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19 Gennaio 2025 5 Commenti Paolo Paganini
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Il power rock dei The Big Deal nasce e si sviluppa in Serbia a partire dal 2020 in un paese non certo tradizionalmente avvezzo a questo genere musicale. Al nucleo iniziale della band composto da Srdjan Brankovic alle chitarre, la compagna Nevena Brankovic alle tastiere/voce e Marko Milojevic alla batteria si uniscono nel 2021 la vocalist Ana Nikolic e quel vecchio volpone di Alessandro Del Vecchio che vide in loro un grande potenziale. I ragazzi in effetti sono degli ottimi musicisti ed interpreti convincenti; basti guardare le loro performance su YouTube dove reinterpretano cover di classici dell’hard rock rivisitati in chiave moderna.
Dopo il debutto del 2022 con l’album First Bite giunge ora il momento della prova del nove con il secondo capitolo uscito sempre per Frontiers in questi giorni. Come già detto in precedenza le capacità tecniche non mancano; Srdjan è un ottimo chitarrista con alle spalle diverse collaborazioni (Alogia, Steelheart), Nevena è una talentuosa pianista accademica. Se a questo aggiungete un’immagine preconfezionata estremamente accattivante potrete facilmente capire come mai i loro video siano stati i più visti nella quasi trentennale storia della label partenopea. Electrified si compone di dodici tracce ispirate al female power rock di origine nordeuropea sapientemente mixato alle atmosfere tipiche degli anni ottanta. L’introduzione affidata a Survivor ci proietta indietro nel tempo grazie all’abbondante presenza di tastiere e ad una melodia piuttosto semplice ma efficace. Sulla stessa falsa riga si pongono Like A Fire e la successiva Fairy Of White che sa tanto di Scorpions. A questo punto sarebbe lecito aspettarsi una variazione sul tema ma purtroppo ciò non avviene; Better Than Hell continua imperterrita a pestare sull’acceleratore di quel potente ma ormai ripetitivo speed rock che sembra diventato l’unico chiodo fisso del combo sloveno. Le nostre speranze di ascoltare qualcosa di diverso vengono definitivamente accantonate dall’incalzante Broken Wings. Piccolo break (ma non aspettatevi chissà che) grazie al power AOR di Don’t Talk About Love probabilmente il pezzo migliore del lotto. Bypassiamo direttamente Burning Up e Coming Alone dove la presenza massiccia di assoli di tastiere e chitarre unite a melodie abbastanza deludenti e scontate inizia a diventare irritante. They Defied prova ad inserire atmosfere orientaleggianti nel finale con un risultato alquanto discutibile. Da qui alla fine nulla da segnalare se non la conclusiva iper-power-ballad Dare To The Dream vicina alle Vixen più commerciali.
La mancanza di pezzi lenti o comunque di un diversivo che si discosti dalla loro confort zone unita ad un sognwriting troppo ripetitivo fa sorgere qualche dubbio sul futuro del gruppo; quanti altri album “copia e incolla” potranno sfornare senza correre mai il rischio di mettersi in discussione? Ai posteri l’ardua sentenza.
17 Gennaio 2025 0 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic Metal
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Ronnie Romero, Mike Terrana, Magnus Karlsson.
3 talenti uniti dal 2017 sotto il moniker The Ferrymen, e con il qui presente ‘Iron Will’ al quarto capitolo discografico; come da tradizione (Allan/Lande – Primal Fear Docet), sappiamo cosa l’arte del polistrumentista svedese può partorire; un metal melodico dai tratti epici con sporadiche incursioni (almeno in questo turno) in territori strettamente rock.
Le qualità tecniche del combo sono fuori discussione, musicalmente 3 laureati con lode (Personalmente ho un vero debole per il drumming di Mike). E come suona il disco? Come i precedenti, con occasionali picchi, trascurabili cadute e quasi assoluta mancanza di sorprese (nel bene e nel male). In un genere saturo e ben delineato da perimetri sonori invalicabili o quasi, rimanere a bocca aperta per lo stupore appare pure utopia. Rimanendo concreti le undici tracce qui presenti risultano (in buona parte) essere un abile e sommo esercizio di ripetizione stilistica. Ronnie canta alla grande, Mike spacca a suon di ritmiche e fills, Magnus è abile nell’intrecciare riffs, Soli e ricami (anche tastieristici), ma gli episodi sentimentalmente coinvolgenti da tasto repeat latitano.
Si parte bene con il singolo “Choke Hold”, introdotta da una sezione orchestrale gotica che da campo al classico heavy epico, trademark della band. Non molto diversa per impostazione e feeling la seguente “Mother Unholy”, maggiormente versatile per mano del drumming imprevedibile di Terrana.
La title track aperta da un pianoforte oscuro gioca maggiormente su trame hard rock. “Adrenaline” è aggressiva e teutonica, e trascurabile per quanto il bridge migliori una strofa anonima.
“Dreams and Destiny” spezza l’eccesso di uniformità ascoltato fino ad ora portando all’ascoltatore una ballad teatrale, a tratti piacevolmente celtica, ben scritta e magistralmente interpretata.
Per quanto alcuni fraseggi suonino elaborati e ricercati, la formula canzone non lascia cicatrici in pezzi quali “Darkest Storm”, roboante in riffs corposi ma inefficace, tanto quanto l’heavy corposo e conclusivo di “You’re The Joker”.
Troppo omogeneo e poco distintivo per parlare in termini entusiastici di ‘Iron Will’; il sapore è tendente a quello di progetto e poco a quello di band in grado di distinguersi, nonostante l’elevata caratura degli elementi coinvolti sia nuovamente confermata.
17 Gennaio 2025 0 Commenti Giulio Burato
genere: Melodic Rock/Prog rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
La mia prima recensione del 2025 arriva dal continente sud-americano. La band brasiliana dei Landfall, rimasta invariata nei componenti, è alla terza uscita discografica.
“Wide open sky”, dalla copertina eterea, è in uscita il 17 gennaio con Frontiers records; ai primi ascolti noto subito la predisposizione più marcata al filone “prog” con canzoni dalle durate non tipicamente affini al melodic-rock. Tale virata di genere si era già intravista nel precedente album (link recensione) e che qui diventa un dogma evidente. L’apripista “Tree of life” dimostra subito il dinamismo sonoro della band capitanata dal frontman Gui Oliver. Altre canzoni che si fanno notare sono “No tomorrow”, la più vicina, assieme alla title-track, ai richiami AOR del precedente album “Elevate”; da segnalare anche la più moderata, quasi ballad, “A letter to you” e i virtuosismi chitarristici presenti in “Coming home” e in “Intoxicated”.
Note che ricordano i lavori dei Queensryche in “Hourglass” e la successiva “Higher Than The Moon”, canzoni che superano i cinque minuti abbondanti di durata, con una stesura prog metal molto articolata.
Non degne delle stesse note “Sos” e “When the curtains falls” che appaiono sofisticate, prolisse e che non si elevano sul resto della tracklist.
“Wide open sky” è un album da ascoltare a lungo, di difficile assimilazione, vuoi per la lunghezza dei brani, che presi tutti di un fiato fanno appesantire l’ascolto, vuoi perché manca quel tocco di melodia, presente in passato, che avrebbe giovato e dato delle sfumature diverse al lotto delle undici canzoni. I Landfall dimostrano sicuramente perizia strumentale e con questo album danno un segnale chiaro sulla strada che stanno percorrendo. Buon anno, progressivo a tutti.
31 Dicembre 2024 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Rock
anno: 2024
etichetta: Self Released
Ce la concedete una piccola marchetta per uno dei nostri scribacchini? Sì? Grazie mille, perché vorremo presentarvi una band di Reggio Calabria che, dopo aver suonato per anni nei locali della regione, si è finalmente decisa a compiere un piccolo passo discografico per dare un senso a tutta la passione infusa negli anni. Come tante band del nostro paese, che con dedizione e tenacia non si sono mai arrese di fronte alle sfide del mondo musicale.
L’EP si compone di tre tracce che, pur composte nel corso degli anni, appaiono fresche e profonde. I testi sono evocativi e si intrecciano sapientemente con un sound che, pur non dando precisi riferimenti, ricorda a volte un mix tra i Litfiba più melodici e certe arie degli Heroes del Silencio d’annata. Ogni canzone racconta una storia, trasportando l’ascoltatore in un viaggio sonoro ricco di emozioni e riflessioni.
Ecco, non siamo qui per offrirvi una recensione completa, dopotutto sono solo tre pezzi, ma per invitarvi ad ascoltare cinque ragazzi che con passione, dedizione e un amore sconfinato per la musica, da anni si muovono nel sottobosco musicale italiano. Non arrendendosi mai di fronte alle difficoltà, hanno perseverato nell’idea di proporre buona e onesta musica che viene dal cuore. La loro determinazione è un esempio di come la passione possa alimentare i sogni e trasformarli in realtà.
In allegato troverete le canzoni su YouTube che vi invito caldamente ad ascoltare. Questi brani sono un’anticipazione di quello che potrebbe essere un disco intero, che viste le premesse, ha tutti i presupposti per risultare estremamente interessante.
Speriamo che la loro musica possa ispirarvi, come ha fatto con noi. Buon ascolto!
31 Dicembre 2024 1 Commento Vittorio Mortara
genere: Modern AOR
anno: 2024
etichetta: Self Released
Cominciamo chiedendo scusa: questo disco è uscito ormai da qualche mese ma, non essendoci mai pervenuto un promo, questa recensione giunge postuma. Il figlio d’arte Trev Lukather ci riprova, a qualche anno dal progetto Levara, con una band nuova di zecca. Dietro le pelli un altro rampollo di nobili origini: Nic Collins, figlio del grande Phil. Al microfono l’attore e cantante Emmet Stang. Ai tasti d’avorio l’oriundo Steve Maggiora, con il quale il sottoscritto condivide le origini monferrine, che ha già avuto il privilegio di suonare con la band madre Toto. Possiamo, quindi, parlare di supergruppo? Beh, a mio avviso qualcosa di buono dai genitori è stato tramandato.
E lo si evince già dalla prima traccia: “Toxic Envy” fa rimbalzare la chitarra di Trev su un tempo zoppo fortemente sostenuto da uno spesso tappeto di keys. La voce di Emmet è sorprendentemente moderna e versatile: ruvida e tagliente, dalla strofa ci conduce a un chorus pomposo ma melodicissimo. Assoli dissonanti di chitarra e tastiere completano il quadretto di un pezzo fuori dai soliti schemi ma potenzialmente esplosivo. Tempo non banale e chitarrone in evidenza aprono “Unwanted”, singolo dal ritornello fortemente adesivo. Più semplice della precedente, ma emozionalmente dirompente. Straordinarie vibrazioni pop emanano da “TIND”, la cosa più vicina ai Levara che potrete ascoltare sul disco. Anche qui Lukater & C dimostrano la loro naturale tendenza a comporre chorus in grado di fare breccia nelle sistema limbico dell’ascoltatore onde lasciarvi indelebili segni. A quanto pare al giovane Collins i tempi dispari piacciono: “World between us” parte zoppa per poi trasformarsi in un pezzo hard rock più canonico. La meno esaltante del lotto. Un velo di dark wave ammanta “Sadistic love”, apprezzabile tributo ai seminali Depeche Mode. Il rock un po’ sguaiato degli INXS fa capolino fra le note della diretta “High life” portando a galla piacevoli ricordi di un’epoca passata. E che dire della coverizzazione di “Could have been you”? Persino Steve Perry (ospite di lusso) l’ha definita come una geniale reinterpretazione attualizzata di un classico degli anni ’80, reso meno carezzevole e decisamente più pungente. Lukhater jr. ha sicuramente studiato il rifferama del dirigibile per filo e per segno, come dimostra aprendo la diretta “Sight unseen” pilotata in un bel crescendo di intensità dall’insospettabile Stang, forse non così scultoreo nel timbro, ma interprete di gran livello. L’ennesimo tempo ballerino accompagna l’anthemica e catchy “Head on collision”, figlia dei Genesis più commerciali. “Somethin wrong”, clamorosamente easy, ci prepara al congedo col botto: nel lento “Still in it” tutto, dall’arpeggio in apertura alle linee vocali, ai cori, all’assolo, è proteso a liberare nel sistema circolatorio dell’ascoltatore copiose dosi di adrenalina.
Insomma, se non si fosse capito, il sottoscritto ha apprezzato assai questi The Effect. Prendete il progetto Levara e liberatelo dalla pesante coltre di mielosità coldplayana, buttateci sopra un leggero drappo progressivo e quello che otterrete è il disco in questione. Mi sono riservato per la fine un pizzico di campanilismo: Steve Maggiora è un tastierista della Madonna! La sua impronta si sente pesantemente lungo tutto il disco ed i suoi suoni, insieme ai guitar synt applicati alla chitarra di Lukather, danno al lavoro quell’impronta moderna, quasi spaziale, che contribuisce ad un risultato così originale. Questo per ribadire che noi monferrini non esportiamo soltanto ottimi vini ed agnolotti! Ma anche ottima musica (vero Paolo conte?). Bravi The Effect! Speriamo non facciate la fine dei Levara… And Steve: see you in Refrancore!!!!
31 Dicembre 2024 9 Commenti Stefano Gottardi
genere: Hard 'n' Heavy
anno: 2024
etichetta: MNRK Heavy
Dopo un po’ di mesi mi trovo a scrivere un altro capitolo della saga de l’umile “scribacchino”, che, così come ai tempi di Sanguivore dei Creeper (leggi qui la recensione), mi vede impegnato a parlarvi di un nuovo infatuamento musicale.
L’esordio delle Dogma, un lavoro forse non recentissimo ma che, complici una promozione ed una distribuzione non proprio capillari (quantomeno in territorio europeo), qualcuno di voi affezionati lettori potrebbe essersi perso. Di questo gruppo si è cominciato ad avere notizia nella tarda primavera del 2021, quando la prima immagine ufficiale è circolata sui loro profili social mostrando quattro avvenenti suore con tanto di face painting ed un look non propriamente convenzionale, che rispondevano ai nomi di Lilith (voce), Lamia (chitarra), Nixe (basso) e Abrahel (batteria). Nel marzo dell’anno successivo è invece giunta notizia della firma per la casa discografica americana MNRK Heavy, una grossa indie distribuita da Universal, che annovera fra le proprie fila artisti del calibro di Ace Frehley, Black Label Society, Crowbar, Judas Priest, Pop Evil e Zakk Wylde.
A distanza di pochi giorni il primo singolo “Father I Have Sinned”, accompagnato da un video, è apparso sul World Wide Web. La clip, aperta dal rintocco delle campane, ci porta all’interno di un monastero dove le nostre sexy sorelle se la cantano e se la suonano appassionatamente. Nel mentre, Lilith confessa i propri peccati ad un ignaro sacerdote, che ben presto diventa suo malgrado diretto protagonista degli stessi. Musicalmente si tratta di un robusto hard rock dalle atmosfere cupe ma addolcito da un ritornello irresistibile, che forse potrebbe portare alla mente i Ghost di “Square Hammer”. Il growl conclusivo è una sorpresa, la firma posta in calce ad un biglietto da visita decisamente accattivante.
Bisognerà aspettare la metà del 2023 per ascoltare nuova musica: l’opportunità la fornisce il video di “My First Peak”, in cui le suore sataniche interagiscono direttamente con il loro datore di lavoro, ottenendo il lasciapassare per proseguire la propria opera di blasfemia. A livello sonoro il pezzo riprende le coordinate del singolo d’esordio, aggiungendo persino una vena pop nel finale.
Stavolta bastano due mesi per sentire qualcos’altro. In “Forbidden Zone”, un brano strutturalmente un po’ più heavy, la melodia la fa ancora da padrone, anche grazie all’ennesimo refrain azzeccato. Dopo tre singoli di qualità, ed un altro videoclip sulla falsariga dei precedenti, il messaggio delle Dogma – seppur criptico – mette perfettamente a fuoco le intenzioni del quartetto, che cita un’altra volta i Ghost riuscendo però a mostrare sprazzi di spiccata personalità.
Ad Ottobre esce poi “Carnal Liberation”, sempre accompagnato da un video, senza dubbio quello dove la nostra Lilith osa di più, portando sulla cattiva strada un gruppo di devoti. Il pezzo, un heavy rock caratterizzato dal solito ritornello martellante, è il quinto centro consecutivo.
Il 17 Novembre vede finalmente la luce il debut album, nella sola versione digitale, abbinato al videoclip di “Made Her Mine”. Inutile dire che canzone (una cavalcata heavy e melodica) e video colpiscono ancora una volta nel segno. Il resto del materiale si conferma in linea e all’altezza di quanto ascoltato fino a quel momento, mostrando come punti di forza il songwriting e la concretezza dei brani stessi, eseguiti con padronanza dei propri mezzi e forte determinazione. Difficile individuare i picchi, perché oltre ai singoli già noti anche quasi tutte le altre canzoni del disco riescono a spiccare, ma forse si potrebbero citare in particolar modo le più catchy “Feel The Zeal” e “Bare To The Bones”.
Sul finale emerge l’oscura figura di The Dark Messiah: accreditato come uno dei songwtiter assieme agli altrettanto misteriosi The Light Messiah e The Dusk Messiah, la sua voce appare sul tempo medio “Make Us Proud”, mentre il brano posto in chiusura porta addirittura il suo nome.
Nell’estate del 2024 l’album è uscito anche in versione fisica, vinile e CD. Quest’ultimo vanta l’aggiunta esclusiva di due tracce extra: la lenta “Be Free” e il quasi tango “Banned”, probabilmente due b-sides che nulla tolgono ad un debutto strepitoso. La release, presumibilmente preparata ad hoc, è stata supportata dal primo tour della band che lo scorso Luglio ha toccato il Sudamerica e a Novembre gli Stati Uniti. Per queste date il gruppo ha aggiunto una seconda chitarrista: l’enigmatica Rusalka, successivamente confermata nella formazione “titolare” che ha da poco rilasciato la cover di “Like A Prayer” di Madonna, accompagnata dal solito esplicito video che in questo caso cita in maniera diretta quello originale.
IN CONCLUSIONE
Un disco da ascoltare a più riprese ed una band che, dopo la sopraccitata cover, sarà chiamata alla prova del fuoco: per bissare un esordio memorabile come questo dovrà essere capace di raggiungere quantomeno lo stesso livello di qualità. Fra un peccato e l’altro, Lilith e la sua congrega di suore discinte e disinibite riusciranno nell’impresa? Chi vivrà vedrà.
20 Dicembre 2024 0 Commenti Francesco Donato
genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Burning Mind
Esce per l’italiana Art of Melody Music, una divisione di Burning Minds Music Group, il terzo album in studio dei canadesi Fatal Vision.
La band proveniente da Ottawa dopo il debutto con “Once” (2022) che rompeva un silenzio di ben 30 anni, sforna lo scorso anno il secondo album “Twice” e sulla spinta di una fervida vena compositiva torna già sulle scene con questo “Three Times Lucky”.
Che non sia un disco prodotto di fretta giusto per cavalcare il ritrovato entusiasmo lo confermano le blasonate presenze in supporto alle fasi di registrazione.
Presenze collaborative del calibro di Jeff Scott Soto (Talisman, W.E.T. e tanti altri), Paul Laine (Danger Danger e The Defiants), Joel Hoekstra (Night Ranger e Whitesnake) Harry Hesse (Harem Scarem) e tantissimi altri aggiungono esperienza e lustro ad un album che si distende per quasi un’ora e venti minuti.
Si parte spediti con l’energica e melodica “Time Of Lives”, uno dei primi singoli dell’album, un pezzo che stabilisce immediatamente le coordinate dell’album: arrangiamenti ben curati e buone linee melodiche messe a terra per lasciare il segno, tant’è che il pezzo viene anche riproposto in chiusura del disco in duetto con Christine Corless. Si prosegue sulla stessa linea con “Dangerous”, con arrangiamenti curati e un ritornello molto accattivante. “Once in A Life Time” è una delle canzoni più riuscite di questo lavoro e, non a caso, è uno dei brani scelti come singoli promozionali, mostrandoci buone melodie che affondano le radici tra Styx e la scuola di casa, ovvero quella canadese. Arriva poi il momento della dolce e delicata “Another Life”, una canzone toccante scelta come ulteriore pezzo trainante dell’album. Tra i pezzi più riusciti troviamo “Goodbye”, un brano che soddisferà pienamente gli amanti dell’AOR più sincero. Il resto del disco si sviluppa mantenendo uniformi le coordinate artistiche senza particolari slanci o cali d’intensità, ma regalando sempre un gradevole sottofondo melodico.
Per concludere, se da un lato è da premiare la cura posta nell’assemblaggio generale di questo lavoro; dall’altro, non mi convincono appieno l’eccessiva durata e la carenza di veri e propri pezzi di spicco. Inoltre, per quanto mi riguarda, la voce di Marwood non sempre riesce a infondere la giusta energia a molti dei brani presenti, ma questi sono gusti personali.
14 Dicembre 2024 1 Commento Denis Abello
genere: Hard rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers Music Srl
TMG II segna il ritorno dei Tak Matsumoto Group dopo una pausa di 20 anni. Il trio, formato dal chitarrista giapponese Tak Matsumoto , Eric Martin (Mr. Big) e Jack Blades (Night Ranger, Damn Yankees, ex Revolution Saints), è affiancato da Matt Sorum (Guns N’ Roses, Velvet Revolver) alla batteria e Yukihide Takiyama negli arrangiamenti e supporto alla chitarra. L’album rappresenta un’evoluzione nel sound della band, mantenendo comunque il mix unico di rock orientale e occidentale, e includendo ospiti speciali come BABYMETAL e LiSA.
Apertura piena di energia sulle note di Crash Down Love, caratterizzata da riff carichi. Eternal Flames vede la partecipazione delle BABYMETAL creando un connubio unico tra il rock melodico di Eric Martin e la carica dance-metal delle BABYMETAL. La combinazione di elementi diversi rende la traccia tanto originale quanto probabilmente “strana” ai fan più talebani del genere.
The Story of Love (feat. LiSA) è una ballata intensa a cui viene aggiunto un tocco orchestrale che si intreccia bene con il sound rock della band.
Color in the World è un brano ottimista, mentre Jupiter and Mars aggiunge qualche tocco prog che a onor del vero qua e la in tutto l’album si possono riscontrare a mio parere proprio nell’uso della chitarra.
My Life è un pezzo più introspettivo che con il successivo Endless Sky con le sue liriche evocative crea un bel connubio durante l’ascolto.
Si passa al blues con Dark Island Woman con un tratto che ricorda il rock anni ’70.
Si volge alla chiusura del disco e passando per Faithfull Now e The Great Divide si chiusde sulle note strumentali di un brano autocelebrativo come Guitar Hero.
“TMG II” è un album valido, che scorre bene e che può piacere sia a chi cerca un ascolto veloce e diretto che a chi vuole optare per un rock più ricercato. Manca però forse di un paio di pezzi che portino a segno colpi decisivi e, ma questo può essere anche solo un appunto personale, trovo la voce spesso messa troppo in secondo piano e ovattata rispetto alla parte strumentale.
Un buon ritorno per un album da cui forse però mi sarei aspettato una marcia in più!
12 Dicembre 2024 2 Commenti Vittorio Mortara
genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Metalopolis Records
A due anni dal clamoroso debutto, tornano i giovanissimi teutonici Violet. Forti dell’esperienza fatta dal vivo sui palchi di mezza Europa che ha portato un maggiore affiatamento ed alla consapevolezza dei propri mezzi, Jamie, Manuel & company ci propongono un album che muove i passi dal suo predecessore, ma aggiusta decisamente il tiro verso canzoni più lunghe ed ambiziose. Così facendo, tuttavia, il loro sound perde parte di quella freschezza ed immediatezza che straripava dai solchi del debutto, scivolando talvolta nello stucchevole.
A partire dall’opener “Sex and harmony”, rigonfia di tastiere e dal refrain pomposissimo. “Angelina (talk to me)” è invece un singolo abbastanza piacione e sfodera persino un azzeccato solo di sax. Bellissima “Bad dream”, così clamorosamente anni ’80 che non avrebbe sfigurato neppure in un album di Samantha Fox! Unica pecca: il lungo intermezzo di tastiere appesantisce inutilmente il tutto. “That night” rimane un po’ troppo sepolta sotto una coltre di tastiere. Tastiere presentissime anche in “Only you”, ma qui la bella vocina di Jamie riesce a prenderci per mano e condurci piacevolmente lungo tutto il pezzo dai forti colori pop. “Arms around you” paga un pesante tributo ai seminali Roxette, a partire dalla linea vocale assolutamente degna della compianta Marie Fredriksson. Tastiere e cori fanno da padroni su “I don’t want to fall in love”, carina ed immediata. La title track a chi vi scrive non dice un granché… al contrario di “Eighteen in love” che pare aver assimilato perfettamente i duetti Meat Loaf/Cher, ma pure Olivia Newton John/John Travolta. L’atto di chiusura del lavoro è affidato alla ballata pomp “If I had you”, troppo poco romantica per i gusti del vostro recensore.
Com’è questo disco? Beh, preso di per sé è un bel lavoro. Ma se avete ascoltato il suo predecessore, probabilmente sarete d’accordo con me sul fatto che fosse di una spanna superiore. Comunque, i ragazzi sono giovanissimi ed hanno davanti a loro giganteschi margini di miglioramento e sicuramente la possibilità di far maturare il loro sound fino ad assumere una personalità meglio definita.
10 Dicembre 2024 1 Commento Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Andromeda Relix
Per parlare del secondo album dei veronesi Blind Golem, dovrei riuscire a quantificare visivamente quanto sia il mio amore per le sonorità in questione, quell’hard rock settantiano di matrice chiaramente inglese e che vede Uriah Heep e Deep Purple come principali esponenti, ma è impossibile misurare una cosa talmente smisurata e scusate la ripetizione, ma non trovo altre parole adatte a farvene rendere conto. Disco che, come vedremo è molto variegato come composizioni, pur mantenendo una matrice hard/prog chiara e netta, qua e là, fanno capolino anche realtà più oscure come i Black Widow o gli High Tide, è certo che con queste premesse non si può ricercare qualsivoglia forma di originalità, ma la freschezza delle undici canzoni che compongono l’album è lì da vedere, ma soprattutto da sentire e questo perché i musicisti coinvolti nei Blind Golem non sono dei ragazzini alle prime armi, dato che Silvano Zago e Francesco Dalla Riva militano anche nei Bullfrog, band di hard blues attiva fin dal 1993 e con ben cinque album alle spalle, Simone Bistaffa ha suonato con Tolo Marton e con la tribute band Forever Deep, Andrea Vilardo canta con i progsters Moto Armonico e con la rock band Trifase, mentre Walter Mantovanelli è stato il batterista dei doomsters All Soul’s Day, di Paul Chain e tuttora suona con gli hard rockers Rocken Factory. Con questo bagaglio di esperienza, non poteva che venir fuori un’opera curata in tutti i sensi, sia come songwriting che come esecuzione, sia come artwork, che come produzione, basti pensare che i Blind Golem hanno “scomodato” Rodney Matthews, per copertina e retro, uno che, come saprete, ha curato gli artwork per Tygers of Pan Tang, Magnum, Asia, Diamond Head, cosa peraltro già successa con il precedente e altrettanto bello “A dream of fantasy” del 2021.
Rispetto all’esordio, in questo “Wunderkammer” (che significa stanza delle meraviglie, ossia una stanza che aveva di solito un’importanza per chi l’aveva fatta costruire o l’aveva decorata, come quella scoperta circa vent’anni fa a Palermo), c’è un certo spostamento verso l’Heep sound, quello che aveva caratterizzato la band di Ken Hensley (che è stato ospite in un brano del disco precedente) almeno fino a “Return to fantasy”, quindi quell’hard rock con tanti riferimenti al prog e tanti inserti melodici, sia vocali che. soprattutto, tastieristici e anche se l’opener “Gorgon” è più orientata verso i Deep Purple, con il suo assalto frontale di riff chitarristico e l’Hammond in stile John Lord, già dalla successiva “Some kind of poet” si ritorna verso gli Heep, con i cori polifonici e l’alternanza dei solos di chitarra e di tastiera, con “Endless run” ci si sposta verso lidi prog e si respira un’atmosfera quasi incantata, tipica di certe scelte attuate da alcuni gruppi nostrani quali la P.F.M. e Le Orme. Il Moog diventa protagonista con “Man of many tricks” a sostenere un brano dove la voce e la chitarra vanno a braccetto, in “How tomorrow feels” prende il microfono il bassista Francesco Dalla Riva e si sente la differenza con l’ottimo Andrea Vilardo, ma penso che la cosa sia voluta, quasi a ricalcare una similitudine con il timbro attuale di Bernie Shaw e quindi un aversione più aggiornata dell’Heep sound, bello lo stacco acustico che precede un finale coinvolgente, mentre con “Golem!” si arriva ad un songwriting più variegato, il che ricorda più le canzoni dell’esordio, belle le ripartenze continue e l’acustica nel finale, “Just a feeling” parte soffusa per poi sfociare in un susseguirsi di tutti gli strumenti, molto interessante l’uso del basso, e della voce molto enfatica, “It happened in the woods” si apre con l’intro letto da Alessandra Adami, la moglie di Dalla Riva, il quale si cimenta ancora con la voce principale a sostenere un brano dal mood orrorifico, con un synth squarciante e se volevate un singolo ecco “Born liars”, brano dall’andamento chiaramente orecchiabile, ma non per questo meno appetibile rispetto al resto dell’album, con un ritornello decisamente insistente, “Green eye” è stata “presa in prestito” dagli Uriah Heep stessi ed in particolare da Ken Hensley, che ne aveva scritta una versione demo nel 1972, mai finita su alcun disco degli Heep, i Blind Golem la hanno terminata e ne hanno portata alla luce la bellezza classica, la chiusura è affidata a “Coda…entering the Wunderkammer”, ideale seguito di “Golem!”, un quasi strumentale poggiato su voce e Hammond, farcito di assoli tanto lunghi, quanto affascinanti.
Se cercate originalità, state alla larga da “Wunderkammer”, qui dentro non c’è niente che non si sia già sentito durante gli anni settanta, ma quello che conta è il trasporto, l’amore per certe sonorità da parte dei Blind Golem, che non fa storcere il naso, ma sa di vecchio, quanto di fresco, sembra un paradosso, ma in realtà, se ascoltate le idee compositive ed esecutive di Silvano Zago e soci, capirete che non siamo di fronte ad un semplice duplicato di band storiche, come se una cover band suonasse pezzi originali, una sorta di tribute band di un’ intera epoca musicale, spero dunque di aver reso l’idea, e che apprezzerete questo disco, così come l’ho apprezzato io.