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Classici

Kiss – Kiss – Classico

12 Ottobre 2025 1 Commento Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 1974
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Classico tra i classici, imprescindibile per tutti gli amanti dell’hard rock, o dal rock in avanti, “Kiss” dei Kiss, anno del Signore 1974, rappresenta un crocevia fondamentale per la storia della musica popolare. Il primo capitolo di una saga durata cinquantanni, la colonna sonora della vita di milioni di ragazze e ragazzi in tutti gli angoli del Mondo, ha inizio con l’uscita di questo album, che già conteneva i prodromi di uno stile e di una intenzione che faranno dei Kiss una delle più grandi macchine da musica (e da incassi) dell’intero business musicale.

In primo luogo, la band, formatasi, anzi, riarrangiatasi l’anno precedente dalle ceneri dei Wicked Lester: Gene Simmons al basso, Paul Stanley alla voce e alla chitarra, Peter Criss alla batteria e Ace Frehley alla chitarra solista; tutti e quattro anche cantanti e coristi, oltre che songwriters. Questa formazione è un mantra, che tutti sanno a memoria come gli undici della finale dei Mondiali di calcio del 2006 o, per la generazione, del 1982. Il makeup a contraddistinguere uno stile e un mistero che solo poche band hanno avuto nei primi anni della loro carriera, poi esposta e sovraesposta nei decenni a seguire. La copertina dell’album, capolavoro assoluto, a mettere in mostra, su sfondo nero, un Monte Rushmore rivoluzionario, ovvero i quattro volti truccati dei quattro componenti, che, escludendo Peter Criss, presentano quei tratti caratteristici che diventeranno parte fondamentale dello show e del prodotto Kiss (la stella di Paul su tutte).

Da ragazzino è stato il primo album dei Kiss che abbia mai ascoltato e, senza troppa retorica, mi ha cambiato la vita: masterizzato da un mio amico e compagno di band, “Kiss” mi ha aperto gli occhi verso la parte più teatrale e “anabolizzata” del rock e, da chitarrista alle prime armi, mi ha portato alla conoscenza del mio mito chitarristico assoluto, ovvero Ace Frehley. Tanto mi appassionò, che nel giro di un paio di anni comprai tutti i primi album dei Kiss, con annessa autobiografia di Gene Simmons che letteralmente consumai (prima del 2006, anno che mi portò “The Dirt” e la scoperta di un’altra dimensione dell’hard rock).

Fuori dalla cronaca personale, questo album si deve poi aprire, inserire e ascoltare: impossibile farlo seduti, o in religioso silenzio, perché muoversi e scatenarsi è parte dell’ascolto. Si capisce che già qualcosa di incredibile e mai visto stava nascendo a New York, si capisce il genio creativo e l’energia dirompente sin dalle prime note di “Strutter”, cavalcata pomposa, spregiudicata, che presenta tutte le caratteristiche di un brano a marchio Kiss: ritmica ancheggiante, ritornello catchy, coralità e assolo in pentatonica… e cosa serve di più?
Il brano che segue è il primo singolo della band, “Nothin’ To Lose”, che entra subito nella mente e sotto la pelle, con il ritornellone cantato da Peter Criss e la perfetta struttura a incastro tra strumenti e voce.
“Firehouse” è l’essenza dell’unione tra un grande brano e lo spettacolo di un concerto dei Kiss, perché anche questa fu la loro grande rivoluzione: un demone sputafuoco che a fine brano lancia da una spada una palla di fuoco… perché la musica può diventare un grande show e i Kiss ce lo hanno insegnato.
Ore e ore davanti allo specchio della camera dei miei a imitare, a muovere la testa quando ancora era inondata da un mare di capelli lunghi, a replicare il solo e la ritmica di questo brano di Ace Frehley: “Cold Gin”, una perla rara, un rito iniziatico, imprescindibile.
Un po’ di rock’n’roll vecchio stile con “Let Me Know”, americanissimo, ammiccantissimo, ma comunque piacevole, che stacca un po’ e ci riporta sempre a “quegli anni” e che dovrebbe farci riflettere sulla capacità corale degli artisti che uscirono da quell’epoca, sia a livello vocale che compositivo.
Solitamente, al giro di boa, si andrebbe in calando: mai ragionamento fu più erroneo.
“Kissin’ Time” è un tour negli Stati Uniti che legheranno la propria storia a questa band, un quartetto dal destino scritto proprio in quel sogno americano che rappresenteranno almeno nella prima parte della carriera: emarginati, ragazzi di strada, accomunati dalla voglia di fare musica insieme e di sbarcare il lunario.
E qui arrivano i carichi da 90: “Deuce” è un classico, etimologicamente parlando, da tanto è stato ascoltato, suonato, copiato, riadattato, un brano che ha dato la forma all’hard rock, un canone imprescindibile per tutto ciò che ne deriverà… e chi dirà il contrario è un fan degli Aerosmith (si scherza, ovviamente).
Dopo la veloce strumentale “Love Theme From Kiss”, l’intro di basso di “100.000 Years” ci catapulta in un universo spietato, oscuro, che ci presenta un’altra caratteristica della band, ovvero la poliedrica forma del genio compositivo, sì attinente al genere, ma già da subito capace di attingere da altro e di farsi influenzare, ancor prima di influenzare il mondo del rock… e ci sarebbe da dire qualcosa anche sulla voce di Paul Stanley, ovvero un tratto fondamentale di una rockstar vera, pura, inimitabile
La conclusiva “Black Diamond” è uno spettacolo, una gemma unica, emozionante, con due soli di chitarra perfettamente cesellati da Frehley nella trama vocale spietata di Peter Criss e nella ritmica dinamicissima del duo Simmons/Stanley, una goduria per le orecchie e, dal vivo, una goduria per gli occhi, con lo spettacolo della “fustigazione” nel solo finale a rendere il tutto emozionante e struggente.

Nulla cambierà questa “recensione postuma” sul giudizio globale della band e soprattutto su questo album incredibile, che risulta un vero caposaldo di un genere e di un modo di vedere la musica, che tanti giovani ha ispirato e che tanti “meno” giovani continua a emozionare e a far sognare… E con un po’ di malinconia non resta che ringraziare i Kiss per il loro lavoro e per le sincere emozioni che hanno saputo trasmettere.

McQueen Street
McQueen Street

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McQueen Street – McQueen Street – Gemma Sepolta

20 Settembre 2025 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1991
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Questo è uno di quei dischi che ti capita di vedere passare sullo scaffale, mentre sistemi la collezione o scegli cosa ascoltare, e già dalla copertina riaffiorano alla mente i ricordi in bianco e nero di un’epoca che fu. Un album che aveva tutto per sfondare, ma che, come accaduto a molti altri, è finito nel cassetto dei tesori nascosti. Una gemma di hard rock diretto e senza fronzoli, che meritava molta più fortuna ed è stata sepolta dalla fine di un’era.

La storia dei McQueen Street inizia nel profondo Sud degli Stati Uniti, a Montgomery, Alabama, alla fine degli anni ’80. Per circa tre anni, il cantante e chitarrista Derek Welsh, il chitarrista Michael Powers, il bassista Richard Hatcher e il batterista Chris Welsh si sono fatti le ossa suonando ovunque fosse possibile nel Sud-Est. Parliamo di 5-7 sere a settimana (a pensarci oggi vengono i brividi), tra locali pieni e bettole con solo una manciata di ubriachi come pubblico (e a chi non è venuto in mente il film The Blues Brothers?). Ma non importava: erano in missione per conto dell’hard rock (semi-cit.).

Questo sudore e questa gavetta li portarono a firmare con la SBK, una sussidiaria della EMI che annoverava in catalogo artisti del calibro di Boy George, Wilson Phillips e Jon Secada. Nomi di peso, certo, ma non esattamente specialisti dell’hard rock. Ad ogni modo, riuscirono a entrare in studio con un produttore di grande esperienza come Tom Werman (già al lavoro con pesi massimi quali Mötley Crüe e Cheap Trick). Il risultato è questo disco omonimo: dieci tracce di hard rock potente e melodico, a cavallo tra lo sleaze più stradaiolo e le radici del sound più classico. Un lavoro che, sulla carta, aveva tutte le carte in regola per sfondare… se non fosse stato il 1991.

L’album è un concentrato di energia pura, come lo definì lo stesso Derek Welsh. Pezzi come ‘When I’m In The Mood’, ‘Woman in Love’ e ‘Money’ sono da rocker puri, paragonabili a un incrocio tra Skid Row e Great White. Certo, non puntavano sull’originalità: la band non ha mai cercato di aprire nuove strade, ma compensava ampiamente con un feeling travolgente e un songwriting solido ed efficace. Brani come ‘Going Back to Mexico’ mostrano un lato più strutturato e potente, sulla scia di Bulletboys, Kix e Junkyard, con persino un intro percussivo dal sapore spagnoleggiante a sottolineare l’ambientazione del brano. Tuttavia, i McQueen Street sapevano anche rallentare il ritmo, dimostrando una notevole capacità nel confezionare ballad di grande intensità. ‘Time’ è una power ballad carica di pathos, con un’atmosfera quasi western, mentre ‘In Heaven’ può senz’altro essere considerata il vertice emotivo del disco: una splendida ballad da dedicare all’infatuazione giovanile del momento, perfetta per fare colpo col tocco dell’uomo fuori dagli schemi (e con i miei coetanei ci siamo capiti :-)). E poi c’è ‘Only The Wind’, un’altra preziosa gemma elettroacustica. Questa capacità di alternare colpi diretti allo stomaco a delicate carezze melodiche è uno dei tratti più pregevoli del disco, capace di coinvolgere senza annoiare, anche a decenni dall’uscita.

Ad impreziosire l’album, e a ulteriore conferma che i McQueen Street non erano, per così dire, caduti da un pero, ci sono ospiti di un certo calibro. Steve Stevens, il celebre chitarrista di Billy Idol, suona un assolo e co-produce il brano ‘Two Worlds’, mentre ai cori troviamo un altro nome noto, Jeff Scott Soto, e alle tastiere un certo Cj Vanston. Insomma, non so se mi spiego…

Nonostante la qualità del materiale e una produzione impeccabile a cura di Werman, qualcosa ovviamente andò storto. Derek Welsh stesso ha raccontato di non essere mai stato soddisfatto delle strategie di marketing, in particolare della copertina dell’album, che ritraeva una donna su un camion: la considerava una rappresentazione inaccurata della band e della sua musica, un tentativo forzato di associarli alla solita trinità “sesso, ragazze e feste”. Anche la scelta dei primi tre singoli (‘My Religion’, ‘In Heaven’ e ‘Time’) gli parve poco coerente. Io penso invece che furono i cambiamenti dell’industria musicale all’inizio degli anni ’90, con le radio e MTV che voltavano le spalle a un certo tipo di hard rock, a condannare band come i McQueen Street all’oblio. Senza supporto mediatico e con il morale a terra, la band si sciolse nel 1993 e, tragicamente, l’anno successivo il batterista e fratello di Derek, Chris Welsh, morì a causa di una malattia virale.

Pur avendo avuto una carriera troppo breve (esiste solo un altro album della band, datato 2003), quest’album resta una testimonianza potentissima di ciò che i McQueen Street avrebbero potuto diventare. È il classico disco simbolo di un’epoca: forse non un capolavoro, ma assolutamente da ascoltare a tutto volume, con i finestrini abbassati, e che avrebbe meritato sicuramente più riconoscimento di quello ottenuto. Un piccolo frammento di storia del rock che, grazie alla passione dei fan, continua a rifiutarsi di essere dimenticato.

Hardline
Double Eclipse

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Hardline – Double Eclipse – Classico

23 Agosto 2025 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1992
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Quando nel 1992 gli Hardline pubblicarono il loro debutto ‘Double Eclipse’ per la MCA, ero in piena botta di dipendenza dai Bad English, e vedere in formazione due quinti di quella band fece sì che acquistassi il disco senza nemmeno ascoltare mezza traccia, come si usava allora nei negozi di dischi… ahhh, la nostalgia. Il panorama musicale stava cambiando rapidamente e il ‘genere che non può essere nominato’ stava conquistando le scelte delle major, spazzando via il regno dell’hard rock melodico e dell’AOR che avevano dominato gli anni ’80. Eppure, proprio in quel momento critico, i fratelli Johnny e Joey Gioeli, insieme a Neal Schon, Todd Jensen e Deen Castronovo, riuscirono a firmare un album che, pur non sfondando le classifiche, è rimasto negli anni come un punto di riferimento imprescindibile per chi ama il genere. Naturalmente il sound non era proprio Bad English style, ma la combinazione di un songwriting ispirato e di una formazione stellare creò un suono solido e moderno, che ancora oggi mantiene intatta la sua freschezza e che comunque mi fece apprezzare il disco dopo appena un paio di ascolti.

Johnny Gioeli, a malapena ventenne, sfoderava una voce già matura, graffiante e melodica al tempo stesso, capace di dare vita a interpretazioni trascinanti in brani come ‘Takin’ Me Down’ (singolo che raggiunse il #37 delle Mainstream Rock Charts) e ‘Life’s a Bitch’, e di emozionare con intensità in pezzi più melodici come ‘Everything’ e soprattutto nella splendida power ballad conclusiva ‘In the Hands of Time’, in cui la sua vocalità, sorretta dall’introduzione acustica e dall’assolo magistrale di Schon, tocca vette altissime. Colpisce come, a distanza di oltre trent’anni, la sua voce non abbia perso nulla in potenza ed espressività: se i lavori con Axel Rudi Pell hanno confermato la sua versatilità, negli album più recenti degli Hardline (da ‘Danger Zone’ fino a ‘Heart, Mind and Soul’) ha dimostrato di saper reggere il confronto con il proprio passato, aggiungendo profondità e maturità a un timbro che sembra immune allo scorrere del tempo. Neal Schon, libero di esprimere il suo lato più hard, si ritaglia un ruolo da protagonista con riff granitici e assoli incandescenti, fino a firmare lo strumentale ‘31-91’, inquieto e ipnotico, che mette in luce la sua capacità di sperimentare. Todd Jensen e Deen Castronovo sostengono la sezione ritmica con precisione chirurgica e pathos, mentre Joey Gioeli completa il muro sonoro con una chitarra ritmica compatta ed efficace.

La produzione di ‘Double Eclipse’, curata dallo stesso Neal Schon insieme a Mike Stone, valorizza ogni elemento della band, conferendo al disco un suono cristallino e potente, perfettamente bilanciato tra melodia e hard rock, senza mai sacrificare la spontaneità delle performance. Questo lavoro in studio contribuisce a rendere il disco moderno e nitido, pur mantenendo il calore tipico dell’hard rock a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.

Oltre ai singoli di punta, ‘Hot Cherie’ (cover degli Streetheart che arrivò al #25 delle Mainstream Rock Charts) resta uno degli inni più riusciti dell’intero repertorio, mentre ‘Bad Taste’ e ‘Rhythm from a Red Car’ aggiungono grinta e dinamismo a una tracklist priva di veri riempitivi.  Certo, qualche passaggio può risultare meno incisivo, come ‘Change of Heart’ o ‘I’ll Be There’, o forse più scontato, come ‘Dr. Love’, ma nel complesso la qualità media resta altissima e rende ‘Double Eclipse’ un ascolto imprescindibile.

Da segnalare che nell’edizione giapponese è presente la bonus track ‘Love Leads the Way’, inserita come terzo brano della tracklist, con conseguente slittamento di tutte le tracce successive.

Uscito in un’epoca ostile al suo stesso genere, questo album ha trovato nuova vita negli anni, conquistandosi lo status di piccolo classico e mantenendo un fascino intatto, capace di raccontare con sincerità l’ultima grande stagione dell’hard rock melodico.

Alias
Alias

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Alias – Alias – Gemma Sepolta

17 Agosto 2025 5 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 1990
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Se un disco finisce in questa rubrica, di solito è perché ha avuto la sfortuna di presentarsi nel momento sbagliato, rischiando di passare inosservato nonostante i suoi meriti. ‘Alias’, l’omonimo debutto della band canadese uscito nel 1990, rientra perfettamente in questa categoria: un lavoro che ha sfiorato lo status di classico, ma che, per una serie di circostanze, non è riuscito a imporsi davvero.

La storia degli Alias nasce quasi per caso, grazie al successo tardivo del brano ‘When I’m With You’ degli Sheriff, salito in cima alle classifiche nel 1989 a band ormai sciolta. Da quell’inaspettato exploit, il cantante Freddy Curci e il chitarrista Steve DeMarchi decidono di ripartire da zero, trovando compagni di viaggio d’eccezione: tre ex membri fondatori degli Heart, Roger Fisher, Steve Fossen e Mike Derosier. Una formazione dal pedigree invidiabile, che in studio riesce a fondere esperienza, tecnica e soprattutto una forte sensibilità melodica.

Rispetto al passato con gli Sheriff, qui il passo avanti è evidente: ‘Alias’ propone un AOR più raffinato, con arrangiamenti ricchi e un approccio vicino al rock adulto di band come Foreigner e Journey, abbandonando in parte le sonorità più pop della precedente esperienza. La produzione di Rick Neigher suona perfettamente figlia del periodo, levigata e curata, ma è la voce di Freddy Curci a imporsi davvero, diventando la protagonista del disco. Poche interpretazioni nell’AOR di quegli anni riescono a reggere il confronto con la sua: potente, emotiva e capace di dare spessore tanto alle ballad quanto ai brani più energici.

Il disco si apre con ‘Say What I Wanna Say’, una dichiarazione di intenti che stabilisce subito l’atmosfera: tastiere morbide e avvolgenti, chitarre incisive e un ritornello che evoca gli anni ’80 nel miglior senso possibile. Seguono ‘Haunted Heart’, dal mood intenso e penetrante, e soprattutto ‘Waiting For Love’, brano radiofonico e toccante che ancora oggi conserva freschezza e coinvolgimento emotivo. Ma il vertice resta ‘More Than Words Can Say’, la power ballad ‘strappamutanda’ quasi per antonomasia, che ha riscosso un discreto successo, con Curci in stato di grazia. È uno di quei pezzi che spiegano da soli perché l’AOR ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica melodica.

Non mancano altri pezzi di pregio: ‘Heroes’, costruita lentamente fino a un finale coinvolgente, ‘What To Do’, con cori trascinanti, e ‘After All the Love Is Gone’, dal taglio radiofonico irresistibile. Anche i brani più ‘normali’, come ‘The Power’ o ‘Standing in the Darkness’, hanno comunque un loro perché e contribuiscono a dare al disco compattezza e varietà, e al giorno d’oggi sarebbero una punta di diamante per numerose band.

All’epoca, ‘Alias’ ottenne un buon successo: disco d’oro negli Stati Uniti, platino in Canada e tre singoli entrati nelle classifiche. Non bastò però a trasformare la band in una realtà stabile: le defezioni interne e, soprattutto, il mutato orientamento delle etichette discografiche verso le sonorità di tendenza soffocarono sul nascere quella che avrebbe potuto essere una carriera duratura. Il secondo album rimase nel cassetto per anni, pubblicato solo nel 2009.

Riascoltato oggi, però, il disco suona come un perfetto esempio di AOR di fine anni ’80: melodie impeccabili, interpretazioni vocali di alto livello e arrangiamenti che, pur radicati nel loro tempo, conservano ancora immutato il loro fascino. È il tipico disco che non ha avuto la fortuna che meritava, ma che, tra gli appassionati, continua ad essere apprezzato come un piccolo classico mancato. In fondo è proprio qui il suo valore: non un semplice ricordo polveroso, ma un album capace ancora di emozionare e di testimoniare quanto fosse vigorosa la scena melodica a cavallo tra i due decenni.

Deep Purple
Made In Japan

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Deep Purple – Made In Japan – Classico

22 Giugno 2025 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1972
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Come si fa a non includere un disco dei Deep Purple nella nostra rubrica? Parlare di una band che ha dato origine all’hard rock come lo conosciamo oggi mi è sempre sembrato quasi obbligatorio. Il problema, però, è sempre stato uno: quale disco scegliere? È proprio questo dubbio che mi ha fatto rimandare più volte l’inserimento dei Purple. Da fan sfegatato degli Whitesnake, avrei potuto optare per Burn, oppure per In Rock, l’album che ha praticamente sdoganato il concetto di rock duro. Poi però ho avuto un’intuizione: perché non fare un’eccezione e inserire un live?  Ho scelto dunque un live, quello che molti considerano il live per eccellenza. E se persino io, che non amo particolarmente i dischi dal vivo, lo propongo, significa che è davvero speciale.

Ora, so benissimo che probabilmente non dirò nulla di nuovo, e che su questo disco si sono già espressi praticamente tutti coloro che hanno scritto di musica, a qualsiasi livello. Proprio per questo, consapevole dell’impresa improba in cui mi sto cimentando, ho deciso di offrire semplicemente il mio umile contributo: una visione personale ed emozionale di ciò che un disco del genere può suscitare in chi, come me, si diletta a scribacchiare di musica.

Ci sono dischi che trascendono la semplice registrazione musicale per diventare vere e proprie esperienze: pietre miliari capaci di scolpire la storia di un genere. ‘Made in Japan’ dei Deep Purple, pubblicato l’8 dicembre 1972 è uno di questi. Universalmente celebrato come un capolavoro assoluto dell’hard rock e, senza troppo timore di smentita, considerato da molti il miglior album dal vivo di tutti i tempi, questo doppio LP cattura i Deep Purple al suo meglio: una band perfetta e all’apice della propria creatività ed assolutamente al top della forma.

Ascoltare ‘Made in Japan’, soprattutto, al giorno d’oggi è come assistere a un miracolo sonoro, un’istantanea fedele di un’epoca in cui la musica era un’arte superiore, per usare le parole di Roger Glover, era “il disco più onesto della storia del rock”, privo di sovraincisioni o trucchi da studio.

L’album nacque quasi per caso, su richiesta della casa discografica giapponese, che voleva un’esclusiva per il loro mercato. La band, inizialmente riluttante, accettò. Le registrazioni vennero effettuate in sole tre serate, dal 15 al 17 agosto 1972, tra il Festival Hall di Osaka e il Budokan di Tokyo, durante il tour di ‘Machine Head’. Quando i Deep Purple si ritrovarono ad ascoltare il materiale, capirono di avere tra le mani – citando Jon Lord – “qualcosa di meraviglioso”. ‘Made in Japan’ è un bellissimo scatto della band in tutta la sua gloria, che suona dal vivo, stimolandosi l’un l’altro”. La leggendaria formazione Mark II — Gillan, Blackmore, Glover, Lord e Paice — è considerata dai più la quintessenza dell’epoca d’oro della band.

‘Made in Japan’ fu anche uno dei primi album live ad ottenere un successo commerciale globale, raggiungendo le prime posizioni in Europa, Nord America e Australia. Le certificazioni parlano da sole: doppio platino in Argentina, platino in Austria, Germania e Stati Uniti, oro in Francia, Italia e Regno Unito.

Un disco che diverrà iconico a partire dalla copertina e una curiosità sulla copertina viene fornita da Phil Collen dei Def Leppard: “Ricordo quando presi ‘Made In Japan’ e guardando quella foto sul retro mi accorsi che ero io – il ragazzo biondo in piedi tra il pubblico, proprio davanti a Ritchie Blackmore. Pensai:« Ma non è il Giappone! Quello è Brixton!» Era il Brixton Sundown, poi conosciuto come l’Academy. Fu il primo concerto a cui sia mai andato, avevo 14 anni e riuscii ad arrivare proprio sotto il palco. Non suonavo ancora la chitarra, e fu proprio quello spettacolo, stare lì davanti al punto in cui Blackmore era sul palco, con la sua Stratocaster che brillava, mentre suonava tutte quelle cose che allora nessun altro faceva, che mi spinse a prendere in mano una chitarra e iniziare a suonare, letteralmente, il giorno dopo.”

Un elemento intrigante, e forse sorprendente, è che le tensioni ‘solistiche’ tra Ritchie Blackmore e Jon Lord finirono per elevare il livello delle loro esibizioni dal vivo, dando vita a una competizione creativa intensa e luminosa. Questo continuo confronto tra personalità forti e virtuosismi si trasformava in un’energia viva e travolgente durante i concerti. I Deep Purple avevano una dote rara: potevano dilatare i brani fino al limite senza mai perdere l’attenzione dell’ascoltatore, grazie a una combinazione magistrale di spontaneità e complessità sonora. Erano maestri del palcoscenico, con una presenza scenica imponente e inarrestabile.

Durante i concerti giapponesi del 1972 che diedero vita all’album ‘Made in Japan’, il supporto tecnico fu fondamentale per catturare la qualità e l’atmosfera di quelle performance live. I concerti furono registrati su nastro analogico a 8 piste, un formato che oggi può sembrare limitato, ma che all’epoca rappresentava lo standard per produzioni di alta qualità. Il tecnico responsabile fu Martin Birch, già collaboratore dei Deep Purple in studio, incaricato di registrare i tre concerti svoltisi a Osaka il 15 e 16 agosto e a Tokyo il 17 agosto. L’approccio alla microfonazione fu minimale ma estremamente strategico: per esempio, la batteria fu microfonata con pochi punti chiave, così da preservare l’ambiente naturale della sala. L’Hammond di Jon Lord venne invece registrato sia direttamente sia con microfoni ambientali per catturarne al meglio la presenza scenica. Un ruolo cruciale lo giocarono anche i tecnici locali giapponesi, spesso meno noti rispetto a figure come Birch, ma che si distinsero per la loro professionalità, precisione e competenza nella gestione dell’audio dal vivo e nell’assistenza logistica. I Deep Purple rimasero colpiti dalla loro efficienza, che contribuì in modo decisivo al successo delle registrazioni.

Per quanto riguarda i brani l’esibizione live dei Deep Purple si apre con la carica esplosiva di ‘Highway Star’, introdotta con la disarmante semplicità di Gillan che esclama “Okay, here we go”. Da lì in poi, è un tornado sonoro: l’assolo di Ritchie Blackmore è pura adrenalina, un concentrato di tensione e velocità che ricorda un cavallo imbizzarrito o una moto fuori controllo, anticipando lo spirito frenetico che sarà poi un cavallo di battaglia dell’Heavy Metal. Segue la monumentale ‘Child In Time’, dove Gillan si spinge oltre l’umano con vocalizzi lancinanti e una potenza emotiva che lascia il segno. La versione dal vivo si espande ben oltre l’originale in studio, trascinata da un riff micidiale e un crescendo epico.

‘Smoke On The Water’ brilla qui nella sua incarnazione probabilmente definitiva, con una resa impeccabile. Il contributo di Jon Lord si eleva sopra ogni aspettativa: le sue tastiere arricchiscono il celebre riff conferendogli profondità e autorevolezza.

Con ‘The Mule’, ispirata al potente mutante della saga della Fondazione di Asimov, è il batterista Ian Paice a prendersi il centro della scena. Il suo assolo è una masterclass di tecnica e sensibilità ritmica, che fonde l’energia del rock duro con raffinate sfumature jazzate. Nonostante un timbro leggermente ruvido, la sua esecuzione raggiunge vette di straordinaria maestria.

“Strange Kind of Woman” diventa il campo di battaglia sonoro tra Gillan e Blackmore, una sfida in cui voce e chitarra si rispondono, si rincorrono e si confondono, culminando in un urlo di dieci secondi che sfuma i confini tra umano e strumentale: un momento iconico e inimitabile.

In ‘Lazy’, l’introduzione d’organo di Jon Lord è una meraviglia di espressività: alterna suoni puliti e distorti con magistrale controllo, mentre Blackmore si diverte ad infilare citazioni ironiche come il motivetto de I tre porcellini. L’armonica di Gillan aggiunge un’insospettabile vena country, dimostrando la versatilità del gruppo.

Si chiude con “Space Truckin’”, che si dilata in una jam session spaziale di quasi venti minuti. Quel che comincia come un semplice brano rock si trasforma in un’odissea sonora organizzata e caotica allo stesso tempo, un vortice psichedelico che fonde improvvisazione e coerenza in un tessuto musicale avvolgente e travolgente, mostrando che dopotutto anche i Purple affondano le proprie radici in quel Prog rock inglese che alla fine degli anni 60 rivoluzionò il modo di fare musica.

‘Made in Japan’ è stato pubblicato in diverse edizioni nel tempo, ognuna con caratteristiche specifiche. L’edizione originale del 1972 uscì solo in Giappone come doppio LP con sette tracce dai concerti di Osaka e Tokyo. Poco dopo, tra il 1972 e il 1973, arrivò l’edizione internazionale per Regno Unito e Stati Uniti, identica nella selezione dei brani. Nel 1993 fu rilasciata una versione rimasterizzata in CD con audio migliorato, senza contenuti aggiuntivi. Il 1998 vide l’uscita di Live in Japan, un cofanetto triplo CD con i tre concerti integrali, mantenendo il mix originale. La Deluxe Edition del 2014 include quattro CD e un DVD con i concerti completi rimasterizzati e un documentario video. Infine, nel 2025 la Super Deluxe Edition per il 50° anniversario ha proposto 5 CD e Blu-ray (o 10 LP in vinile), con remix stereo e Dolby Atmos dell’ immancabile Steven Wilson, i concerti completi remixati, versioni rare e un Blu-ray con mix Atmos.

In definitiva, ‘Made In Japan’ non è solo un album, è un’esperienza che continua a essere fresca e vitale come sempre. È un must-have in qualsiasi collezione, una pietra miliare della storia del rock che ha fissato lo standard per tutti i live album a venire, sia per performance e per lunghi anni come tecnica di realizzativa ed ha eletto il Giappone a mo’ di patria del live di qualità, da qui in poi tantissime band andranno a registrare infatti i loro live album più prestigiosi proprio nel paese del sol levante È un album da avere, da ascoltare a palla, e da vivere e rivivere. La sua capacità di farci essere lì con loro nel 1972 è un testamento della sua immortalità.

Eyes – Eyes – Gemma Sepolta

17 Giugno 2025 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

Strana la storia degli Eyes, considerati da molti critici dell’epoca autori di uno dei migliori dischi di class metal di sempre. Strana perché è stata una delle band più “saccheggiate” di talenti nella storia del genere. Nati nella scena underground di Los Angeles con il nome di L.A. Rocks, furono fondati dal batterista Aldy Damian. Pur riuscendo a costruirsi un buon seguito, non ottennero mai un contratto discografico stabile. Nel corso degli anni, il gruppo vide passare tra le sue fila musicisti di alto livello: basti pensare che la formazione originaria dei L.A. Rocks includeva Kelly Hansen alla voce, Steve Dougherty alla chitarra, Chuck Wright al basso e Aldy Damian alla batteria. Tuttavia, Hansen passò agli Hurricane e Wright ai Quiet Riot e poi agli House of Lords, costringendo la band a ripartire quasi da zero.

Nel 1987, ormai rinominati Eyes, erano vicini a firmare con la Capitol Records. Ma proprio allora, James Christian fu chiamato dagli House of Lords, e Jeff Scott Soto (che aveva già avuto esperienze precedenti con la band) fu richiamato come cantante. La beffa finale arrivò dopo l’uscita del disco: nonostante la qualità, il successo fu estremamente limitato e Marcel Jacob, che aveva suonato gran parte delle parti di basso nell’album, richiamò Soto (che già a quei tempi era impelagato in mille progetti) per cantare in pianta stabile nei Talisman, infliggendo così il colpo di grazia definitivo alle speranze di successo della band.

Strana anche perché, scaricati dalla Capitol, gli Eyes trovarono un contratto discografico con la Curb Records, un’etichetta dalle dimensioni assolutamente rispettabili, ma completamente dedita alla musica country, quindi del tutto impreparata a supportare la band a livello promozionale. La Curb operava infatti in circuiti musicali completamente diversi, e ciò rende ancora oggi un mistero condito da mille illazioni, la decisione di metterli sotto contratto. Forse la speranza era quella di allargare il giro d’affari verso sonorità allora in voga (anche se all’inizio degli anni Novanta le major già cominciavano a sentire l’odore dell’alternative e stavano mollando l’hard rock), oppure si trattò di una cessione da parte della Capitol a titolo, per così dire, risarcitorio. Fatto sta che, senza il supporto dell’etichetta e rivolgendosi a un circuito di vendita in gran parte estraneo, la band affondò rapidamente nell’oblio.

La qualità delle tracce è però fuori discussione, e l’opener “Callin’ All Girls” lo dimostra subito: un’esplosione di chitarre bluesy, cori stratificati e energia da arena rock. Il ritmo resta alto con “Every Single Minute”, una scintilla di metal californiano alla Ratt. “Don’t Turn Around”, primo lento e cover di Tina Turner, diventa una power ballad intensa grazie alla voce soul di Jeff Scott Soto. “Young and Innocent” conquista con un ritornello arioso su una base hard rock compatta, mentre “Nobody Said It Was Easy” è il momento più toccante dell’album, perfetto per mettere in mostra le doti vocali di Soto. “Start Livin’”, anthemico e trascinante, sembra chiudere il disco… ma una sorpresa attende l’ascoltatore (almeno nella versione in cd): “Somebody to Love”, eseguita a cappella da Soto è probabilmente un omaggio a Sam Cooke, e seppur non accreditata nella tracklist, è forse uno dei primi esempi di ghost track, almeno a mia memoria.

Insomma, un disco che sarebbe potuto diventare un caposaldo del genere, ma che le vicissitudini del music business di quei tempi hanno relegato ad oggetto di culto per gli appassionati del genere, e quindi da recuperare assolutamente.

Mark Jordan
COW

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Mark Jordan – COW – Gemma Sepolta

05 Giugno 2025 2 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 1990
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Questa è un’altra di quelle storie che ho già raccontato in passato: tutto comincia con il vastissimo catalogo del mailorder SweetMusic, dove, per appena 3.900 lire, acquistai a scatola chiusa un CD dalla copertina stravagante, con disegnata sopra una mucca. Non avevo la minima idea di cosa stessi comprando. L’altro giorno, avendo recuperato anche la copia in vinile (sempre a due soldi), ho pensato che fosse il momento perfetto per inserirlo nella rubrica delle “gemme sepolte”. Così ho deciso di proporvelo: sia a chi già lo possiede e vuole riscoprirlo dopo tanto tempo, sia a chi non lo conosce e magari vuole procurarsi un disco estremamente interessante per pochi spicci.

Nel 1990, Marc Jordan, artista canadese d’adozione con una reputazione già consolidata nella scena Westcoast, pubblicò il suo quinto album, intitolato semplicemente COW — acronimo di Conserve Our World. Alla luce di questo titolo, anche l’assurda copertina dell’album, raffigurante una mucca circondata da fiori, assume un significato completamente diverso, più simbolico e meno casuale di quanto potesse sembrare a prima vista. In un periodo in cui le classifiche erano dominate da sonorità pop e rock sempre più radiofoniche, Jordan decise di compiere una lieve deviazione dal suo stile tradizionale, abbracciando atmosfere più vicine all’AOR, pur mantenendo intatta la raffinatezza compositiva che lo ha sempre contraddistinto. Già autore stimato per grandi nomi come Cher, Joe Cocker, Rod Stewart, Chicago, Kenny Loggins e Diana Ross, e con due album cult alle spalle — ‘Mannequin’ (1978) e ‘A Hole in the Wall’ (1983) — Jordan, con COW, dimostrò ancora una volta la sua volontà di rinnovarsi, esplorando nuove direzioni sonore. Il risultato è un’opera che segna una tappa significativa nella sua carriera, grazie a una voce inconfondibile e a una scrittura capace di trasmettere storie ed emozioni con autentica sensibilità.

Il cambiamento di rotta introdotto da COW si percepisce fin dalle prime note di ‘Big Love’, un brano potente che, pur conservando la raffinatezza degli arrangiamenti tipici di Marc Jordan, mostra un’energia più marcata. Il pezzo è sostenuto da cori maestosi firmati da Billy Trudel, Stan Bush e Amy Sky, e ricorda per certi versi le vibrazioni di ‘This Independence’, ma con un impatto più deciso. Segue ‘Edge of the World’, che prosegue sulla stessa linea: una melodia solida, ben costruita, che cattura l’ascoltatore grazie a un equilibrio perfetto tra forma e intensità. Tuttavia, è con ‘Guns of Belfast’ che COW rivela una delle sue sfumature più sorprendenti. Il titolo stesso suggerisce atmosfere celtiche, e il brano non delude: una composizione avvolgente, quasi mistica, dove emerge con forza la sua capacità di trasformare la musica in un vero e proprio viaggio emotivo e sensoriale. Un altro dei momenti più caratterizzanti per il messaggio del disco è ‘Burning Down the Amazon’, in cui Jordan affronta un tema di (ancora) drammatica attualità: la deforestazione della foresta amazzonica. Il brano si distingue per l’intensità emotiva e per il contributo di un cast vocale d’eccezione — tra cui Richard Page, Timothy B. Schmit, David Batteau, Kevin Cronin, Bruce Gaitsch e Steve George. La sensibilità sociale e politica di Jordan, già evidente in altre sue opere, qui trova piena espressione, dando al disco una forte coerenza tematica.

Tutta l’opera assume così i contorni di un concept album non dichiarato, ma profondamente permeato da un’urgenza non solo ambientalista, ma anche morale, legando i brani non solo stilisticamente, ma anche a livello di contenuto e visione d’insieme. Stilisticamente parlando, Jordan dimostra la sua versatilità non solo nei brani più ritmati, ma anche nelle ballate più intime. ‘Silent Night’, scritta con Bruce Gaitsch, offre una vocalità potente e una profondità emotiva che lo differenzia dallo stile più distaccato degli album precedenti. Ancora più toccante è ‘Inside My Piano’, una composizione eseguita con solo voce e pianoforte che mette in evidenza la sensibilità espressiva dell’artista, trasformando il brano in un piccolo gioiello di delicatezza sonora. Il viaggio musicale si chiude con una reinterpretazione di ‘Can We Still Be Friends’ di Todd Rundgren. Sebbene diverse versioni di questo classico abbiano lasciato il segno nel tempo, la reinterpretazione di Jordan mantiene un fascino particolare grazie alla sua interpretazione vocale e all’apporto della chitarra di Gene Black, che aggiunge spessore al brano.

Dietro le quinte, COW si avvale di una produzione meticolosa curata da Kim Bullard, già al fianco di Jordan nel precedente ‘Talking Through Pictures’. La lista di collaboratori del disco è impressionante: Jordan (voce e piano) è affiancato da alcuni dei migliori chitarristi della scena, tra cui Steve Farris, Stuart Mathis, Gene Black, Danny Jacob, Doug Macaskill e Bruce Gaitsch. La sezione ritmica è solida grazie alla batteria di Billy Ward e Pat Mastelotto, mentre Kim Bullard e John Capek si alternano al basso e alle tastiere. Rick Sailon al violino ed Eric Williams al mandolino aggiungono un ulteriore livello di profondità agli arrangiamenti.

I cori, un elemento chiave dell’album, vantano la partecipazione di Billy Trudel, Stan Bush, Amy Sky, Mark Lennon, Michael Lennon, Kip Lennon, Oren Waters, Luther Waters, Kevin Dorsey, Renée Geyer, George Merrill, Richard Page, Shannon Rubicam e Timothy B. Schmit.

Nel complesso, COW è un album che, pur sperimentando nuove direzioni, mantiene intatta l’anima di Marc Jordan come cantautore ed in sostanza, è un disco corroborante e rassicurante che vi consiglio per i vostri momenti di relax, quando sentite il bisogno di mettere pace nella vostra anima.

Steelheart
Steelheart

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Steelheart – Steelheart – Classico

02 Giugno 2025 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1990
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Come abbiamo ripetuto innumerevoli volte, il 1990 fu un anno particolare (quasi ironico) per le band che debuttavano restando fedeli al sound hard’n’heavy, trionfante negli anni ’80. Proprio mentre le case discografiche iniziavano ad indirizzare il pubblico verso sonorità più “alternative”, alcuni gruppi coraggiosi continuarono, almeno per un altro paio d’anni, a produrre autentici capolavori. Spesso trascurati all’epoca, questi dischi si sarebbero poi rivelati vere gemme, raggiungendo nel tempo lo status di opere di culto e riuscendo a tenere testa (in termini di qualità artistica) ai classici della cosiddetta “età dell’oro” dell’hard ottantiano. Gli Steelheart rientrano tra questi esempi, e il loro primo album omonimo ne è una testimonianza luminosa.

Uscito a cavallo tra il 1989 e il 1990, ‘Steelheart’ vide la luce proprio nel momento in cui l’hard rock da classifica, dopo aver dominato il decennio, stava iniziando a cedere il passo. Eppure, l’album si impose fin da subito come un punto di riferimento del genere, un lavoro da conservare con cura. Con un mix ben calibrato di pezzi energici e ballad emozionanti, la band seppe trovare una propria identità musicale, ispirandosi a gruppi come Whitesnake, Dokken, Def Leppard e persino Led Zeppelin per le venature più blues. Il risultato fu un disco difficile da ingabbiare in categorie rigide: rispettava le fondamenta del genere, ma aggiungeva un tocco distintivo. La produzione, estremamente curata e “imponente”, tipica di quel periodo, contribuiva a definire un suono tanto potente quanto elegante.

Il gruppo, proveniente dal Connecticut, era formato da Michael Matijevic alla voce, Chris Risola alla chitarra solista, Frank DiCostanzo alla seconda chitarra, Jim Ward al basso e John Fowler alla batteria. Quello che fin dalle prime note però colpisce subito è la voce di Matijevic, considerato alla stregua di un nuovo Coverdale e dotato di un’estensione vocale eccezionale, la sua voce sapeva essere tanto intensa e acuta quanto delicata, con una capacità impressionante di raggiungere note altissime al limite dell’ultrasuono e dotato di grande personalità interpretativa sia tecnica che emozionale. Altro talento degno di nota era Chris Risola che ci offriva una performance chitarristica virtuosa, ricca di assoli memorabili e tecnicamente brillanti.

Se proprio volessimo incasellare questo disco, potremmo considerarlo una sorta di summa del class metal proposto negli anni precedenti. Ogni canzone ha una propria forza e identità. Il brano di apertura, ‘Love Ain’t Easy’, cattura subito grazie agli acuti spettacolari di Matijevic e a un ritornello da arena rock. ‘Can’t Stop Me Loving You’ è un mid-tempo melodico che cresce d’intensità fino a un climax emozionante. Veniamo alle ballad: ‘I’ll Never Let You Go’ si distingue per la sua dolcezza struggente e il forte impatto emotivo, mentre, se non vi viene la pelle d’oca ascoltando ‘She’s Gone’, siete morti e non lo sapete ancora; canzoni così qualche anno prima sarebbero potute diventare vere e proprie hit da heavy rotation su MTV. ‘Everybody Loves Eileen’ è invece un brano robusto, carico di energia, con un ritornello immediato. Ma il pezzo più sorprendente è ‘Sheila’, la traccia più intrisa di blues dell’album: un chiaro omaggio agli Zeppelin, reinterpretati e proiettati vent’anni avanti. Con un’atmosfera sensuale e intensa, il brano si chiude con un duetto voce-chitarra tra Matijevic e Risola, che ricorda le atmosfere live dei Purple di ‘Made In Japan‘. Infine, impossibile non citare ‘Gimme Gimme’ e ‘Rock’N’Roll (I Just Wanna)’, che mostrano il lato più aggressivo e diretto della band.

Al di là dell’apprezzamento della critica (ricordo una recensione su Metal Shock da brividi) ‘Steelheart’ ottenne anche un riscontro commerciale più che discreto, arrivando fino al 14º posto nella classifica Billboard, conquistando il disco d’oro negli Stati Uniti e vendendo 33.000 copie in Giappone solo il giorno dell’uscita. Purtroppo, dopo questo exploit iniziale, la carriera della band subì una brusca frenata: da un lato, come detto, il cambio delle mode musicali, dall’altro un grave incidente sul palco nel 1992 mise temporaneamente fuori gioco Matijevic, compromettendo il futuro del gruppo.

Nonostante, quindi, le difficoltà e l’uscita in un momento complicato per il genere, ‘Steelheart’ resta una delle migliori espressioni dell’hard rock melodico di inizio anni ’90. Per gli amanti del genere o se disgraziatamente ve lo foste perso e volete aggiungere un piccolo grande classico alla vostra collezione, questo disco rappresenta una scelta eccellente. Un album che avrebbe meritato un destino ben più luminoso, ma che ancora oggi brilla come un faro nel panorama del rock melodico, in un’epoca in cui i riflettori stavano cominciando a spegnersi.

 

The Ladder
Future Miracles

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The Ladder – Future Miracles – Gemma Sepolta

29 Marzo 2025 8 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 2004
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Se gli anni ’90 sono considerati il periodo nero dell’AOR, i primi anni del nuovo millennio sono stati forse ancora peggiori. Trovare un disco AOR era un’impresa quasi impossibile, nemmeno con il lumicino, e le poche uscite disponibili venivano distribuite da etichette microscopiche con un impatto pressoché nullo. Le riviste cartacee già scarseggiavano, mentre il web non era ancora sviluppato come oggi, rendendo gli incontri con le amate sonorità degli anni ’80 sporadici e affidati al caso. Gli appassionati si ritrovavano in incontri quasi clandestini, scambiandosi copie pirata scaricate da eMule, la cui provenienza era spesso ignota. Non si sapeva nemmeno se quei brani fossero realmente esistiti o se fossero semplicemente vecchie outtakes o bootleg di dubbia origine, innescando ricerche disperate ovunque per riuscire a mettere le mani sull’agognato CD, ammesso che fosse mai stato pubblicato… Fu proprio in questo modo che mi imbattei nei The Ladder: su un PC di un amico austriaco, da cui ero stato invitato a trascorrere qualche giorno. Per puro caso, aveva scaricato quel disco senza nemmeno sapere cosa fosse, convinto che appartenesse a tutt’altro genere, essendo lui più orientato verso il metal estremo. Successivamente, durante una gita nella vicina Germania, entrai in un negozietto che ancora oggi ricordo per quanto fosse stracolmo di CD AOR, Hard Rock, Heavy Metal e tutto il bendiddio possibile. Fu lì che riuscii a mettere le mani su Sacred, il capitolo successivo di questa band e, una volta compreso chi fossero realmente, arrivai finalmente a possedere anche il CD che oggi vi propongo.

I The Ladder rappresentarono infatti un tentativo di reunion degli FM, che però non andò a buon fine. Dopo lo scioglimento della band nel 1995, tra gli appassionati aveva iniziato a circolare l’idea di una possibile rinascita per l’inizio del nuovo millennio. Tuttavia, come spesso accade nel tortuoso mondo del rock, gli eventi presero una piega diversa, portando alla nascita di una nuova formazione.

Protagonisti del progetto furono due figure cardine degli FM: l’inconfondibile vocalist Steve Overland e il solido batterista Pete Jupp, affiancati dall’esperto bassista Bob Skeat (già membro degli FM e dei Wishbone Ash) e dal virtuoso Vinny Burns, storico chitarrista di Ten, Asia, Ultravox e Dare. A completare il quadro, la produzione venne affidata a Steve Morris (Heartland, Gillan, Shadowman – band in cui Overland aveva già collaborato con Morris), un nome che di certo non è indifferente gli amanti del genere.

Ma ‘Future Miracles’ è davvero il miracolo mancato degli FM o possiede una propria identità ben definita? La risposta non è semplice. È innegabile che lo spirito della band madre aleggi su gran parte del materiale, soprattutto considerando che molti brani affondano le radici in composizioni risalenti all’epoca d’oro degli FM, quel periodo magico che ha regalato gemme come ‘Indiscreet’ e ‘Tough It Out’. Pezzi come “Like Lovers Do”, “Closer To Your Heart”, “When Tomorrow Comes” e “Say It Like It Is” vengono proposti quasi nella loro veste originale dando soltanto una finitura più attuale, ma mantenendo intatto quel caratteristico feeling FM anni ’80 che tanto ci ha fatto sognare in quegli anni.

Musicalmente, l’album si muove su coordinate di melodic rock di elevata fattura. Lungi dall’essere l’hard rock “riff-oriented” promesso da alcune fonti, ‘Future Miracles’ si rivela un lavoro armonioso e ben prodotto, in cui le melodie vocali di Overland dominano la scena e dove ogni sua interpretazione è un piccolo gioiello, capace di impreziosire anche i passaggi meno ispirati.

La tracklist offre un’ampia gamma di sonorità, spaziando da ballate intense come “Do You Love Me Enough” a brani più ritmati e diretti. “Closer To Your Heart” è il perfetto esempio di melodic rock ben costruito, arricchito da un assolo di chitarra di Vinny Burns che, pur senza sfoggiare la sua tipica verve più “heavy” vista nei Ten, si limita ad infondere feeling e  solidità rimanendo perfettamente in linea con lo stile AOR raffinato dell’album. “Baby Blue”, già pubblicata in una precedente incarnazione solista di Overland, assume qui una veste più eterea, con un maggiore risalto di tastiere e chitarre, rivelando un’inclinazione quasi perfetta per un passaggio radiofonico un pezzo perfetto per la radio, se solo queste avessero ancora trasmesso il genere. Il brano più “heavy” del lotto sembra essere “Say It Like It Is”, caratterizzato da un riff di chitarra incisivo e dall’interpretazione vocale di Overland, che in questo va citare vocalmente Paul Rodgers, evocando atmosfere a la Bad Company. Anche tracce come “Too Bad” e “When Tomorrow Comes” condividono questo feeling più rockeggiante, mettendo in luce la versatilità della band e la sua capacità di spaziare tra raffinate sonorità AOR e momenti più grintosi.

In definitiva, forse Future Miracles non è stato il “miracolo” hard rock che alcuni si aspettavano, ma ha avuto il grande merito di fare da ponte tra le due epoche degli FM e di lasciare acceso un lumino che ha guidato gli amanti del genere in quegli anni bui e carenti di melodia. Avendo da poco compiuto vent’anni, mi sembra giusto che trovi spazio nella nostra rubrica, dedicata ai capisaldi su cui ancora oggi poggia l’AOR.

Foreigner
4

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Foreigner – 4 – Classico

16 Marzo 2025 3 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 1981
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Il mio incontro con i Foreigner avvenne, come spesso accade, grazie a casuali ascolti radiofonici delle loro hit più celebri, come “Waiting for a Girl Like You” e “I Want to Know What Love Is”. All’epoca ero solo un bambino e, pur apprezzandole, non mi venne certo in mente di approfondire preso com’ero nel turbine della sperimentazione sonora. Nel 1991, però, dopo aver acquistato l’album degli Shadow King capitanati da Lou Gramm, la scintilla si accese di nuovo, facendomi iniziare il mio viaggio a ritroso alla scoperta di una band che senza dubbio possiamo considerare una delle capostipiti di quello che sarebbe stato definito il sound AOR per eccellenza.

Nati nella vivace scena rock newyorkese degli anni Settanta, i Foreigner si fecero un nome abbastanza in fretta, grazie a tre album ed un discreto successo nelle classifiche di Billboard, ma fu il 1981 a segnare un punto di svolta per il gruppo con l’uscita di “4”, quasi universalmente riconosciuto come la loro opera più significativa. Insieme ai coevi “Hi Infidelity” dei Reo Speedwagon ed “Escape” dei Journey, “4” va a formare il tris di dischi che senza dubbio segna la genesi del genere AOR nella sua definizione enciclopedica.

Il titolo “4” non solo segna il quarto lavoro in studio dei Foreigner, ma simboleggia anche una drastica riduzione della formazione, passata da sei a quattro membri dopo il licenziamento del tastierista Al Greenwood e del polistrumentista Ian McDonald, ex King Crimson. Questa decisione, voluta dal chitarrista e principale autore Mick Jones, segnò una svolta nella band, spostando l’asse creativo verso la sua visione musicale e quella del cantante Lou Gramm. La creazione di ‘4’ rappresentò una vera e propria maratona creativa per i Foreigner, un percorso che si snodò per dieci mesi tra intense sessioni di pre-produzione e registrazione. Ogni dettaglio sonoro fu scrutato con cura maniacale sotto la supervisione del produttore Robert John ‘Mutt’ Lange. Questa ricerca incessante della perfezione non solo spinse la band a superare i propri limiti, ma generò anche momenti di tensione durante il lavoro in studio. Mick Jones stesso rivelò di aver avuto accesi confronti con Lange, riflesso di una determinazione condivisa nel realizzare qualcosa di straordinario. E pensatela come vi pare, ma spesso la figura del produttore è stata cruciale nei dischi che hanno fatto la storia.

L’album si apre con “Night Life”, un brano ritmato e coinvolgente tratto dalle esperienze della vita notturna nella grande mela. Segue “Juke Box Hero”, caratterizzato da un’introduzione ipnotica con synth bass e una batteria pulsante che evolve in un ritornello esplosivo divenuto iconico. La canzone racconta la storia di un giovane che sogna di diventare una rock star dopo essere rimasto fuori da un concerto, un testo nato dall’unione di due idee separate di Gramm e Jones, poi amalgamate da Lange. “Break It Up” propone un rock più diretto, arricchito da riff incisivi e un pianoforte dinamico. “Waiting for a Girl Like You”, con le sue atmosfere eteree e la voce vellutata di Gramm, è diventata una delle ballad simbolo degli anni Ottanta. Il brano rimase per dieci settimane al secondo posto della classifica americana, senza mai raggiungere la vetta, cosa che invece successe qualche anno dopo al singolo “I Want to Know What Love Is”, per la serie… la vendetta è un piatto che va gustato freddo. Inoltre, la canzone fu inserita anche nella colonna sonora del videogioco GTA Vice City. “Urgent” è un mix esplosivo di rock pop dalle venature funky, reso inconfondibile dal riff di sintetizzatore e dal basso pulsante. L’elemento più distintivo è l’assolo di sassofono del leggendario Junior Walker, inizialmente esitante a registrare in studio, ma poi autore di una performance memorabile. “Urgent” si rivelò un successo immediato, dominando le radio FM. “I’m Gonna Win” è un hard rock energico con un arrangiamento avvincente, mentre “Woman in Black” mette in risalto le abilità chitarristiche di Jones con riff asciutti e armonie vocali profonde. “Girl on the Moon” si distingue per la sua atmosfera malinconica e sognante, caratterizzata da chitarre echeggianti e sintetizzatori delicati. Infine, con “Don’t Let Go”, si torna al rock vibrante ed essenziale, chiudendo in bellezza.

“4” ottenne un successo immediato, raggiungendo il primo posto nelle classifiche di Billboard per dieci settimane e ottenendo sei dischi di platino negli Stati Uniti. L’album si impose anche in Europa, conquistando posizioni di rilievo nelle classifiche del Regno Unito e della Germania. Rimane un’opera fondamentale degli anni Ottanta, un perfetto esempio di rock radiofonico raffinato e ricco di hit immortali. Grazie alla combinazione del talento compositivo di Mick Jones, della voce inconfondibile di Gramm e della produzione impeccabile di Mutt Lange, il disco fece entrare di diritto i Foreigner nella storia del rock e nell’olimpo dell’AOR.