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Nightblaze – Nightblaze – Recensione

22 Marzo 2024 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Brining Minds - Art Of Melody

Così come il 2023 era stato un’anno di estrema qualità per le uscite di Rock Melodico made in Italy, sembra proprio che anche il 2024 segua questa tendenza e l’esordio dei Nightblaze lo stà a dimostrare.

Nightblaze è il nuovo gruppo uscito dall’idea di Dario Grillo, compositore e polistrumentista già noto con le sue precedenti creature Platens e Violet Sun, supportato per l’occasione da una band di tutto rispetto che vede alla batteria Alex Grillo (Platens, Violet Sun),  Federica Raschellà (Steel Tyrant, Evil Eyes) al basso, mentre alla voce c’è quello che io considero l’astro nascente dei cantanti italiani nel panorama Hard Rock ed affini ovvero Damiano Libianchi, che l’anno scorso abbiamo ascoltato all’opera con il masterpiece dei Perfect View.

Il disco è un concentrato di rock melodico puro e cristallino e le melodie che scaturiscono da ogni canzone non faticheranno certo a stamparvisi nella mente per non uscirne più. Si comincia a spron battuto con un intro alla Atomic Playboys che ci lancia nella tirata Sudden Blast, canzone molto rock, addolcita si dalle tastiere, ma che non faticherebbe ad essere considerata un up tempo quasi heavy, veramente un ottimo opener. Notevole il singolo Take on me dal ritornello catchy, perfetto da essere canticchiato a nastro, così come è perfetto anche l’altro singolo Tell Me, altra gemma racchiusa in questo disco. Molto evocativa anche Daughter, con la sua aria sognante creata ad arte con dei sopraffini arrangiamenti orchestrali. Estremamente gradevoli sono inoltre, You’re Gone e Fading Away, che ci illustrano tutte le sfaccettature compositive del gruppo.

Un disco che non ha assolutamente cali di tensione, che scorre piacevole ascolto dopo ascolto senza stancare e, soprattutto, ci mostra  la tecnica e la bravura della band nel comporre ed eseguire brani melodici e pieni di feeling anche emotivo.  A tal proposito, fatemi enfatizzare la performance del buon Damiano Libianchi, che riesce ad emozionare ed a fornire una interpretazione magistrale e coinvolgente in ogni tipologia di brano.

In questo inizio anno, mi sento assolutamente di poter dire che le cose più interessanti stanno venendo fuori proprio dal nostro paese, troverei delittuoso non supportare una scena che sta crescendo sempre più e che oramai si può confrontare a testa alta con la concorrenza internazionale senza nessun timore o remora. Bravi ragazzi!

 

Lipz – Changing The Melody – Recensione

21 Marzo 2024 2 Commenti Yuri Picasso

genere: Glam Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Scoperti nel 2011 dal talento di Stefano Gottardi e accasati per il debut ‘Scaryman’ (2018) in Street Symphonies Records, gli svedesi Lipz tracciano il solco della maturità artistica con il qui presente ‘Changing The Melody’, edito per Frontiers.
La formula glam dell’odierno quintetto, fortemente debitrice di act storici quali Poison, Crue, viene editata e aggiornata come durante gli ultimi lustri bands quali Reckless Love o i Crashdiet più scintillanti hanno saputo sviluppare.
Il paragone più consono lo trovo proprio con la band finlandese e a lavori quali ‘Animal Attraction’ e ‘The Spirit’, mantenendone lo stile, il sound e l’ammiccamento verso soluzioni easy listening, pur non raggiugendone i picchi compositivi.
“I’m Going Under”, a dispetto del titolo, esorta nell’arrangiamento ad alzare il volume e a spegnere i pensieri, tramite un livello di distorsione delle 6 corde accentuato.
Con la title track incoraggiamo la nostra mente a ricordare piacevoli soluzioni che abbiamo (ri)scoperto con la nuova ondata sleazy scandinava.
“Stop Talking About Nothing”, la migliore del lotto, suona intelligente e ruffiana a orecchie sopravvissute a queste latitudini sonore altrettanto quanto i ritornelli di “Bye Bye Beautiful” o “Secret Lover”.
Lungo la propria direzione artistica i Lipz risultano assolutamente credibili anche quando viene istintivo loro inserire intermezzi ritmici dal sapore vagamente Punk (“I’m Alive”/“Monsterz”) o in linee vocali monocordi ma coerenti e ricollegabili al filone new rock (la cadenzata “Freak”).
La ricetta viene arricchita di pianoforte e pathos nella drammatica “I Would Die For You”.

Concludendo, i nostri giocano sul sicuro evitando di superare i 37 minuti lungo l’airplay (scelta assolutamente da premiare), alternando i colori del sunset strip seconda metà anni 80 a toni parcamente più aggressivi che aggiungono un velo di personalità a un disco ricreativo evitando mestieranti banalità.

Cruzh – The Jungle Revolution – Recensione

21 Marzo 2024 3 Commenti Giulio B.

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Tornano dopo tre anni i Cruzh, capitanati da Alex Waghorn alla voce e i due membri fondatori Anton Joensson e Dennis Butabi Borg, rispettivamente alle chitarre e al basso; a completare la band il batterista Matt Silver ed il neoentrato Johan Öberg alle chitarre.
“The Jungle Revolution” esce il 22 marzo tramite Frontiers, dopo il precedente “Tropical thunder”, affine per la tipologia dei titoli scelti.
La title track è una canzone ben costruita e posta giustamente come apri pista grazie alla sua intro” ascendente”; chitarre e batteria entrano a scandire il cantato di Alex che arriva ad un refrain che convince parzialmente. Bella la variazione di ritmo in prossimità dell’assolo.
Il viaggio nella savana musicale ci porta davanti ai primi due singoli rilasciati; l’ariosa e accattivante “FL89” e la più robusta “Angel dust”, più vicina, quest’ultima, al “tuono tropicale” del precedente album. Alla ricerca della melodica di impatto” in “Killing In The Name Of Love” che ha le giuste intenzioni ma difetta di mira verso il centro dell’obbiettivo; il ritornello si intreccia infatti con qualcosa di già sentito.
Una bella intro ci accompagna in “SkullCruzer” dai vocalizzi corali all’uscita del ritornello anche se la parte pregiata risiede nel lavoro strumentale in prossimità ed in funzione dell’assolo di chitarre.
La simpatica tappa “At The Radio Station” è il preludio alla canzone più “cattiva” del lotto; “Split Personality” parte a canna con una sessione ritmica più idonea ad un altro genere. Il ritornello un po’ troppo urlato lascia “divisi”, ma non negativi, sul giudizio di una canzone fuori dai canoni dei Cruzh. Si respira un’aria da far-west nelle note iniziali di “Sold your soul” con un basso pulsante che ne sentenza l’incedere. Anche qui apprezzo il lavoro della sessione ritmica in zona assoli.
Al tramonto in una giungla può mancare una ballata? Ecco arrivare “From above” delicata come il correre di una gazzella a cui, però, manca il ruggito della tigre, presente in “Cady”, lento azzeccatissimo del 2021.
Si chiude con “Winner” che sa molto di Bon Jovi mixata con i Danger Danger seppure non sia vincente come dichiara il titolo, e la spregiudicata “Gimme anarchy” con quei riff sincopati che danno un tocco di energia e originalità in uscita dalla giungla.
Nel complesso un album che risulta essere un ibrido di idee, tra il recente passato e qualche aggiustamento verso territori inesplorati.
Non sempre lasciare la strada vecchia per una nuova da risultati migliori.

Mike Della Bella Project – The Man With The Red Shoes – recensione

18 Marzo 2024 2 Commenti Denis Abello

genere: Westcost / AOR / Pop Rock
anno: 2024
etichetta: Indipendente

Durante il 2019 arriva, completamente in sordina, un album autoprodotto in grado di lasciare senza parole gli amanti del westcoast più di maniera ed elegante. Quell’album dal titolo One nasceva sotto il moniker Mike Della Bella Project (qui la nostra recensione).
2024 e ancora una volta in maniera autoprodotta Mike Della Bella, all’anagrafe Michele Della Bella, classe 1965, romano, polistrumentista, autore e produttore punta al colpaccio e a bissare il successo ed il livello raggiunto con il debutto. Obiettivo non facile quello che si pone questo suo nuovo parto a titolo The Man With The Red Shoes.
Dalla sua si parte mantenendo l’ossatura portante di One con quindi il supporto di Daniele Trissati alla chitarra e Mauro Scardini alle tastiere più una serie di Artisti di rilievo del panorama internazionale come Robbie LaBlanc, Jesús Espín, Peter Friestedt, Shannon Forrest, Bill Champlin solo per citarne alcuni oltre alla conferma della bella voce femminile, già presente in One, di Nanà Petrossi!

La riconoscibilissima voce di Robbie LaBlanc fa la sua magistrale entrata sulle note di un brano AOR dall’arrangiamento westcoast come Far From Over e si è subito riproiettati in quel favoloso cromato, scintillante ed elegante mondo a firma Mike Della Bella! Con la successiva Gift of Life LaBlanc regala una prestazione magistrale che impreziosisce un brano assolutamente sopraffino per gusto e arrangiamenti con un solo di chitarra da brividi.
Shelter Me, che vede l’entrata in scena di Nanà Petrossi, veste l’AOR di Soul. Sax e fiati giocano con i tocchi jazz della chitarra e la brava Nanà dona sensualità al tutto. Nothing I Wouldn’t Do. con la voce carica e potente di MaShanda Favors ci porta direttamente sul dancefloor.
Robbie La Blanc si trova perfettamente a suo agio sulle note di If The Darkest Night, forse il brano più AOR classico del lotto. Lo stesso LeBlanc lo troveremo a chiudere la sua opera al servizio di questo album sulle note di Affinity, brano puramente westcost, genere in cui LaBlanc dimostra di potersela giocare a livello vocale con i Top vocalist degli anni d’oro sorretto inoltre da un lavoro strumentale eccezionale a cui dona il suo contributo anche il bravissimo Peter Friestedt alla chitarra. Quanto stile, bravura e gusto in un solo brano!
Once In A Lifetime con Nanà Petrossi ci porta in territori nettamente radiofonici e ci lascia crogiolare nei tratti di un ricercato pop/aor a cui fa da contraltare il funk/soul del successivo Surrender, brano in cui Mashanda Favors trova terreno fertile per la sua voce “Black”. Nathan East al basso, volete veramente che aggiungo altro?
Sulle note di To You arriva la bella sorpresa di trovare Jesús Espín, voce storica dei 91 Suite e The Secret, che in duetto con Nanà Petrossi piazza un lento incantevole che gioca sulle loro due voci e sulla bellezza del piano. I’d Rather Be a Fool è jazz / swing / pop perfetto per la voce di St. Paul Peterson ancora una volta in duetto con Nanà!
Chiusura di maniera per un album che fa dell’eccellenza il suo marchio di fabbrica!

Direi che abbiamo detto tutto anche se fidatevi che a parole è difficile far capire il livello di questo lavoro che va assolutamente ascoltato se il genere è nelle vostre corde o se comunque avete voglia di un lavoro in cui tutto è assolutamente di alto livello tra cui master a cura dello Svedese Hans Olsson e mixing di Ronny Lahti (CWF, Dirty Loops, Roxette, Europe) che regalano un suono pulito e raffinato che calza come un vestito sartoriale sulle note dei brani.

Steve Emm – Framework – Recensione

12 Marzo 2024 19 Commenti Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 2024
etichetta: SteelHeart Records

Fermi tutti! Io ho già trovato il disco AOR dell’anno, credetemi sarà difficile fare di meglio. Mi ricordo un po’ di tempo fa quando i Nestor fecero sensazione con il loro esordio e tutti li ad acclamare, ecco questo Framework impacchetta i Nestor, ci mette sopra un fiocco e lo spedisce nel dimenticatoio.

Che Stefano Mainini avesse classe ed inventiva da vendere, si era visto anche nei suoi due precedenti lavori, ma qui signori miei siamo su un livello più alto, qui si rasenta la perfezione e la sublimazione del suono degli eighties. Le melodie super catchy degli anni 80 sono miscelate con gli arrangiamenti e le delizie del Pop più raffinato, in un melange unico ed armonioso, con degli inserti di sax semplicemente deliziosi e funzionali .

L’etichetta e lo stesso Stefano definiscono il disco un insieme di canzoni da ‘colonna sonora’ come usava appunto in film e telefilm dell’epoca e se il sound e l’ambientazione sono sicuramente azzeccati, trovo addirittura la definizione riduttiva, perché se nelle colonne sonore c’è il film a fungere da ancoraggio per il ricordo, qui la canzone è totalmente autosufficiente ed anzi, il film ve lo potete addirittura immaginare voi.

Il track by track non ve lo faccio nemmeno per sogno, non voglio togliervi la soddisfazione di  scoprire questo gioiellino con le vostre orecchie, ma qui non manca davvero nulla, dal brano sincopato e più rock, alla canzone spaccacervello che vi troverete a canticchiare senza saperlo e, naturalmente, nemmeno mancano i lenti d’atmosfera. Io vi cito tre canzoni: Class Of 84, Shining Heart ed Interceptor, poi mi farete sapere se ho ragione…

In sintesi, non vi azzardate ad ignorare questo disco perché non è un nome noto o perché è italiano, in realtà è più americano lui di John Wayne 🙂 , e se la Frontiers lo ha utilizzato diverse volte come songwriter in progetti molto importanti…  ci sarà pure un perché. Quindi stereo a manetta, finestrini aperti, occhiali da sole e, chi li ha, capelli al vento pronti per avventurarsi nelle higway Usa con la vostra personale macchina del tempo.

 

The End Machine – The Quantum Phase – Recensione

07 Marzo 2024 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Infinito per qualità e quantità George Lynch.
A settembre saranno 70 (!!!) candeline, e ancora in quante band, progetti (e conseguente attività live) rimane il mastermind o semplicemente è chiamato a dare il proprio notevole contributo? Non vi era modo più indicato per lodare lo stakanovismo del guitar hero natio dello stato di Washington, chiamato oggi a rispondere delle composizioni presenti in ‘The Quantum Phase’. Coadiuvato dal fido Jeff Pilson, Steve Brown (fratello di Mick), la novità risiede dietro al microfono, con il singer Girish Pradhan (Girish Chronichle) a sostituire lo storico Robert Mason (anche ex Lynch Mob, ex Warrant).

L’impegno e la solerzia emergeranno a getto continuo dall’ugola di Pradhan, a partire dall’opener “Black Hole Extinction”, contraddistinta da riffing serrati ed essenziali.
Rispetto al precedente Mason, suona un’attitudine maggiormente metal dalle linee vocali del singer mantenendo un interessante policromia laddove la struttura del brano lo richiede:
a partire dai suoni più abrasivi come in “Stranger in The Mirror” risaltata da un basso nervoso e tonante, a pezzi che soddisfano maggiormente l’orecchio dei più tradizionalisti come il singolo apripista “Silent Winter”.
“Killer Of The Night” spicca per il suo galoppare in tentazioni Class con un chorus trascinante e maestoso dove la linea vocale di Girish Pradhan apre a un assolo virtuoso del mastermind.
La linea di basso nella successiva “Hell or High Water” risuona indiavolata ed ispirata e conferma una band di professionisti meravigliosamente amalgamata nonostante rappresenti l’esordio per il cantante proveniente da Gangtok (India).
Ennesimo ottimo lavoro di Jeff Pilson dietro al mixer, abilmente capace di massimizzare in termini di qualità qualunque suono, di ciascun membro della band, con una produzione asciutta e risoluta complice una linea di arrangiamenti moderna, lontane da eccessive sovraincisioni (un brano come “Time” contraddistinto da un ottimo lavoro solista risulterebbe ideale da suonare live).
“Burning Man” sembra voler puntare uno sguardo alle prime composizioni della band di Don mediante l’arpeggio apripista salvo poi virare in un mid tempo collaudato nella natura elettroacustica delle sei corde. Pezzi meno ispirati come “Shattered Glass Heart”, “Hunted” e la conclusiva “Into The Blazing Sun” non rovinano l’equilibrio e la sensazione di un lavoro piacevolmente fruibile nella sua interezza, adempiendo le aspettative di partenza.

Nonostante il nostro guitar hero abbia artisticamente offerto il meglio di se decadi fa, e comprensivamente non disponga di alcuna novità che non sia già stata scritta o sottolineata nei suoi progetti più riusciti (Dokken, SweetLynch, Lynch Mob), conferma, ancora, il proprio naturale ed instancabile istinto, encomiabile, con un lavoro che abbraccerà i gusti dei suoi fan devoti sparsi per il globo.

Social Disorder – Time To Rise – Recensione

28 Febbraio 2024 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: pride & joy

L’ennesimo supergruppo assemblato per fare qualcosa di magniloquente, ma forzato? Non mi sento di giudicare così la creatura di Anders La Rönnblom, che vive sicuramente nel passato, ma che perlomeno mi dà l’impressione di scrivere canzoni sanguigne, senza troppi fronzoli, certo, il nome che evoca qualcosa di punk (chi ha detto Social Distortion?) non rende assolutamente l’idea, ma è anche vero che nell’album sono inseriti degli spunti di ribellione pacifica a livello di testi che non si allontanano molto sia dal monicker, che dal titolo dell’album.

Album, che a dire il vero, cresce con gli ascolti, ma che rimane un po’ altalenante, stile “vorrei, ma non posso” per non uscire troppo dai canoni dell’hard rock, eseguito, ci mancherebbe altro dati i nomi coinvolti, molto bene, forse solo l’anima sleaze di Tracii Guns, autore comunque di alcuni assoli pregevoli, viene un po’ sacrificata e il suo apporto è probabilmente quello più asettico, magari perché il classico hard rock settantiano venato di metal melodico, non è la sua “cup of tea”, ma non per questo la band sembra slegata, anzi e nel caso di progetti del genere non è una cosa assolutamente scontata. Dicevo della progressiva crescita dell’album, non tanto agli inizi, ma con il passare delle canzoni, che colpiscono più nel segno quando il disco è già inoltrato, difatti si parte con il classico hard rock della title track che ricorda Rainbow e Royal Hunt, con un piccolo tocco di modernità nelle tastiere, ma decisamente scontato, cosa che si ripropone anche nella successiva ‘High on life’, hard rock dall’incedere imponente, un po’ inconcludente nel ritornello, salvato da un assolo di gusto di Tracii, comincia poi l’ascesa perlomeno a livello di intensità con ‘Going blind’, pezzo più vigoroso, supportato da un riff quasi metal e da un tenebroso hammond, il problema che si comincia a delineare qui e che già aveva fatto capolino nelle due canzoni precedenti, sono le vocals, non tanto nell’estensione un po’ limitata sui toni alti di Thomas Nordin, ma nella costruzione vera e propria delle parti vocali, troppo riempite di cori che vanno a coprire l’immediatezza dei ritornelli, cosa che sparisce all’improvviso con ‘Free your spirit’, ballad ariosa piena di pathos nella quale troviamo un lead singer finalmente a suo agio, con un testo pieno di clichè, ma che esorta a non piegarsi e a mantenersi uniti; l’andamento ondivago prosegue con ‘Forged in fire’, se l’opener era un classico rimando ai Rainbow, qui si sfiora il plagio e dopo la sferzata di freschezza di ‘Free your spirit’, seppur sia un pezzo ben costruito, il già sentito prende il sopravvento e segna un piccolo passo indietro, ‘Stardust in mirrors’ seppur non facendo niente di nuovo, ha un incedere coinvolgente, il problema anche qui, a mio parere, sono i soliti cori inseriti a forza in un brano che ne avrebbe potuto fare tranquillamente a meno o perlomeno gli stessi avrebbero potuto essere meno invasivi, ma resta una canzone decisamente più intrigante di quella precedente, ed ecco che arriva il colpo gobbo con ‘Last call’, lo spirito dei Deep Purple aleggia su questo pezzo, che grazie anche a una interpretazione davvero sentita e permettetemi “coverdaliana” di Thomas, assesta un brano ben riuscito e ispirato, e se la successiva ‘Can’t get you out of my head’ ricorda di nuovo la storica band di Ian Paice, con il ritmato blues che ricorda da vicino ‘Black night’, ‘Dancing in the rain’ sposta decisamente il tiro verso una sentita ed emozionante ballad pianistica durante la quale si capisce che i nostri la sanno lunga e non si perdono in sinfonicismi fuori luogo, così tanto che il pezzo mi sembra fin troppo breve, chiude tutto il riff ipnotico e circolare di ‘See what you believe’, brano che striscia sinuoso verso la fine, ma che anche in questo caso mi lascia un senso di incompiuto, talmente scorre via veloce nei suoi quattro minuti scarsi.

Prima di archiviare questa disamina sul secondo album dei Social Disorder, mi soffermerei sulla fuorviante e sinceramente bruttina copertina, frutto dell’ennesima trovata dell’intelligenza artificiale, immagine creata da un software, quindi fredda, impersonale e come dicevo, decisamente ingannevole e più adatta a un album di power metal, sarebbe bastato chiedere a un buon disegnatore di ascoltare l’album e ricreare la cover in base alle sensazioni generate dall’ascolto, ma tant’è, speriamo solo che questa deriva non diventi una consuetudine…

Ace Frehley – 10.000 Volts – Recensione

28 Febbraio 2024 2 Commenti Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2024
etichetta: MNRK Music Group

Quando si parla di Ace Frehley il recente passato lega spesso il suo nome più che alla sua musica alle numerose diatribe con i suoi ex compagni, comprese le presunte rivendicazioni e possibilità (sempre smentite da Paul e Gene a dire il vero) di rivederlo per un’ultima volta con il trucco da Spaceman sul palco dei KISS.
Ma a conti fatti il buon Ace, in tutto questo tempo ha fatto di necessità virtù, cosicché mentre i KISS non danno alle stampe un album in studio da ben 12 anni (Monster del 2012) lo Spaceman, dal canto suo, è stato capace di crearsi una carriera solista assolutamente proficua, con ben 5 album distribuiti nell’arco degli ultimi dieci anni.
Questo 10.000 Volts arriva a quattro anni di distanza dall’ottimo Spaceman del 2018 e lo stesso Ace lo annunciava mesi prima dell’uscita come il suo miglior album di sempre.
Prendere sul serio Ace, soprattutto nelle affermazioni riguardanti i suoi album non è stato mai il mio forte, lo ammetto, ma in questo caso mi sento di dire che (tolto il suo album solista del 1978) il caro Ace non l’abbia sparata tanto grossa.

Partiamo dalle retrovie. 10.000 Volts esce per MNRK Music Group, è prodotto da Steve Brown dei Trixter (che suona anche il basso), mixato e masterizzato da Bruno Ravel dei Danger Danger con il supporto di Anton Fig. Al primo ascolto è proprio la produzione a colpire. Patinata il giusto, ma sorprendentemente lontana dall’effetto plasticoso a cui le nostre orecchie vengono sempre più spesso sottoposte negli ultimi anni. I suoni sono belli duri e schietti, soltanto la voce viene manipolata quel tanto che serve a renderla omogenea agli standard vocali di Ace.

Si parte con i primi due singoli: L’ottima e orecchiabile “10.000 Volts”, una tipica song alla Ace ultima maniera, e la suadente e fumosa “Walkin’ On The Moon”.
A “Cosmic Heart” che fa un po’ il verso a “She” nel riff che la apre, segue “Cherry Medicine” il terzo singolo dell’album, probabilmente il brano più orecchiabile e incisivo della proposta.
“Back Into My Arms Again” è un mid time dalla melodica decadenza che ricorda nell’interpretazione l’Alice Cooper dei giorni nostri.
Si torna a correre con “Fightin’ for Life”, altra riuscitissima canzone da presa facile.
E’ quindi il turno del perverso rock n’roll di “Blinded” e delle splendide melodice vocali di “Constantly Cute” che anticipano la ballad “Life Of A Stranger”, un altro gran pezzo che si avvicina per interpretazione all’ultimo Ozzy.
A chiudere il disco ci pensano la smuoviculo “Up In The Sky”, un pezzo che ricorda la strafottenza vocale dell’Ace di Dynasty, e la strumentale “Stratosphere”.
In sintesi un album di sano e onesto hard rock old school che strizza l’occhio alla melodia pur restando imbrattato di quel trademark che ha reso celebre Frehley.
Forse non il migliore ma sicuramente uno dei migliori album di Ace.

Arkado – Open Sea – Recensione

22 Febbraio 2024 1 Commento Giulio B.

genere: Melodic Rock
anno: 2024
etichetta: Pride & Joy

Ritornano dopo quattro anni gli ODAKRA, che altro non è il nome della cittadina natia della band che letto al contrario diventa ARKADO.

Il gruppo svedese era uscito con “Never say never” nel 2020 (qui la mia recensione) con idee interessanti e l’uso preponderante di keys nella loro proposta melodic rock. La formula è rimasta invariata anche nel presente “Open sea”, dal bel quadro in copertina, che attinge a piene mani da band come Silent Tiger, Drive At Night, Sapphire Eyes e Strangerland. Thomas ‘Plec’ Johansson ha seguito la masterizzazione.
Il singolo apripista “You Make Me Feel” è azzeccato; canzone dinamica, parte come lento per poi evolversi, con un refrain riuscito. Discorso simile per “I Gave My Heart “, e “Unchain the night” piacevoli all’ascolto. In “Her Mothers Lullaby” si apprezza il bel lavoro chitarra-tastiere, mentre la successiva “Long Way To Go” ha un bell’intro ma un ritornello che sa di già sentito, sensazione simile in “Running Through The Night” e “Rising high”. Il lento “Show Me The Light Again” scorre leggiadro senza però avere un cambio di marcia nel suo incedere.

La seconda uscita discografica degli Arkado ha qualche freccia interessante al suo arco, ma diverse frecce non arrivano al centro del bersaglio; alla lunga l’album risulta poco godibile nella sua durata totale, mancando di canzoni che spostano gli equilibri. A mio avviso, un sensibile passo indietro rispetto alla prima uscita.

Smoking Snakes – Danger Zone – Recensione

21 Febbraio 2024 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Sleaze
anno: 2024
etichetta: Frontiers

Per gli amanti dello sleaze metal, ecco in uscita il nuovo album degli svedesi Smoking Snakes, verace e frenetico come la maggior parte dei prodotti scandinavi aderenti a questo genere.

Partiamo in grande stile con “Angels Calling”, un vero e proprio inno in stile W.A.S.P., sia per trasporto che per timbrica vocale, che mette subito in chiaro quello che la band vuole e pretende dalla propria musica. “Sole Survivors” si presenta con una coralità vocale trasportante e una ritmica cadenzata e gradevole. Ci carichiamo con la poderosa “Run For Your Life”, piacevolissima ma non molto originale, sia per intenzione che per testo, così come la successiva “Lady Luck”, orecchiabile ma nel complesso “già sentita”. Voce graffiante e un certo tipo di ritmica la fanno da padrone: “Excited” è un tributo in tutto e per tutto alla carriera degli W.A.S.P., in questo caso al limite dell’imitazione vera e propria, così come “Restless And Wild” ha qualcosa nell’intenzione e nel testo di molto simile al periodo “Crimson Idol” (addirittura si inizia parlando di “See my face in the mirror”, chiaro richiamo all’album sopracitato). “Sorrow, Death And Pain” prosegue con questo andazzo, citazione o plagio è difficile da capire, ma l’impronta e l’ispirazione sono molto chiare. Globalmente coinvolgente e corale, “There Is No Tomorrow” piace e trascina, fa venire voglia di cantare insieme alla band; allo stesso modo “Who Am I”, tenebrosa e oscura, ma dal gusto interessante. “We Are Alive” non lascia il segno, incastrandosi senza problemi nella trama di questo lavoro. Arriviamo alla conclusione sulle note di “Rocking To The Morning Light”, canonica e decisamente inquadrata nel mood della band, e non ci resta molto da dire su questo album degli Smoking Snakes: influenze ben definite e fin troppo rintracciabili, originalità non propriamente azzeccata, ma tutto sommato un gradevole ascolto, che però troppe volte rimanda ad altre band.