LOGIN UTENTE

Ricordami

Registrati a MelodicRock.it

Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.

effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!

Ultime Recensioni

  • Home
  • /
  • Ultime Recensioni

Vanden Plas – The Empyrean Equation Of The Long Lost Things – Recensione

24 Aprile 2024 1 Commento Alberto Rozza

genere: Progressive Metal
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Per questo 2024 in uscita il nuovissimo lavoro dei tedeschi Vanden Plas, super band progressive, iconica, di grandissimo spessore e sempre in grado di produrre brani di estrema qualità.

Si parte alla grande con la title track “The Empyrean Equation Of The Long Lost Things”, complessa, articolata, stupendamente cesellata, che scorre piacevolmente nonostante i suoi 8 minuti di durata: ottimo inizio! “My Icarian Flight” stupisce e incanta, per le sue parti vocali cristalline, limpide e allo stesso tempo intense e calde, che si mescolano alla trama musicale sempre azzeccata e raffinata. Arriviamo alla poderosa “Sanctimonarium”, dalla grande carica ritmica, ottimamente giocata sulla dinamica e su parti cadenzate, che la rendono vivace e coinvolgente. “The Sacrilegious Mind Machine” è un pezzone micidiale, movimentato, metalloso al punto giusto, una vera chicca piazzata non per nulla al giro di boa dell’album. Sulla componente puramente tecnica non c’è nulla da dire, ma la grande capacità di coniugarla alla melodia, per renderla fruibile e non pesante (e monotona!), è ben presente in questo lavoro: ne dà prova la superba “They Call Me God”, gagliarda, titanica e travolgente. Della durata di ben 15 minuti, variegati, eterogenei e sensazionali, “March Of The Saints” chiude trionfalmente questa piccola grande perla del nostro periodo storico, della quale si può dire veramente poco, se non contemplarne la bellezza e ringraziare i musicisti per aver prodotto un lavoro di questa portata.

King Zebra – Between The Shadows – Recensione

22 Aprile 2024 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Ero stato piacevolmente colpito dal precedente album dei King Zebra (recensione Qui), tanto da giudicarlo con un bell’ 80 tondo, in questo caso invece sono rimasto abbastanza più freddino.

Non che ci siano variazioni significative nel sound, anzi a orecchio la produzione mi sembra più centrata che nell’ episodio precedente, ma si perde un po’ in freschezza compositiva con canzoni un po’ più scontate e con meno killer instinct. Il lato catchy mi sembra abbondantemente preservato grazie alle scorrevoli Children Of The Night e Dina non a caso scelti come singoli, mentre tra alti e bassi, il disco naviga nelle sonorità fine eighties, pescando a piene mani nelle sonorità dell’Alice Cooper di Trash, dai Ratt  e compagnia bella, anche se ogni tanto non si disdegna di accennare ad agganci melodici più moderni di scuola scandinava.

Niente di nuovo sotto il sole dunque un disco che intrattiene con un buon Hard Rock, senza inventare nulla e che ha i suoi momenti migliori nell’ opener Starlight, nel mid tempo Love Me Tonight,  nella rockeggiante Love Lies e nella gradevole e un po’ fuori dagli schemi Cyanide. Le canzoni che mi hanno convinto meno sono invece sono la stanca With You Forever e la conclusiva Restless Revolution che non decolla mai.

In sostanza un passetto indietro rispetto al precedente Survivors, anche se il lavoro è comunque ben suonato ed interpretato e, come detto, beneficia di una produzione di livello. Resta il fatto che può essere un buon intrattenimento per gli amanti del genere e merita comunque un ascolto, perché qualche buono spunto c’è.

Oz Hawe Petterson’s Rendezvous -Oz Hawe Petersson’s Rendezvous – Recensione

16 Aprile 2024 3 Commenti Denis Abello

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy Music

Negli intenti di questo Rendezvouz di Oz Hawe Petterson tutto dovrebbe riportare a non dopo il 1991… tastiere, chitarre, suoni, pezzi… tutto dovrebbe farci fare un balzo indietro nel tempo e riportarci a quei gloriosi anni.
Diciamocelo, una promessa che negli ultimi anni abbiamo sentito ben più di una volta… e allora siamo onesti fino in fondo… promessa difficilina da mantenere, e non magari per mancanza di pezzi, mancanza di intenti o mancanza di capacità… ma semplicemente perchè è una promessa che nel 2024 suona nettamente anacronistica e a cui manca una base di fondo spesso tralasciata ma di vitale importanza, il contesto storico che in quegli anni aveva trovato un’arma vincente proprio nella musica per turbare emozioni e sfondare i cuori di giovani speranzosi. Quegli stessi giovani che nell’anno di grazia 2024 sono molto meno giovani e di quei tempi portano dentro un ricordo vivo ma sbiadito e che forse non sono più in grado di fare un balzo verso quel 1991 promesso anche dai qui presenti Oz Hawe Petterson’s Rendezvous.

Digressione iniziale a parte entriamo nel cuore dell’analisi di questo lavoro che diciamolo subito, per uno come me che da sempre ama il songwriting a firma Osukaru, band madre che deve i suoi natali proprio al qui presente chitarrista Oz Hawe Petterson, non può che essere l’ennesima conferma della bravura in fase di scrittura di questo “ragazzo”.
Quello che forse ha sempre invece un po’ tarpato le ali agli Osukaru è da ricercare a mio parere nelle voci, non sempre all’altezza di quello che poteva essere un buon lavoro tra AOR e Hard Rock!

Ecco allora che, in combutta con il tastierista Mathias Rosén ex membro con Oz degli Svedesi Eye, vede la luce questo progetto prettamente AOR a nome Rendezvous che vede la delicata “parte vocale” delegata a diversi ospiti tra cui è impossible non citare la spendida voce di David Forbes (Boulevard). A lui si aggiungono nomi più o meno conosciuti nel panorama come quello di Chris Rosander, Frederik Werner degli Osukaru e Jane Gould dei Forget-Me-Not. Nutrita inoltre la lista degli strumentisti che donano la loro arte a questa opera.

Parlando dei brani a livello stilistico siamo effettivamente orientati sull’AOR di fine anni ’80 e inizio ’90 con band quali Strangeways, Alien e Bad English che vengono inevitabilmente alla mente e diciamolo, pur senza troppa originalità, ma i pezzi funzionano praticamente tutti e se amate il genere potete già fermarvi qui e correre ad ascoltare l’album!
Se vi serve comunque ancora qualche spinta in più vi basti sapere che i due brani a cui regala la voce David Forbes (These Days e All Roads Lead Back To You) valgono da soli l’acquisto dell’album con una prova come al solito ispirata, intensa e maestosa del nostro David “Boulevard” Forbes!
A questo aggiungo che, non avendo mai particolarmente amato la voce negli Osukaru di Frederik Werner, devo dire che qui mostra finalmente di aver ingranato la giusta marcia con un notevole passo avanti nella gestione della sua (valida) voce e così anche brani come As We Cry (primo singolo), Midnight Lady (Dangerous Game) in duo con Chris Rosander, This Time Around e Never Be ne escono vincitori.
Sacred Land è forse il brano più insipido del lotto e tocca al comunque valido Chris Rosander gestirlo. Infine validi gli inserti offerti dalla voce femminile di Jane Gould in Fool’s Good e The Essence of Love.

In definitiva un album che promette un miracolo e regala invece un lavoro gradevole e ben infiocchettato per farci “credere” in un finto miracolo. Se amate l’AOR più classico e radiofonico resta un album che sicuramente va ascoltato e preso in considerazione per la vostra collezione!

Junkyard Drive – Look At Me Now – Recensione

15 Aprile 2024 0 Commenti Giulio B.

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Mighty Music

Arrivano dalla Danimarca i Junkyard Drive, alla quarta uscita discografica tramite l’etichetta Mighty Music.
Il nuovo album “Look at me now”, la cui copertina non è così fruibile come il titolo ci vorrebbe far intendere, si avvale dell’innesto dei chitarristi Oliver Hartmann Jakobsen e Kristoffer Kristensen. Il resto della band è quello già presente nel precedete album “Electric love” uscito nel 2022. Alla produzione c’è l’importante presenza di Søren Ardensen (Glenn Hughes/Mike Tramp).
La band danese propone un hard rock schietto che prende spunto da band Dirty Honey, The Dead Daisies, Lynch Mob, e per diverse sfaccettature ai loro più famosi connazionali D-A-D.
Si parte col vento in poppa con “Somewhere to Hide”, canzone viscerale con un vibro di chitarre tutto rock and roll. Skip sugli spari ai fianchi della vittima sacrificale; ebbene sì, “Shoot from the hip” stende l’ascoltatore col suo incedere tra AC/DC e Scorpions. Alla terza posizione della tracklist appare il primo singolo che riassume quanto detto per le precedenti due canzoni; ”Tearaway”, è appunto uno strappo con un pollice rivolto in su.
Un bell’accordo apre “Black wolf” che poi diventa ruvida con l’incedere robusto e graffiante delle sue chitarre. Segnali di melodia presenti in “Beauty fool” con quei coretti cari ai The Struts anche se la canzone è più vicina alle coordinate di The Cult o ai più recenti Bad Touch. Riassunto: un mix egregiamente riuscito.
Il vecchio lato B inizia con la polverosa “Blood Red Sky” dalle venature blues che sanno di Gary Moore nella sua struttura e con un assolo che sembra fatto da Slash. A proposito di strutture, quella di “Saw You Hanging There” ha un intro melodica che poi sfocia in una trama pregna di blues; il vocalist Kristian Johansen è pienamente centrato nella canzone con una prova maiuscola.
L’ottava traccia “Pipe Down”, dal ritornello semplice ma diretto, sembra nata da una band americana più che da una del nord Europa grazie alla sua matrice a stelle e strisce. “The Tide Is High “profuma di Jagged Edge Uk mentre lo tesso discorso di matrice americana lo si può fare per l’acustica “Afterglow” posta a fine scaletta; una canzone con un bridge sapientemente costruito che porta ad un delicato ritornello. Ottima conclusione per un bell’album di hard rock moderno e non scontato.

Rydholm Säfsund – Kaleidoscope – Recensione

10 Aprile 2024 5 Commenti Alberto Rozza

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy Music

In uscita il nuovo lavoro di studio partorito dalla coppia svedese Anders Rydholm/Lars Säfsund, con una miriade di ospite e una enormità di sorprese AOR (e non solo) succulente.

Partiamo dalla suadente e particolarissima “Now And Forever”, perfettamente aderente al genere, che non eccede e mette in luce tutte le enormi doti tecniche dei musicisti messi in campo. “Hey You” presenta un groove incredibilmente trasportante, magico e frizzante, un ottimo mix tra ritmo e gusto anni ‘80, dagli arrangiamenti strabilianti. L’eleganza stilistica e l’esecuzione perfetta spadroneggiano anche in “What’s Not To Love”, prova globale ma soprattutto vocale di livello siderale. Entriamo in atmosfere maggiormente soft e dolci: “Seven Signs Of Love” è una perla, dove si sprecherebbero aggettivi e complimenti. “Don’t Make Me Do It” prosegue sul solco ben tracciato dalle tracce precedenti: suoni squillanti e nitidi, voce incantevole e groove micidiale. Passiamo a “4th Of July”, una vera esplosione di gioia musicale, oseremmo dire d’altri tempi, come la successiva “The Bet”, con arrangiamenti pieni e completi, che immergono l’ascoltatore in un mare sonoro delizioso. Arriviamo a “Sara’s Dream”, intensa, dalla sfaccettatura drammatica per certi versi, molto interessante in alcuni passaggi ritmici. Funkeggiante e leggermente scanzonata, “Bucket List” ci rilassa e ci trasporta su nuovi orizzonti, sempre di grande intensità e gusto musicale. Titanica, possente e vivissima, “The Plains Of Marathon” ci ricorda i migliori Toto e si presenta come un brano carichissimo e variegato, che sfocia piacevolmente nella successiva title track “Kaleidoscope”, complessivamente assurda, sbalorditiva per complessità e immediatezza, un gioiello in questa monotonia contemporanea. Gran finale con “Love Will Find Its Way”, validissima conclusione di una inaspettata sorpresa, dalla realizzazione impeccabile, dal gusto indiscutibilmente raffinato, capace di divertire, coinvolgere e far riflettere dal primo all’ultimo secondo: i talenti ci sono ancora, basta trovarli ed ascoltarli!

Voyager X – Magic – Recensione

10 Aprile 2024 1 Commento Giorgio Barbieri

genere: Prog Rock/Metal
anno: 2024
etichetta: Dr.Music Records

A volte le indicazioni fuorviano e dovendo per forza mettere il genere musicale suonato dai tedeschi Voyager X nel corpo della recensione, ho scritto prog metal, ma per essere più precisi, nella musica della band di Mario Gansen c’è tanto altro e il metal ci sta , ma soprattutto c’è quel prog melodico che tanto ha fatto la fortuna di Marillion e Saga, però qua e là, fanno capolino Queensryche e i Savatage degli anni novanta, quindi le indicazioni di massima non vanno tanto lontano dalla descrizione.
Detto questo, svisceriamo “Magic”, album che originariamente i Voyager ( la X è stata aggiunta ultimamente per non incorrere in problemi legali con altre band dallo stesso nome) registrarono nel 1997, ma che non vide mai la luce a causa dello scioglimento improvviso della band stessa, ora, dopo ben ventisette anni, i cinque musicisti hanno deciso di riunirsi e far uscire, finalmente, quel disco e devo dire la verità hanno fatto bene, poiché l’album suona ancora adesso fresco ed era davvero un peccato che rimanesse fermo ai box.
E’ proprio il primo brano “Janus Face” a far pendere l’ago della bilancia verso il prog metal, ma non pensate subito ai Dream Theater, anzi se vogliamo a tutti i costi trovare un punto di contatto , mi vengono in mente i Vanden Plas, con Mario Gansen sugli scudi e autore, nel corso di tutta la durata dell’album di una prova comunque maiuscola, avvicinandosi al grande Bernie Shaw degli Uriah Heep, la successiva “Hypnotize you”, primo singolo estratto, si muove più sinuosa, cadenzata e stride un po’ con il testo tristemente attuale che parla di come i media sviino l’attenzione delle masse sui veri problemi del mondo, la title track è un hard molto melodico che se non fosse per le vocals energiche di Mario, potrebbe essere tranquillamente un pezzo aor e l’uso delle tastiere è lì a dimostrarlo, si continua nel segno della melodia con la struggente ballad pianistica “You crossed my way”, davvero qualcosa di emozionante, ma quindi è tutto rose e fiori?
E no, perché la successiva “I recognize you” è tanto easy quanto scontata e per la prima volta Mario sbrocca con le sue vocals sguaiate e totalmente fuori contesto in un pezzo che sa quasi di west coast, per fortuna arriva “Don’t lose the path” a risollevare le sorti di un album che stava adagiandosi in una fase di stanca, pur iniziando tranquillo, il pezzo si dipana pieno di tensione in un crescendo neo prog interessante, ma quindi l’hard rock se lo sono dimenticato i nostri?
No, e “C’mon live your dreams” è lì a dimostrarlo, pur con delle tastiere molto americaneggianti, alza il livello di testosterone, con riff energici e un assolo ispiratissimo, il terzo singolo estratto “Walk on the dead line”, che tratta di un argomento molto scottante, ossia quello dei condannati a morte, reclusi e giustiziati, per poi essere riconosciuti innocenti e anche qui ci troviamo di fronte ad un brano pieno di tensione, ispirato, che però a mio parere si interrompe proprio quando dovrebbe decollare definitivamente, insomma, un mezzo passo falso; parlavo di leggere influenze prog metal all’inizio ed ecco che in chiusura arriva “Crime of the century” a sostenere questa mia affermazione, il pezzo è vario e vigoroso, incisivo nei riff, con un altro assolo ispiratissimo e l’hammond che da quel tocco a-la Heep sempre valido.

Sicuramente in questo panorama così inflazionato di un gruppo come i Voyager X Probabilmente non si sarebbe sentita la mancanza, ma come già detto, il disco andava portato alla luce perché comunque contiene spunti validi, che devono a mio parere, essere più focalizzati per capire cosa i nostri vogliano fare da grandi e credo che dopo ben ventisette anni di attesa, la band abbia idee sicuramente più precise su quale strada prendere e come far evolvere il loro sound, già di per se abbastanza vario, ma poco focalizzato, insomma c’è tanta carne al fuoco,  anche se magari non tutta è cotta a puntino, staremo a vedere…

Reach – Prophecy – Recensione

29 Marzo 2024 4 Commenti Vittorio Mortara

genere: Modern Rock
anno: 2024
etichetta: Icons Creating Evil Art

Questo terzo disco degli svedesi Reach è un compendio di hard rock moderno, dalle tinte scure, soggetto a svariate influenze, che spesso strizza l’occhio al pop e non perde mai di vista la piacioneria per mezzo di refrain piuttosto catchy. L’apertura col botto è affidata alla title track, pezzo semi industriale che prende più di uno spunto da “Pretty hate machine”, primo straordinario album dei Nine Inch Nails. Il singolo “Little dreams” è power pop energico ed orecchiabile, sulla falsariga di quanto ascoltato sul precedente, bellissimo album. Chiudete gli occhi ed ascoltate “A beautiful life”. Chi vi viene in mente? Ma certo! Le nostrane Vibrazioni! “Save the world”, uno splendido ibrido rock/jazz con un inaspettato intermezzo à la Queen, farebbe gridare al miracolo se i ragazzi non avessero mai scritto “Motherland”. In ogni caso degna di nota. Altro singolo, altra corsa: la darkeggiante “A million lives” ci cattura con atmosfere decadenti ed un testo inquietante per poi lasciare il posto al rockaccio in stile Foo Fighters di “Not the same”. La semplice struttura beatlesiana sulla quale si innesta una parte corale che strizza l’occhio al pop moderno, costituisce l’essenza del semi lento “Who knows”. E giungiamo all’ennesimo singolo, “Mama mama”: il tema delle violenze familiari viene enunciato tramite un essenziale ed immediato hard rock, dal tempo spedito. La vena pop degli svedesi viene a galla alla grande nella bellissima “Psycho violence” dove, fra funky alla Jamiroquai e qualche spunto del pop inglese di Robbie Williams , Ludwig Turner può sbizzarrirsi nell’uso di tutte le tonalità della sua notevole voce. Non così immediata “Gran finale”: a me ricorda qualcosa dei mai troppo glorificati “Demon”. E siamo già alla conclusiva “Eviga natt”, più che una ballad, una marcia funebre. La notte eterna scende su quet’album allo stesso tempo vario e granitico.

Beh, non c’è che dire:  Prophecy è un bel disco. I nostri sono bravi. La produzione è di buon livello. Disco dell’anno dunque? In realtà i ragazzi hanno solo un problema: hanno pubblicato un paio d’anni fa quello che per me è un masterpiece. Se “Promise of a life” non fosse mai uscito, allora sarei qui a stracciami le vesti per questo lavoro. Ma è impossibile non notare che in quel platter regnava una maggiore varietà nelle composizioni. Composizioni che godevano pure di una orecchiabilità ed immediatezza nettamente superiori. Certo, era difficile ripetersi su quei livelli e senza l’effetto sorpresa che aveva avuto al tempo la loro metamorfosi. Però… Bravi Reach comunque. Avercene di bands come voi! Vi aspetto al varco…

The Black Crowes – Happiness Bastards – Recensione

26 Marzo 2024 1 Commento Dave Zublena

genere: Rock
anno: 2024
etichetta: Silver Arrow Records

Nonostante i lettori di melodicrock.it siano mediamente avvezzi a sonorità più melodiche, credo che una band come i Black Crowes non abbia bisogno di presentazioni, visto che ormai i corvi di Atlanta sono diventati una vera e propria leggenda e sono riconosciuti come una delle ultime bandiere del “classic rock”.
Però, per chi si fosse perso qualche puntata, ecco un breve riassunto riguardante la storia recente che ha portato a questo nuovo lavoro.
Dopo anni di burrascose battaglie tra i fratelli Robinson e uno scioglimento durato quasi 10 anni, nel 2019 finalmente il gruppo annuncia il ritorno sulle scene per festeggiare i 30 anni dello storico debut album Shake Your Money Maker. La band, della cui storica line-up restano solo i fratelli Robinson e il bassista di lungo corso Sven Pipien, è pronta ad imbarcarsi in un tour trionfale che viene bloccato sul nascere a causa del lockdown globale del 2020. Finalmente nel 2021 il gruppo è in grado di ripartire in pompa magna con un tour mondiale di grandissimo successo (passato anche dall’Italia con un concerto spettacolare a Milano). Un primo ritorno in studio avviene per registrare un EP di cover chiamato “1972” che scalda i cuori dei rocker più nostalgici. Il tour prosegue con successo per tutto il 2023 e dopo alcuni ulteriori assestamenti nella line-up finalmente viene annunciato il tanto atteso ritorno con un album di inediti, Happiness Bastards, a 15 anni dall’ultimo Before The Frost.

All’epoca della loro apparizione sulle scene nel 1990 vennero considerati, insieme ai Guns ‘N Roses, gli unici veri eredi di Rolling Stones e Aerosmith. Con il passare degli anni però il loro rock ‘n roll viscerale ha inglobato ed accolto sonorità differenti come soul, blues, funky e country pescando a piene mani dalla tradizione della musica americana e rendendo così ogni album dei Black Crowes un viaggio unico dove, pur mantenendo un trademark chiaro e visibile, le coordinate stilistiche si spostavano fluide con una naturalezza invidiabile.
Proprio per questo motivo un nuovo album dei Black Crowes non è mai qualcosa di scontato.
Dopo due anni di tour dedicati ad omaggiare il loro primo album era lecito aspettarsi, anche per il ritorno in studio, un tributo a quelle sonorità. Impressione avallata dalle varie dichiarazioni alla stampa e successivamente confermata dallo spumeggiante singolo apripista “Wanting and Waiting” che paga decisamente pegno al classico Jealous Again. Tutto lasciava presagire che per la prima volta nella loro storia i fratelli Robinson fossero pronti a “staccare la spina dell’evoluzione” per abbracciare un ritorno al passato e celebrare il sound da dove tutto è partito.

Quindi Happiness Bastards è uno Shake Your Money Maker parte seconda? La risposta è NO!

Ma affonda le radici nella storia della band? Assolutamente SÌ!

Quindi suona 100% Black Crowes? La risposta è SÌ e NO!

Confusi? Immagino di sì… quindi proviamo a fare chiarezza.

La celebrazione del passato c’è ed è evidente, ma la cosa favolosa è che lo fanno “a modo loro” andando a ripercorrere tutta la loro storia senza escludere nessun capitolo ed aggiungendo anche qualche elemento di novità. Nonostante ognuno di questi brani, preso singolarmente, possa provenire da uno degli album precedenti, la somma di tutte e 12 le canzoni crea un unicum nella loro discografia.

C’è l’allegria straripante di Shake Your Money Maker (nella già citata Wanting And Waiting), la coltre blues polverosa di The Southern Harmony and Musical Companion (in Follow The Moon), l’istintività animalesca di Amorica (nella potente Dirty Cold Sun) oppure la delicatezza country/blues di Before The Frost (in Wilted Rose). E poi fiumi di “Rolling Stones” del vintage blues di Bleed It Dry o nella frizzante Flesh Wound, o ancora echi di Beatles della delicata e bellissima chiusura affidata a Kindred Friend.
La sensazione è proprio quella di trovarsi di fronte ad una sorta di riassunto della loro storia e delle loro influenze, ma al tempo stesso si percepisce un’energia fresca e vigorosa, grazie anche alla nuova formazione che inevitabilmente fa suonare questo disco “diverso” rispetto al passato.
Da questo punto di vista l’assenza più pesante è quella del batterista storico Steve Gorman che con il suo tocco alla Bonham unito allo swing di Charlie Watts era riconosciuto come elemento centrale dell’alchimia dei Black Crowes. Devo ammettere che proprio il suono della batteria è l’unica cosa che in un primo momento mi ha fatto storcere il naso e che ho faticato a digerire. Ma dopo diversi ascolti si riesce ad apprezzare il quadro completo di una produzione che ha l’ambizione di essere più “moderna”, coraggiosa e diversa per ogni brano (anche se associare la parola “moderno” ai Black Crowes è decisamente un ossimoro). L’altro elemento di novità è il suono delle chitarre che in alcuni brani risultano più distorte e compresse rispetto al passato e che a tratti richiamano certe sonorità hard/stoner (in Rats and Clowns e Dirty Cold Sun per esempio).
In definitiva il risultato si potrebbe definire “modern vintage”, ovvero che suona tutto classico ma non datato.
Svetta ovviamente sopra tutto la voce inimitabile di Chris Robinson, unico vero elemento imprescindibile per un album dei Black Crowes. Cantante dalla personalità straripante il quale, alla soglia dei 60, non conosce cedimenti e sfodera l’ennesima performance miracolosa.

Ancora confusi? Probabile.

Forse l’unica cosa che vi interessa realmente sapere (e probabilmente l’unica cosa che conta) è che questo album è un gioiellino pieno di energia e colori. Un ponte tra il passato e il futuro dei Black Crowes. L’ennesimo viaggio tra le gloriose strade americane ma con dei pit-stop a volte inaspettati in luoghi nuovi e sorprendenti.
Happiness Bastards è sicuramente il disco rock ‘n roll dell’anno e l’ennesimo diamante nella loro discografia.
I corvi sono tornati.

Saxon – Hell, Fire And Damnation – Recensione

26 Marzo 2024 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Heavi Metal
anno: 2024
etichetta: Silver Lining Music

Cosa vi aspettavate dai Saxon, che si mettessero a fare prog, thrash o che magari si buttassero sul post salamadonnacosa? Con i qui trattati hard melodico e aor ci avevano già provato e tutti sappiamo com’è andata a finire, con il power anche ed è andata un filo meglio, ma per avere i Saxon al massimo della loro forma, devono rimanere sul classico hard’n’heavy anthemico che sprizza nwobhm da tutti i pori, nonostante l’addio definitivo del chitarrista fondatore Paul Quinn, che poteva far pensare ad una qualsiasi sterzata a livello compositivo e così non è, il sostituto eccellente Brian Tatler, chitarrista fondatore di un’altra leggenda del metal inglese, i Diamond Head, non cambia di una virgola il sound dei Saxon, magari lo farà dal prossimo album, dato che il suo ingresso in pianta stabile risale solo all’anno scorso, ma per ora il qui presente “Hell, fire and damnation” ricalca i canoni di una carriera ultra quarantennale, con rimandi più o meno diretti ai primi album, a quelli del ritorno al metal e agli ultimi “Carpe diem” e “Thunderbolt”, ha senso quindi parlare dei brani che compongono questo ventiquattresimo album di inediti di Biff e soci?

Sì, se si vuole fare una recensione bella, pulita e corretta, la quale dica più o meno le stesse ovvietà che potete trovare su tutte le varie testate, cartacee o meno, dove addirittura qualcuno di ben più lunga e prestigiosa militanza scribacchina del sottoscritto, definisce la presenza di Tatler come una curiosa sorpresa…oppure si aspetta che si calmino le acque, come ho fatto io e si ascolta il disco, sviscerandolo più volte e aspettando fino a due mesi dall’uscita e dando un parere, che magari non dirà niente di nuovo, anche perché di nuovo in questo album non c’è niente, ma sicuramente non è il solito compitino ben scritto da “quelli bravi”.

Quindi, si può dire che l’apertura con la title track risulta essere uno dei pezzi migliori di Biff e soci dai tempi di “Dogs of war”, grazie al suo riff trascinante e che la successiva “Madame Guillotine” ha un ritornello che che si stampa in testa, che “There’s something in Roswell” è l’highlight del disco, con un andamento quasi moderno e un Biff in ottima forma, che “Pirates of the airwaves” è un classico metal trascinante e che “Super charger” è la degna chiusura energica dell’ennesimo album riuscito dei Saxon, ma non vi sembrano tutte cose già sentite e già scritte centinaia, se non migliaia di volte per diversi album della band inglese?

Per cui, non mi dilungo più del dovuto e esorto chi, come me, ama i Saxon a prescindere, ad acquistare l’album a scatola chiusa o semiaperta se state leggendo queste righe, perché è la nostra comfort zone, è l’amico fidato che torna sempre da noi con il sorriso e con la voglia di divertirsi, è l’angolo di mondo dove si va a rilassarsi quando si vuole ritrovare il sorriso e poco conta se non c’è più Paul Quinn, Biff rimane a tenere alta la bandiera dei sassoni e sappiamo che finché ci sarà lui, ci saranno i Saxon, per tutti gli altri, quelli che rimpiangono il terribile, a mio parere sia chiaro, “Destiny” o quelli che vivono a pane e doppia cassa, consiglio di passare oltre, quei Saxon non ci sono più…

Holler – Reborn – Recensione

26 Marzo 2024 3 Commenti Vittorio Mortara

genere: Aor
anno: 2024
etichetta: Scarlet Records

Gli Holler sono il nuovo progetto del cantante dei power/trash/prog metallers Eldritch, Mario Tarantola, alias Terence Holler appunto. Scritturati una manciata di italici musicisti (la lineup sembra la formazione di una squadra di ex calciatori di serie A), l’attempato metallaro sforna un disco decisamente più virato verso l’AOR e l’hard melodico rispetto ai suoi precedenti. E tutto sommato i ragazzi se la cavano bene con gli strumenti e la produzione non è la peggiore che abbia sentito ultimamente.

E le movenze groovy del singolo “Do you believe” posto in apertura fanno ben sperare…  anche perché l’ottantiana “I don’t want” sembra confermarne i buoni auspici. Ma già con “Music is the one” l’insieme comincia a scricchiolare. La voce di Terence non entusiasma e il brano naviga su lidi scontati. Spiagge lambite anche da “Into me forever”. Il primo slow “those eyes” ha linee vocali non esattamente piacevoli: sembra che il buon Holler non sia proprio a suo agio con il genere. La danzereccia “Falling apart” offre qualche gradevole spunto ma si perde per strada. L’inascoltabile “Wrong words” cede il passo ad un altro lento “Don’t walk away”, parecchio simile al primo. Ma è ascoltando “Invisible man” che mi rendo conto che la tonalità del singer italo americano su questo genere musicale, alla lunga, diventa vagamente fastidiosa. E così anche la badanimalesca “How long” finisce per lasciare insoddisfatti. “Without you” è un alta semi ballad che offre qualche spunto in più, pur senza entusiasmare. Ancora fiera dell’ovvio sulle note di “Within me” ed è tempo di chiudere con l’ultima ballad “Yulia”, forse la più piacevole del lotto.

Che io mi ricordi, l’unico precedente di un’ugola power metal prestata alle melodie dell’AOR è stato il progetto Place Vendome. Ma, in quel caso, Kiske ha offerto una prestazione interpretativa a mio avviso eccellete. Terence Holler su questo disco non riesce proprio a convincermi. Sembra il classico pesce fuor d’acqua. La cosa che manca di più tra le note di queste canzoni è proprio la capacità espressiva in grado di generare emozioni. Se siete fans degli Eldritch date un ascolto. Altrimenti passate oltre.