo con la titletrack, uno dei migliori colpi in canna dell’intero album. Sostenuta da un incisivo intreccio di tastiere “Feel the Heat” già dal primo ascolto ci trasporta nel mood ottantiano del disco e nelle intenzioni della band inglese. La voce di Strandell si esprime limpida e coinvolta, sfociando in un ritornello di presa facile. Si prosegue con l’accoppiata dei singoli “All the Right Moves” e “Wild in the City”. Siamo nel cuore pulsante dell’album, pezzi dove le melodie alzano la gonna pronte a sedurre gli amanti del rock melodico. I toni si fanno più morbidi con le cremose “Needs a Little Love” e soprattutto con “One Kiss (To Save My Heart)”, ballatona in cui il caro Strandell duetta con ISSA. Si torna ruggenti con “Live Fast, Die Young” e con le chitarre in prima linea di “Haven’t Got Time For Heartache”. Se siete fans dei Danger Danger la successiva “Satellite” non vi lascerà di certo indifferenti, mentre “Strike Like a Hurricane” strizza l’occhio ai Bon Jovi con tanto di coretti “ohh ohh” e tipico giro di basso. Altro giretto intorno agli ’80 è “Big Time”, ulteriore pezzo ad alto tasso melodico con tanto di campanaccio sul piacevole ritornello. Abbassa la saracinesca la dolce ballad “Stay”.

Un album sicuramente derivativo che farà la gioia dei fans dei vari Danger Danger, Bon Jovi, Journey o dei più moderni H.E.A.T, ma ben fatto, ben prodotto e arrangiato e con quella giusta dose di maturità da poter emerge intorno a tante proposte omologate su cliché molto spesso abusati.

Edge of Forever – Ritual – Recensione

12 Ottobre 2023 3 Commenti Denis Abello

genere: Melodic Hard Rock / Melodic Metal
anno: 2023
etichetta: Frontiers Music Srl

Terzo album dalla “rifondazione” della band (2019 – Native Soul, 2022 – Seminole) e sesto in totale per il moniker Edge Of Forever. Alessandro del Vecchio riprende quindi in mano la “sua” creatura anche se ormai si può dire che è più una creatura della “Band” che dal 2019 vede in formazione, oltre che Del Vecchio alla voce e tastiere, Aldo Lonobile alla chitarra, Nik Mazzucconi al basso e Marco di Salvia alla batteria.
Da Ritual quindi ci aspettiamo come minimo lo stesso livello e la stessa qualità già percepiti nei precedenti lavori di questa attuale formazione degli Edge Of Forever… e così è anche se il livello si alza ancora e diciamo subito che questo nuovo lavoro chiude idealmente una trilogia.
Stessi temi legati a natura, vita e terra, già trattati nei precedenti due lavori ma con il livello dell’asticella che qui tende ad alzarsi rispetto ai già ottimi precedenti lavori!

Ambiziosa l’idea di dividere idealmente l’album in due parti con la prima a fare più da altare al classico sound della band mentre la seconda parte racchiude una suite di sette pezzi che insieme formano la storia di due gemelli (maschio e femmina) nativi americani separati alla nascita e costretti in scuole differenti. Già vedo gli amanti del prog leccarsi le dita, ma parleremo di questa suite più avanti.

Iniziamo infatti con la parte più “classica” in cui ci aspettano sei pezzi in puro stile Edge of Forever. Già con Where Are You infatti il DNA della band si mostra in tutta la sua bellezza. La melodia si fonde con i segni decisi lasciati da una sezione ritmica forte e d’impatto sorretta da un lavoro di chitarra di alto livello. Su tutto brilla il ritornello cantato in maniera magistrale da Del Vecchio. Si aggiunge ulteriore pathos (e un tocco lieve di blues) sulle note di Water Be My Path per poi farti tritare dalla batteria incalzante del quasi metal melodico di Freeing My Will.
The Last One è un incalzante e cromato hard rock. Classe!
Ancora una volta, come già successo per Native Soul e Seminole, uno dei pezzi più belli di questo Ritual è una ballata. Love is the only Answer è pura emozione in note. A fargli da contraltare arriva subito a seguire la rocciosa e potente Forever’s Unfolding!

Qui si chiude la prima parte dell’album e si alza il sipario sulla suite Ritual! Non vi sveliamo nulla della storia e del suo dipanarsi assicurandovi però che il livello generale del songwriting è quello che avete trovato finora in questo lavoro, quindi alto se non altissimo. Il tratto della suite è spesso giocato su un hard rock potente e roccioso ma che non scorda mai il suo lato più melodico come nelle introduttive Ritual Pt. I e Ritual Pt. II Revert Destiny. Da far notare durante lo scorrere dei brani il gioco di Voci sovrapposte e incrociate di Ritual Pt. III Taunting Souls. Splendida poi, e dal tratto prog e dall’intento onirico, segue Ritual Pt. Iv Baptized In Fire. Si torna su un hard rock più melodico e classico con Ritual Pt. V Ride The Wings Of Hope. Quasi in chiusura lasciatevi ammaliare dal gioco voce / piano di Ritual Pt. VI Cross My Eyes e idealmente Ritual Pt. VII Reconciliation è la giusta chiusura di suite e album.

Un grande album e un grande lavoro. Poco altro da dire. Unica cosa che potrebbe impedirvi di ascoltarlo è un ribrezzo totale verso il genere, ma allora non sareste probabilmente qui a leggere queste righe. Quindi, complimenti Edge of Forever e ancora tanti album di questo livello!

Masaki – Feed The Flame – Recensione

11 Ottobre 2023 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Lions Pride

In tempi di uscite serrate e di estate piena (il disco è uscito il 31/7), ci eravamo ‘persi’ questa uscita targata Masaki, chiediamo quindi venia e provvediamo immediatamente a parlarne. Il Cantante John Magnus Masaki Nielsen è accompagnato in questa avventura da tre vecchie volpi della scena rock norvegese Tom Sennerud (Stoneflower, Days Of Wine), Eirik-André Rydningen (Nik Kershaw, Joseph Williams, Bill Champlin) e Leif Johansen (Days Of Wine, 21 Guns) che è accreditato in 6 canzoni su 10.

Il disco si muove in territori rock/aor con sonorità care ai Toto, ma anche volendo ai Chicago, anche se l’ approccio è più moderno e disincantato, con arrangiamenti a volte più pop oriented, mentre in altre occasioni si arriva quasi a sfiorare il progressive. Questo rende il disco molto attuale senza però rinnegare le origini sonore e svecchiandole un po’.

Il lotto di canzoni si svolge piacevole ed intrigante e già dopo un paio di ascolti il disco si canticchia che è un piacere, le melodie sono molto accattivanti e delicate, staccandosi nettamente dai vari coretti anthemici di matrice svedese che oggettivamente stanno cominciando a saturarmi i padiglioni auricolari. Le canzoni più interessanti sono senza dubbio: la title track Feed The Flame, che azzarda appunto arrangiamenti progressivi e la serrata Stone Cold con i suoi inserti pianistici ed il ritornello killer, She’s Not You è invece un lento delicato e delizioso così come Missing Me che rivisita alla grande gli eighties, chiudo infine le citazioni con la conclusiva Feels Like Home, un rock pop che rimanda alle ultime sonorità di Mark Spiro.

Spero di avervi incuriosito perché sinceramente questo Feed The Flame merita ben più di un ascolto, rilasserá la vostra  mente e il vostro udito.

Jelusick – Follow The Blind Man – Recensione

06 Ottobre 2023 11 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Escape

Ambizioso e maturo, aggressivo e melodico, ma soprattutto studiato in ogni dettaglio. Un disco che si farà apprezzare l’esordio solista di Dino Jelusick, voce stimata nei lavori di Animal Drive e Dirty Shirley e talentuoso polistrumentista.

Heavy Metal Moderno nel suono e nelle strutture, mai banali o convenzionali dove le parti strumentali hanno la piena facoltà di rubare per battute lo scettro al cantante croato, classe 1992.
Tanto ispirato, quanto personale nei testi dove il nostro esporta all’ascoltatore tutte le gradazioni di sentimenti possibili. Giovane ma ben più di una semplice promessa, celebrato dalla chiamata da parte di Mr David Coverdale nella line-up del serpente bianco e ancora membro live della Trans Siberian Orchestra.

A Portare somiglianze stilistiche vicine a ‘Follow The Blind Man’ possiamo citare ‘Slave To The Grind’ degli Skid Row, i primi Alter Bridge, rimembranze sparse dei migliori Black Label Society (i ritmi serrati dell’opener “Reign Of Voltures”), Dio, Whitesnake. I Suoni e i toni delle chitarre sono a forza d’urto, l’impostazione del cantato sposa il talento di Dino che mostra la sua poliedricità nel rileggere sfumature alla Phil Anselmo (parti in growl nell’atomica “Acid Rain”), alla Sebastian Back (la terremotante “Died”), o ancora alla Ronnie James Dio (l’adrenalinica “Healer” e il gancio mancino sferrato da “What I Want”). Ascoltiamo “Animal Inside”, e rimaniamo ammaliati nella struttura e nei cambi di dinamica tramite intermezzi heavy/blues alla Whitesnake. Quando i lidi si fanno intricati ed intimisti l’ascoltatore risulterà ancora più attento e affascinato dal fiume di emozioni contrastanti emerse. Se eravamo rimasti estasiati dal primo singolo, l’ambiziosa “The Great Divide” per l’inusuale e pregiato sviluppo, “The Bitter End” è una ballad pianistica da pelle d’oca.

Gli intenti ibridi dovuti ad una natura artistica policromatica, consapevolmente diretti da uno Jelusick in stato di grazia rendono ‘Follow The Blind Man‘ un lavoro dallo spessore artistico notevole.

Supremacy – Influence – Recensione

03 Ottobre 2023 1 Commento Denis Abello

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Lions Pride Music

Secondo album ufficiale per i Colombiani Supremacy che dopo una lunga attesa di ben 8 anni danno un seguito al loro primo album Leaders (2015). Anni non passati con le mani in mano visto che la band, originaria di Bogotà, dopo la pubblicazione del primo album ha letteralmente girato in lungo e in largo l’America Latina supportando nomi importanti come Extreme, Sebastian Bach, Tim “Ripper” Owens e partecipando ad alcuni festival di livello come il Rock Al Parque ed il Corona Hell & Heaven Fest.
Tornati nel 2017 con un nuovo singolo, Sirius, che vede l’entrata in formazione del nuovo cantante Gus Monsanto la band era pronta per mettersi al lavoro sul nuovo album, ma, causa pandemia, i tempi si sono allungati fino ad oggi.

Influence, questo il nome del comeback, riporta in auge i Colombiani che con il primo album avevano mostrato buone qualità senza però andare, secondo il sottoscritto, completamente a centro. Due le cause dal mio punto di vista, una voce non perfetta per il genere e forse un po’ acerba ed una scelta stilistica dei brani non ancora completamente definita il che rendeva Leaders apprezzabile ma con ampi sali / scendi durante l’ascolto.

Ben venga quindi l’entrata nella band di Gus Monsanto che, non me ne voglia il precendete cantante, porta valore aggiunto alla proposta dei Supremacy. Così il primo punto che mi aveva fatto storcere il naso sull’album di debutto è smarcato. Passiamo ora al secondo, i pezzi!

Anche qui il buon Gus fa la differenza e la qualità dei brani è nettamente migliorata puntando ad un hard rock melodico di livello. L’introduttiva Passing Through è un brano bello roccioso che ben si adatta alla voce di Monsanto. Anche se l’asticella punta ad alzarsi dalla seconda Mr Big Shot con l’ospitata di Bruce Kulick alla chitarra. Belli gli inserti di tastiera che smorzano il tasto heavy del brano. Molto AOR oriented la successiva My Time con un ottimo lavoro delle chitarre.
Da segnalare ancora l’ottima Dancing with the Devil con l’azzeccatissimo inserimento del Sax, uno dei brani più interessanti del lotto proposto! Ancora una volta da segnalare l’ottimo lavoro alla chitarra per la successiva Sirius.
Classico ma ben confezionato il lento Dream of You dove ancora chitarra e voce, unite ad un’ottima sezione ritmica, riescono a dare quel leggero valore aggiunto che innalza il livello del brano. Si chiude senza il botto ma con du brani comunque coinvolgenti come Sin Paradise e Indigo Children.

Quinbi in chiusura possiamo dire che a questo giro i Supremacy fanno centro, grazie anche all’innesto di Gus Monsanto in formazione che chiude il cerchio di una band che ha i numeri per regalare delle belle soddisfazioni da qui a venire.
Influence è un netto passo in avanti rispetto al precedente lavoro, gli manca solo più quell’effeto “Wow” che potrebbe lanciare i Supremacy nell’Olimpo del genere, ma resta sicuramente un album da ascoltare in questa annata per chi è alla ricerca di un hard rock melodico dal tratto raffinato.

Black Stone Cherry – Screamin’ At The Sky – Recensione

29 Settembre 2023 4 Commenti Paolo Paganini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Mascot Label Group

Forti di 17 anni di carriera e di una reputazione e stima ormai consolidata in tutto il mondo tornano oggi i Black Stone Cherry fautori di un rock moderno influenzato da svariati gruppi del passato. Nel loro sound trovano infatti spazio sonorità riconducibili al southern rock (Lynyrd Skynyrd, Black Rose) passando per l’hard rock dei Metallica per arrivare al post grunge dei più recenti Soundgarden e Nickelback. Il risultato è un suono molto personale e riconoscibile che abbraccia una platea piuttosto ampia di estimatori.

Il nuovo lavoro anticipato dal singolo “Nervous” si presenta con un indurimento dei brani che suonano molto più compatti e granitici rispetto al recente passato senza però mai rinunciare a linee melodiche estremamente piacevoli. Il risultato si può apprezzare in songs quali “Smile, World” e “Screamin’ At The Sky” vicine agli Alter Bridge più recenti e nella commerciale “R.O.A.R.”. Per tutta la durata del cd il livello si mantiene molto alto e grazie ad una produzione brillante ed alle indiscutibili capacità tecniche dei musicisti coinvolti non si avvertono cali per tutte le 12 tracce permettendo al disco di essere ascoltato per intero senza mai aver voglia di skippare.

Un album che troverà terreno fertile sia tra chi apprezza il rock melodico che tra gli estimatori dell’hard rock contemporaneo. Restiamo in attesa di vederli dal vivo anche qui da noi dove sono già passati diverse volte nel corso della loro carriera magari questa volta da headliner.

Ronnie Romero – Too Many Lies, Too Many Masters – Recensione

19 Settembre 2023 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Uscita settembrina per il super gettonatissimo cantante Ronnie Romero, impegnato in molteplici progetti hard e heavy, che in questo caso ci propone il suo personale progetto solista.

Partiamo con “Castaway To The Moon”, molto tirata e godibile, musicalmente ben congegnata, classica nella struttura ma comunque molto piacevole. La grande competenza tecnica si vede e si sente: “Mountain Of Light” trascina e convince, strumentalmente oscura e tagliente, un tripudio di ‘metallosità’ gradevole e ben pensato. “I’ve Been Loosing You” è un’altra composizione canonica: introduzione di pianoforte, dinamica meno pesante, voce suadente, a costruire un ottimo brano intenso e sentito. Arriviamo alla title track “Too Many Lies, Too Many Masters”, dalle influenze inconfondibili, che si radicano nella storia dell’hard rock e nella tradizione vocale di Ronnie James Dio e ci consegnano un pezzo deciso e dal grande impatto complessivo, scelto giustamente come “simbolo” dell’album. Con “Girl, Don’t Listen To The Radio” rimaniamo sulle stesse lunghezze d’onda delle precedenti tracce: chitarre taglienti, voce calda e suadente, perfettamente amalgamate tra loro in un clima oscuro e misterioso. Leggermente più scanzonata, “Crossroad”, con la sua cadenza, sorprende per dinamica e interpretazione, come la potente e martellante traccia successiva, ovvero “Not Just A Nightmare”, travolgente dal primo all’ultimo secondo. Arriviamo al lentone di turno con “A Distant Shore”, dagli effetti interessanti e dalla trama penetrante, un giusto momento di riflessione in mezzo a tutto questo metal. “Chased By Shadows” si mantiene perfettamente in linea, sia per modalità strutturale che per compattezza musicale, non spostando eccessivamente gli equilibri all’interno dell’opera. Arriviamo alla conclusiva “Vengeance”, molto veloce e spietata, perfetta per chiudere un album equilibrato, standard, inscrivibile alla cerchia dei buonissimi lavori hard/heavy, che percorre il solco dei grandi del genere e che può risultare piacevole ad un’ampia platea di pubblico.