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20 Maggio 2025 1 Commento Lorenzo Pietra
genere: Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers Records
Ecco arrivare il quarto lavoro solista di Don Felder, storica chitarra degli Eagles che penso non abbia bisogno di tante presentazioni…. The Vault (Fifty Years Of Music) è il titolo del disco e arriva a distanza di sei anni da Rock N Roll America e contiene tutti le demo rivisitate, risuonate ma scritte nel corso della carriera da Don Felder dal 1974 al 2023. Il viaggio che questo album ci regala è infatti qualcosa di speciale, sentire le canzoni a così tanta “distanza” l’una dall’altra è un’emozione veramente unica e riesce a mischiare ballad e rock a stelle e strisce.
Ma la vera chicca dell’album è data dalla lunga lista di Big della musica che hanno collaborato con Don Felder. Preparatevi per una serie di infinita tra cui Steve Lukather, Joseph Williams, Greg Phillinganes, David Paich, Brian Tichy, Timothy Drury, Greg Bissonette e tanti altri che elencherò nella tracklist. Come dicevo le canzoni ci fanno viaggiare nel tempo da Move On, del 1974 a I Like The Thing You Do datata 2023, dando vita a un nuovo sound dove si alternano ballad molto intime a schegge rock.
Tracce come l’appena citata Move On che ha il sapore anni ’70 ma rivisitata in chiave più moderna risulta con più mordente. Free At Last la ritengo la canzone più significativa e che riassume il mood dell’album, sempre con un sound cupo, basso in evidenza, voce bassa e sussurrata con un ritornello però fresco ed un testo importante. Hollywood Victim è un mid tempo Aor fino al midollo dove il testo parla dei sogni infranti e del lato meno famoso di Hollywood. Si accelera con l’ottantiana Last At All allegra, veloce, un west coast con tinte rock e un ritornello che si fissa in testa. Altre canzoni da ricordare sono I Like The Things You Do, il ritornello da un senso di dejavu, ma rimane un pezzo rock divertente con un bell’assolo. Si continua con il synth e il basso effettato di All Girls Love To Dance, un pop dove ogni strumento è elettronico e ci riporta in pieni anni 80. La ballad Together Forever è un buon pezzo che non grida al miracolo, dove la batteria accompagna il basso e la chitarra effettata sembra parlare. Heavy Metal è la riedizione del brano originale del 1981 e si conferma uno dei pezzi più hard rock, di certo lontano dal metal di quegli anni. Let Me Down Easy è la seconda ballad, al microfono troviamo Nina Winter che riesce a dare un ulteriore tocco di dolcezza al brano, bello e molto Aor soprattutto nell’esplosione del ritornello. Si chiude con la strumentale Blu Skies, chitarra acustica, archi, violini e cori finali per due minuti di ottima fattura.
IN CONCLUSIONE:
Un buon album che vi offrirà un’ora di musica di qualità, un classic rock rivisitato in chiave moderna, con un autentico sound americano.
18 Maggio 2025 2 Commenti Denis Abello
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Art of Melody Music / Burning Minds Music Group
Non voglio dare adito a dubbi… Amo questa Band, e li amo perchè negli anni hanno sempre dimostrato di meritarsi il mio Amore. Dal primo album partorito nell’ormai lontano 2011 nel segno del più nostalgico melodic rock fino a quel cambio drastico che li sposterà verso un sound nettamente più moderno e originale che regalerà quella perla a titolo Matter of Faith del 2016 consegnandoci così i nuovi e meno derivativi Soul Seller e consegnandoci inoltre una delle più belle sorprese degli ultimi anni, la voce di Eric Concas.
Un lungo salto in avanti, spezzato solo dall’uscita del brano Diamonds Rain nel 2021 (che potete trovare nella compilation We Still Rock… the World), ci fa balzare dal 2016 al 2025 e a questo Fight Against Time e le mie orecchie ammetto fremono per ascoltarlo.
Così metto delicatamente questo ultimo lavoro della band Torinese nel lettore e parto con l’ascolto e quando la musica finisce mi ritrovo con solo una certezza in testa… “Ecco, questo è il modo giusto di far rivivere il melodic hard rock oggi”.
A vantaggio dei lettori e per chi non conosce i Soul Seller è giusto però fare un passo indietro.
Nati a fine anni ’90 a Torino per volere dei fratelli Mike e Dave Zublena, i Soul Seller affondano da subito le radici nel rock melodico e nell’AOR più puro, con uno stile che guarda prepotentemente agli anni d’oro del genere e che da alla band un’identità solida in puro stile ’80s con l’album Back to Life (2011). 2016, la band spezza con il passato e nel frattempo lo scettro di frontman viene ceduto dal bravo Michael Carrata all’altrettanto bravo Eric Concas con il quale la band darà alle stampe un album maturo, dal taglio più moderno e orginale a titolo Matter of Faith (2016). Poi, una lunga pausa. Nove anni di silenzio discografico quasi assoluto, durante i quali però i membri hanno portato avanti esperienze personali e professionali differenti… tanto che ad un certo punto c’è stato da chiedersi se i Soul Seller sarebbero mai ritornati.
La risposta è arrivata ora, nel 2025, dove la band si ripresenta con una formazione compatta e affiatata che vede Eric Concas alla voce, Dale Sanders e Dave Zublena alle chitarre, Alessandro “Wallino” Rimoldi alle tastiere, Stefania Sarre al basso e Italo Graziana alla batteria.
Con questa formazione da vita ad un disco che è molto più di un ritorno: è una dichiarazione d’identità!
One Wasted Paradise, la traccia di apertura, fa scattare una partenza col botto: riff incisivo, tastiere luminose e un ritornello che ti si pianta in testa. È un perfetto brano d’apertura, energico e immediato, in cui si respira l’aria del miglior hard rock melodico, ma con un suono pulito e attuale. Da ascoltare a volume alto: è un inno rock che funziona sia in cuffia che probabilmente su un palco.
The Sound of The Last Survivor è uno dei brani più “cinematografici” del disco. Il titolo è evocativo, e la musica è all’altezza: una fusione riuscita tra epica e melodia, con una costruzione che cresce poco a poco fino a un ritornello maestoso. L’arrangiamento è ricco, stratificato, ma mai eccessivo. Sembra una colonna sonora di resilienza, come se raccontasse la storia di chi ha superato tutto e ora guarda avanti. Uno dei picchi emotivi dell’album.
La title track Fight Against Time è un inno di determinazione. Ha ritmo, grinta, un groove solido e una melodia accattivante. Qui i Soul Seller ci ricordano che il tempo è il nostro avversario più grande, ma anche il motore che ci spinge a vivere con più forza. Notevole il solo di chitarra e sempre splendido ed efficace il cantato di Eric Concas!
Autumn Call è un brano introspettivo, dolce e malinconico. Le chitarre leggere, il canto misurato; tutto evoca il passaggio del tempo, l’autunno dell’anima. È una semi ballata che colpisce per sincerità e delicatezza.
City of Dragons è uno dei brani più moderni dell’album. Sonorità urbane e leggere venature elettroniche si fondono con il rock melodico classico in un mix convincente. Il risultato è affascinante: potente ma raffinato, ideale per chi ama il melodic rock contaminato da elementi contemporanei.
I Can’t Stand This Heartbeat Anymore è una intensa fucilata al cuore, dal taglio più tradizionale ma con arrangiamenti curati e un pathos che cresce fino a esplodere nel ritornello. Si sente l’influenza delle grandi band anni ’80, ma con una sensibilità nettamente più moderna.
Angel Of Desire è frizzante, funky, quasi scanzonata. Un cambio di tono che arriva al momento giusto: groove irresistibile, cori catchy e una sezione ritmica che ti fa muovere la testa. È quel brano che mette il sorriso anche nella giornata più grigia.
Fallen Kingdom è pura sensibilità epica, drammatica e potente. Le tastiere sinfoniche, le chitarre solenni e il testo evocativo costruiscono un’atmosfera malinconica ed intima raccontando con la voce unica di Eric Concas la fine di un’illusione. Tra i brani più cinematografici e stratificati del disco.
Silent War è uno dei pezzi più maturi e complessi del lotto proposto. Il brano alterna momenti di tensione e distensione con grande equilibrio. Linee vocali intense, chitarre taglienti e un crescendo emozionante. Feel Alive Again, riff diretti, batteria pulsante e un messaggio positivo che arriva forte e chiaro nel suo perfetto ritornello melodico.
Falling Stars è ua semi ballata elegante e malinconica, che parla di sogni sfumati e desideri perduti. Voce e melodia si fondono in modo impeccabile. C’è un gusto melodico raffinato che richiama l’AOR più sentimentale ma senza mai scadere nel già sentito.
Alice è un brano inaspettato, e per questo affascinante. Teatrale e con un intreccio sonoro molto suggestivo.
The Black Raven ha un taglio quasi progressive, merito anche dell’uso sapiente dell’hammond. Dark e intenso è la chiusura perfetta per un album che ha saputo spaziare tra forza e introspezione.
Fight Against Time è un disco che guarda indietro con rispetto, ma cammina deciso verso il presente. È pensato per chi ha amato il rock melodico degli anni d’oro, ma non si accontenta di copie sbiadite. Per chi vuole sentire il cuore degli anni ’80, ma con un sound che suoni bene anche oggi.
In sintesi, per chi è crescito tra Cd, vecchi vinili e che ora non disdegna file MP3 sparsi qua e la sicuramente si ritroverà in questo disco. Perché ci ricorda da dove veniamo, ma ci fa anche capire che certe emozioni, se trattate con sincerità e gusto, sanno ancora evolversi.
Se vi piace il rock che sa emozionare e sorprendere, Fight Against Time merita assolutamente il vostro tempo.
15 Maggio 2025 48 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
Possono esserci diversi modi per approcciarsi a un disco del genere, ed uno di questi potrebbe essere quello di adottare un atteggiamento democristiano, ovvero limitarsi ai discorsi di circostanza, lodare la storia e il blasone del gruppo, rievocare i bei tempi andati ed evidenziare i tentativi (più o meno riusciti) di emulare un sound che, ai suoi tempi, ci faceva letteralmente impazzire di gioia; ecco, vi do una notizia: non sono mai stato molto democristiano, e quindi mi appresto a scrivere questa recensione in tutt’altro modo — come, del resto, avevo già fatto con il precedente Shifting Time (QUI la recensione) — ma con la consapevolezza che allora non avevo, di non poter essere più deluso, e questo probabilmente mi renderà ancora più cinico, cosa di cui mi scuso in anticipo con chi considera questo un bel disco, anche perché, alla fine, la mia resta pur sempre un’opinione personale che, nel migliore dei casi, potrà servire come spunto di riflessione e, nel peggiore, potrà essere ignorata senza troppi problemi.
Quali sono dunque i problemi che affliggono questo disco e mi hanno portato a dare un voto del genere? Beh mettetevi comodi perché l’elenco non è proprio breve.
Il primo punto che salta all’orecchio è che questo sembra più un disco dei Perfect Plan che uno dei Giant, e spiego subito perché. È evidente che la performance vocale di Hilli caratterizzi il disco, come accadeva con Dan Huff nei primi lavori dei Giant, ma c’è una differenza enorme nel modo di interpretare le canzoni. La tendenza del vocalist svedese a urlare a squarciagola (e pare pure stia cercando di trattenersi) snatura molto lo spirito dei Giant originali.
Secondo punto: non trovo coerente il songwriting tra le tracce scritte da Huff e quelle in cui non è più protagonista. Si tratta di due stili di scrittura abbastanza differenti, che possono piacere o meno, ma che si percepiscono chiaramente come non completamente amalgamabili.
Terzo punto: ormai le canzoni riciclate dalle session dei precedenti dischi e scritte da Huff cominciano ad essere davvero tante, e se erano state scartate, un motivo ci sarà stato; in sostanza, anche rispetto al disco precedente, la qualità delle canzoni è decisamente inferiore, e la cosa mi è saltata subito all’orecchio, beh, almeno al mio; se per altri non sarà così, tanto meglio per loro.
Questo è il quadro che vi traccio dopo aver ascoltato il disco sei volte, e ascoltandolo anche adesso mentre scrivo queste righe le impressioni restano sempre le stesse, quindi è un disco orribile? No, assolutamente no, qualche canzone che si salva c’è, ma in numero ancora inferiore rispetto al già non eccelso predecessore, e francamente, da certi nomi, io mi aspetto di più.
Per quanto riguarda le canzoni, che volete che vi dica… l’opener ‘It’s Not Right’ non è una brutta canzone, se fosse in un disco dei Perfect Plan sarebbe sicuramente più nel suo contesto naturale. ‘Night to Remember’ gira su un ritornello banalotto e scontato, e si salva solo grazie a un buon guitar solo. In ‘Beggars Can’t Be Choosers’ si va sull’autocitazione pesante, senza peraltro nemmeno avvicinarsi a ‘Time to Burn’, che chiaramente ha fatto da ispirazione. ‘Time to Call It Love’ invece mi piace, perché ha il sapore di Mark Spiro, anche se con il resto del disco francamente c’entra poco, ma intanto mettiamola in saccoccia. In ‘Holdin’ On for Dear Life’ si ode un sentore dei Giant, ma la differenza interpretativa tra i due vocalist è, per usare un eufemismo, EVIDENTE. ‘Paradise Found’ è una ballad gradevole, ma impallidisce di fronte alle gemme del passato a nome Giant… e basta dai, con l’analisi delle canzoni credo di avervi già tediato abbastanza, anche se mi sono limitato a segnalare quelle che, a mio giudizio, sono le “migliori”.
In conclusione, per me questo disco rappresenta cinquanta minuti trascorsi tra noia e rimpianto, e ahimè ha esacerbato i difetti del precedente diminuendone pure i pregi, ma siccome ognuno di noi si porta dietro i propri bias cognitivi, voi ascoltatelo, poi traetene le vostre conclusioni.
15 Maggio 2025 0 Commenti Alberto Rozza
genere: Rock/Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
In uscita l’album di debutto dei The Speaker Wars, band fondata e capitanata dall’ex batterista di Tom Petty And The Heartbreakers Stan Lynch, che dopo anni di militanza con il grandissimo artista statunitense e qualche produzione, si cimenta in questa nuova avventura.
Partiamo subito con il primo singolo estratto dal disco, ovvero “You Make Every Lie Come True”, dalle sonorità molto vicine a quelle di Tom Petty, sia come struttura del brano che come sound vero e proprio: complessivamente, un salto nel passato. Passiamo alla successiva “It Ain’t Easy”, più malinconica, godibilissima, un passo avanti a livello di piacevolezza. “Taste Of Heaven” presenta richiami e riferimenti a tutto l’universo rock, risultando gradevole e tutto sommato soddisfacente. Continuiamo sullo stesso genere e sonorità delle canzoni precedenti con l’accorata “Never Ready To Go”, corale, musicalmente precisa e dal ritornello orecchiabile. Il suono del pianoforte ci introduce nella lenta e calda “The Forgiveness Tree”, un lentone tradizionale, per gli amanti del genere e non solo. Proseguiamo con “When The Moon Cries Wolves”, blueseggiante, bella tosta e “rude”, che esce un po’ dal mood generale dell’album: una ventata di freschezza. Trader’s South si presenta come un buon brano folk rock, purtroppo non molto originale, proprio come la successiva Leave Him, che risulta piuttosto blanda e sinceramente un po’ soporifera. Proseguendo sulla stessa onda slow, troviamo Sit With My Soul, intensa, ricca di significato e profondamente southern nell’atmosfera e nell’intenzione. Infine, I Wish You Peace chiude l’album con un messaggio chiaro e importante, un tema attuale che fa da congedo a un disco dalle sonorità leggere ma con un’essenza impegnata. Nel complesso, non molto originale nella sua struttura, ma comunque godibile.
09 Maggio 2025 3 Commenti Denis Abello
genere: Pop Rock - Westcoast - AOR
anno: 2025
etichetta: Indipendente
4GOT10, per chi ci segue assiduamente sa già di cosa stiamo parlando (qui l’intervista a Luca “Vicio” Vicini). Per tutti gli altri, prima di addentrarci in questo album facciamo un piccolo recap. La band torinese nasce nel 1989 con il nome Forgotten Sons, fondata da Luca “Vicio” Vicini (oggi noto anche come bassista dei Subsonica), Alberto “Vacchio” Vacchiotti (noto per la sua militanza nei Fratelli di Soledad) e Mauro Ala alla voce. Con un sound nettamente più heavy dell’attuale che se la giocava tra il metal, la new wave e l’hard rock provano a dire la loro nell’allora panorama Italiano parecchio underground del genere. Dopo i primi anni una lunga pausa in cui le carriere dei due protagonisti principali (Vicio e Vacchiotti) prendono strade nettamente diverse. Questo fino ad oggi.
La band si riforma attorno ai due membri storici, Vicio e Vacchio, e prende il nome di 4GOT10 accogliendo a bordo Marco “Mark” Previato alla voce (conosciuto anche nell’underground torinese per il progetto Proibito), Elena “Ele” Crolle alle tastiere, Mattia “Matt” Barbieri alla batteria e Iacopo “Ia” Arrobio alla chitarra. Andiamo quindi a vedere cosa ci aspetta in questo nuovo viaggio a firma 4GOT10.
Partiamo subito dicendo che chi ascolterà questo album (… e come potete vedere dal voto, è un ascolto più che consigliato) si troverà di fronte un lavoro “particolare” che sicuramente brilla per una cura che spesso latita nelle uscite odierne di questo genere. Esempio lampante ne è già la sola copertina che nella sua apparente semplicità nasconde significati profondi, infatti i simboli raffigurati, uno per ogni membro dei 4GOT10, sono esagrammi provenienti dall’I Ching, o Libro dei Mutamenti, considerato uno dei cinque manostritti classici del confucianesimo!
Passiamo però al vero cuore di questra recensione e per quanto io non sia un amante delle intro ammetto che in questo caso l’uso sapiente delle tastiere ed un’atmosfera eterea riescono a fare da perfetta entrata per il primo pezzo, Back to Innocence. Un bel pezzo pop / rock sorretto da un bellissimo gioco di chitarre. Si gioca ancora in territori soft rock con la successiva I’m living in Love dal groove irresistibile dettato dalla sezione ritmica che vede Vicio questa volta giocare in “casa” con il supporto di Ninja (Enrico Matta, batterista dei Subsonica).
For This Moment è la prima hit dell’album, scelta non a caso come singolo. Torna alla mente l’album dei Levara di Trev Lukather (figlio di Steve, chitarrista dei Toto) e quel suo mix perfetto di “moderno retrò sound”. Splendido il tocco di chitarra e bellissima interpretazione vocale di Marco Previato.
Ancora groove per la successiva Change Your Soul con una perfetta sezione ritmica a dettare l’incedere del brano. Do The Right Thing suona fresca, con un taglio rock radiofonico e ancora una volta sono gli arrangiamenti pop ma sofisticati a innalzare il brano di un buon due spanne rispetto alla norma attuale.
Falling è un bel viaggio in cui il basso sorregge un brano perfetto che gioca tra inserti suggestivi di chitarra. Anche qui assolutamente promosso! A Mess Around Your Heart parte con un incedere AOR per poi aggiungere un tocco funky e impossibile non ripensare ai Police ascoltando il ritornello.
When The Sun Goes Down è invece il brano più AOR del lotto proposto ma non per questo meno ricercato rispetto a quanto fin’ora ascoltato. Solare e vibrante scorre veloce nei nostri padiglioni auricolari. Rollercoaster piazza un rock leggero e radiofonico anni’80. Everybody Loves Everybody Hates è forse il pezzo più Pop oriented. Livello nettamente alto anche in questo caso con un’ottima prova dietro al microfono di Mark Previato. Elegantissimo e raffinato One Second Change ci accompagna alla chiusura sulle note di Don’t Stop che sembra seguire in parte l’attuale filone del sinth wave revival.
Non ci resta quindi che tirare una linea e fare un bilancio su questo ritorno dei 4GOT10. Bello!
Non servirebbe altro, ma è giusto spendere due parole in più per fare un bilancio chiaro ed esaustivo. Aspettavi un album molto soft in cui le chitarre sono pennelli che riempiono di colore un sound che strizza l’occhio al Pop o al Rock più raffinato. Tanta cura in ogni dettaglio, con una produzione di alto livello ed una bravura fuori discussione dei componenti della band. Il risultato merita sicuramente più di un ascolto per cogliere tutte le varie sfumature che caratterizzano questo ritorno a nome 4GOT10.
07 Maggio 2025 2 Commenti Paolo Paganini
genere: Melodic Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers
È primavera, tempo di ripartire e di fare pulizia in cantina nella speranza di trovare qualcosa di dimenticato sotto la polvere che valga la pena di essere riutilizzato anziché buttato nel bidone del secco. E’ questo quello che devono aver pensato Robin Eriksson e soci quando hanno ritrovato questi sei “scarti” dei lavori precedenti. E’ la band stessa a definirli così ed in effetti ad un primo ascolto è esattamente la sensazione che si percepisce. Facendo proprio il detto che “del maiale non si butta via niente” ecco arrivare in pasti ai fan più sfegatati questo EP di venti minuti ricolmo del tipico Degreed sound che nulla toglie o aggiunge a quanto pubblicato dalla band in questi vent’anni di carriera. Definirlo “materiale di risulta” è comunque piuttosto improprio nonché riduttivo in quanto alcune delle tracce pubblicate (se non tutte) farebbero la fortuna di tanti musicisti sparsi sul globo terraqueo. If It Wasn’t For Me è una potenziale hit single che non avrebbe sfigurato in nessuno degli album precedenti così come la dirompente Good Enough che contiene in se tutti gli elementi tipici della formula vincente creata dai Degreed; brani quasi metal infarciti di tastieroni che esplodono in un ritornello ipermelodico da cantare a squarciagola. Non altrettanto accattivanti si rivelano sia Love Your Enemy che Get Up! mentre Wildchild (tributo all’amico Alexi Laiho – Children Of Bodom) centra perfettamente l’obbiettivo. La vera perla è rappresentata dalla conclusiva power ballad Hard To Be Human trascinante e coinvolgente come solo il combo di Stoccolma sa realizzare. Una release destinata perlopiù a coloro che (come il sottoscritto) seguono la band dagli esordi, in attesa di ascoltare del nuovo materiale in cui magari introdurre qualche elemento di discontinuità col passato.
06 Maggio 2025 0 Commenti Francesco Donato
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Mighty Music
È fuori da un paio di giorni il nuovo album degli sleaze rockers americani Kickin Valentina, band sanguigna e priva di qualsiasi forma di compromesso in merito al loro modo di intendere il rock n’roll, caratteristica che se da un lato li lega profondamente a cliché old school abbastanza tipici, dall’altro regala un sound ben rodato, frutto di una genuina passione.
Anticipato dal video singolo “The Gotaways”, l’album “Raw Trax, B-Sides and Bootlegs” già dal titolo ci anticipa la natura di questo nuovo disco.
Si tratta in effetti di una raccolta di vario materiale più che di un nuovo album, e a prescindere dall’effettivo appeal che può avere un lavoro del genere (se non sei i Def Leppard o i Guns n’Roses insomma…) ci regala una band in ottima forma.
“Raw Trax, B-Sides and Bootlegs” esce per Mighty Music/Target Group ad un anno di distanza da “Star Spangled Fist Fight”, album che io stesso ho recensito positivamente su queste pagine, ed è prodotto sempre da Andy Reilly (UFO, Bruce Dickinson, Cradle of Filth).
È proprio dalle sessioni del precedente album che prende forma l’idea di utilizzare le tracce rimaste escluse per dar forma a questo progetto.
I primi tre pezzi che compongono questa raccolta sono inediti che ci trascinano nuovamente nel mood del precedente album, soprattutto l’opener “Blame it on Rock n’ Roll” brano in cui la band si espone al meglio delle sue caratteristiche: riff roccioso e la voce di D.K. Revelle che si snoda fumosa e sleazy.
A seguire il singolo “The Gotaways”, la traccia a mio parere più riuscita del disco con un potenziale melodico non indifferente.
Il trittico degli inediti viene chiuso dall’ottima “Wild Ones”.
Si passa dunque a “War” e “End of the Road” due tracce in versione demo (la prima doveva essere un papabile brano per il precedente “Star Spangled Fist Fight”) che rendono ancora più piacevolmente grezzo il sound della band di Atlanta.
A completare il disco le versioni dal vivo (registrate durante il Bang Your Head Festival in Germania) di “Sweat” e “Easy Rider”, pezzi tra i più funzionali in chiave live, dimensione nella quale certamente i Kickin’ Valentina si esprimono al massimo della loro passione.
Presente anche la registrazione live lockdown (come riportato in didascalia) di “Freakshow”.
In conclusione, un album destinato soprattutto ai fans più sfegatati della band americana e ai completisti, ma anche a chi vuole trascorrere una sana mezzora di puro rock n’roll alla vecchia maniera.
06 Maggio 2025 0 Commenti Paolo Paganini
genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Lions Pride
Dalle fredde lande norvegesi arrivano gli Outlasted band nata nel 2010 per volontà del chitarrista Terje Fløyli e del tastierista Odd-Børge Hansen. Il debutto assoluto risale al 2016 con l’album Into The Night accolto positivamente dalla critica internazionale a cui fece seguito nel 2019 Waiting for Daybreak penalizzato purtroppo da un cambio di proprietà dell’etichetta distributrice che limitò a solo 500 le copie fisiche del cd diventate ad oggi ormai introvabili. I ragazzi non si sono comunque persi d’animo e passando attraverso vari cambi di formazione e forti di un nuovo contratto con Lions Pride arrivano ora finalmente alla pubblicazione del loro terzo lavoro. Diversamente da quanto si possa pensare la loro proposta musicale non ha nulla a che vedere col nuovo movimento scandinavo che sta invadendo l’attuale mercato discografico dell’hard rock. Il genere proposto infatti è un elegante e curato AOR a tinte Weastcostiane fatto di brani orecchiabilissimi ed immediatamente assimilabili. Schiacciando il tasto play del vostro lettore avrete la sensazione di essere trasportati indietro nel tempo e di essere cullati e protetti da sonorità calde e avvolgenti, eleganti e mai aggressive. L’armoniosa e spensierata Weight Of The World ci apre le porte dell’universo Outlasted facendoci capire chiaramente le coordinate sulle quali si muoverà l’intero album. Save Your Love e Tonight sono AOR puro ed incontaminato sulle scia dei King Of Hearts di Tommy Funderburk mentre Afraid Of Love e Monkey On My Back mostrano il lato più rockeggiante della band. Degne di nota anche la ballad Think Of You e la conclusiva Coming Home. Dal punto di vista compositivo, nulla da eccepire; tuttavia, le note dolenti che penalizzano fortemente il voto finale sono due: la voce di Wikran, che a mio parere non performa all’altezza, e una produzione eccessivamente semplice e scolastica, che finisce per frenare un insieme di brani dal buon potenziale radiofonico.
Serve decisamente un cambio di passo, più energia, chitarre in evidenza e ahimè un nuovo approccio vocale per far sì che questo progetto possa finalmente spiccare il volo.
05 Maggio 2025 6 Commenti Luke Bosio
genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Escape
Come ben sapete, ci sono alcuni dischi che per determinate generazioni hanno lasciato un segno indelebile del loro passaggio.
Al 90% questi vengono chiamati unanimemente ”dischi importanti o dischi fondamentali” e dato che siamo in tema di percentuali diamo un buon 85% di possibilità che questi album siano usciti nella decade settantiana e ovviamente stessa percentuale va attribuita a quelli prodotti nella decade successiva, quella degli anni ottanta. Indipendentemente dall’età anagrafica dell’ascoltare (medio) interessato alla musica Rock funziona proprio in questo modo. Poi, ci sono anche dischi tra quelli importanti che hanno dato il via a provetti /improvvisati musicisti a cimentarsi con i loro strumenti spinti ad emulare con la chitarra K.K. Downing (Judas Priest) chi Tony Iommi (Black Sabbath) o Steve Harris (Iron Maiden) per lo strumento a quattro corde. Per giungere poi a emuli di James Hetfield (Metallica) o John Petrucci (Dream Theater). Questi sono gli ultimi idoli luminari ad aver ispirato una generazione.
Tornando a noi, per prima cosa c’è da mettere in evidenza come quello dei SIGN OF THE WOLF è un progetto nato da un’idea di Bruce Mee (fondatore della rivista Fireworks) e Khalil Turk (boss della casa discografica inglese Escape Music) quindi non si tratta affatto di una nuova band con chissà quali mire artistico/commerciali e bla, bla, bla….quindi, ciò che mi preme di fare subito è porre alla vostra attenzione chi ha suonato/collaborato a questo progetto, ovvero:
Andrew Freeman: voce (Last In Line)
Doug Aldrich: chitarra solista (Dead Daisies/Whitesnake/Dio/Hurricane)
Fredrik Folkare: chitarra solista/ritmica e basso (Unleashed/Eclipse)
Steve Morris: chitarra (Heartland/Lonerider/Ian Gillan Band)
Steve Mann: chitarra (Lionheart/MSG/Lonerider/OuseyMann)
Vinny Appice: batteria (Black Sabbath/Dio/LastIn Line)
Josh Devine: batteria (One Direction/Lavera/Turkish Delight)
Johan Kullberg: batteria (Hammerfall)
Chuck Wright: basso (Quiet Riot/Giuffria)
Mark Boals: basso e backing vocals
Tony Carey: testiere (Rainbow)
Mark Mangold: tastiere (Touch/Drive She Said)
Bisogna inoltre rimarcare il fatto che questo è un album difficile da comprendere e da ascoltare al giorno d’oggi per chi non conosce (leggi ama) la storia dell’Hard Rock. Quello dei Sigh of the Wolf è il perfetto anello di congiunzione tra passato e presente, un episodio isolato posto a cerniera tra i fumogeni Seventies e i fluorescenti Eighties. Nove tracce meravigliose cucite attorno alle classiche partiture del genere, con eccellenti ricami solisti di Doug Aldritch – qui davvero al top della forma – e un ordito di Hammond di Tony Carey che si intersecano alla perfezione ricreando (in alcuni epidodi qui presenti) la magia dei Rainbow di ”Rising”. Senza tralasciare l’enorme lavoro di Andrew Freeman dietro al microfono, decisamente più ispirato e sul pezzo qui che non sui tre dischi pubblicati sinora con Last In Line.
Come dice l’accattivanete biografia che accompagna il materiale promozionale messo a nostra disposizione, trattasi di un disco volutamente di omaggio alla musica di R.J. Dio, quindi non vale puntare subito il dito e con saccenza inopportuna dire: ”Eh però, questa qui ricorda ”Tarot Woman” … ”Eh ma, questo riffone è identico a ”Stand Up And Shout” (‘’Arbeit Macht Frei’’ in effetti è la modernizzazione riuscita di tale brano). Certo che è così! L’hanno fatto di proposito ed riuscito dannatamente bene. Questo disco, a cui non si può dare meno che il massimo dei voti, ci dice due cose fondamentali: la prima è che l’Hard Rock di classe è ormai tramontato decine di anni fa. La seconda ci fa capire quanto ampia sia la distanza tra tra ciò che era inteso un tempo come ”MUSICA HARD ROCK” e la pochezza delle proposte di riferimento odierne. Sono del fermo parere che gli amanti di bands come Whitesnake, Black Sabbath (per lo più quelli con Tony Martin alla voce) e Rainbow, difficilmente troveranno ancora qualcosa di così stimolante negli anni a venire. Sign of the Wolf è l’eccezione alla regola ed è stato scritto da gentaglia che in passato ha creato e fatto grandi proprio queste sonorità. Come detto è un disco per l’80% orientato sul periodo Rainbow di Ronnie James Dio ma non solo, ci sono alcuni episodi che esulano da questa categorizzane e che si abbeverano alla fonte del Melodic Rock inglese (non AOR) riconducibile al sound dei Magnum e per proprietà transitiva a quello dei Ten di Gary Hughes. Due sono i brani esplicativi di quanto detto poc’anzi: il primo risulta essere l’epica opener di 7 minuti dal titolo “The Last Unicorn’’, assoluta magnificenza Melodic Hard Rock 70iana e la conclusiva composizione che porta in seno oltre al nome dell’intero progetto, altrettanti 7 minuti di progressioni Sabbathiane in pieno periodo 1987/90 il riferimento ovviamente va alla triade “The Eternal Idol/Headless Cross/Tyr’’. Nel bel mezzo ci sono altri episodi pregevoli come la tellurica “Silent Killer’’, con il suo incedere avvolgente rimembrante le prime cose dei Pretty Maids, ritornello clamoroso incluso! Poi “Rainbow’s End’’ brano dotato di sognanti melodie tipicamente British alla Ten e l’ennesimo ritornello ficcante. Il sound dei Rainbow si fa risentire prepotentemente su ‘’Rage of Angels’’, l’ispirazione è quella di ‘’Rising’’, la composizione è cruda e nervosa, con una produzione che non smussa ne addolcisce, ma mette in evidenza fulmini potenti e asprezze autorevoli tipiche della nostra amata musica. ”Murder At Midnight” è scattante e piaciona. Una composizione tipica di quel Metal da classifica simil ”Hungry for Heaven” / ”Rock’n’ Roll Children” dal (troppo) bistrattato ”Sacred Heart” album del 1985 della band di Ronnie James Dio, figlio anche lui di un’epoca lontana ma che ricordiamo sempre volentieri.
Insomma, siamo al cospetto di un lavoro minuziosamente composto, arrangiato ancor meglio e curato in ogni singolo dettaglio. Un disco dedicato a tutti gli amanti della musica Hard Rock di classe, nessuno escluso e Ronnie James Dio ascoltando anche lui questo disco ci sta rivolgendo un bel sorriso e il suo pollice ovviamente rivolto verso l’alto in segno di totale approvazione. Hard Rock! Scusate il voto di 100/100 , mu questa è la musica con cui sono cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, musica che mi tocca ancora nel profondo l’anima. So che ci saranno lamentele sul fatto che questo materiale non sia sufficientemente all’altezza delle band di cui sopra, ma questo non è un progetto per fare meglio di quei dischi (IMPOSSIBILE), questo è un album che dice ancora quanto per un determinato pubblico manchino i vecchi gloriosi tempi, quando le grandi band facevano album strepitosi. Tutti gli artisti coinvolti in questo progetto volevamo provare almeno a fare qualcosa di vicino ai loro padri ispiratori. Vecchia scuola, e ne sono fiero! Sarebbe da appiccicare sul davanti del disco l’etichetta “+50 only’’ dato il target d’età verso cui è indirizzato è decisamente quello!
Ultima postilla personale a concludere questa lunga recensione va ai possibili dati di vendita nonché di fruizione di questo prodotto nel 2025 dato che saranno di poco superiori alle 1000 copie, temo. Serenamente posso assicurare che se il disco SIGN OF THE WOLF fosse uscito a cavallo tra il 1984 e il 1986 avrebbe facilmente venduto 2 milioni di copie. Ma si sa, quelli erano altri tempi e c’erano altri ascoltatori, ma il rammarico resta.
01 Maggio 2025 9 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog. Rock
anno: 2025
etichetta: Apollon
Quando, spulciando tra i promo, mi imbatto in queste delizie super underground, ricordo perché ho iniziato a scrivere su questo sito: per continuare a vivere l’emozione della scoperta.
Avvolto nel più assoluto mistero, questo disco mi ha conquistato fin dalle prime note. Prima di parlarvene, vi racconto brevemente chi sono i Moonsoon, attingendo direttamente dal loro sito. Il progetto nasce dalla visione di Helge Nyheim, batterista e cantante dalla lunga carriera musicale, e di Daniel Hauge, produttore e compositore. Helge ha collaborato con numerosi artisti di generi diversi, affinando il suo stile nel corso degli anni, mentre Daniel ha contribuito alla direzione sonora della band, curando produzione, mix e mastering, oltre a lavorare con altri artisti dell’etichetta Apollon Records. Il disco vede anche la partecipazione di musicisti di grande rilievo, tra cui Ian Ritchie, sassofonista noto per il suo lavoro con Roger Waters (Pink Floyd), Kjetil Møster, figura chiave del progressive e del jazz norvegese, e Bjarte Aasmul, chitarrista il cui stile raffinato ha arricchito il sound della band.
Descrivere questo album a parole è un compito particolarmente arduo, soprattutto trattandosi di un disco prog. Se dovessi farlo, direi che mescola atmosfere alla Steven Wilson, con alcuni passaggi che evocano le suggestioni distopiche degli Echolyn, il tutto sorretto da una struttura che richiama i Pink Floyd di ‘Dark Side of the Moon’. E ora so di avervi incuriosito parecchio. Quindi, se vorrete dare un ascolto alla sognante ‘Virtual Avenue’, al viaggio sonoro di ‘Rays of Cosmic Embers’ e alla dissonante ‘Crack Our Codes’, ne rimarrete deliziati. La suite ‘The Nasty Man’ è un piccolo gioiello che mescola perfettamente certe ossessività orchestrali alla Echolyn con le atmosfere tipiche dei viaggi floydiani. ‘Ones and Zeroes’, ricca di inserti di sax, è un altro tributo ai Pink Floyd e, se la ascolterete, non farete fatica a capirne il perché. Chiude questo concept la delicata title track.
Un messaggio per chi segue le mie divagazioni prog sul sito: fatevi un favore e recuperate questo disco. A me ha illuminato, e potrebbe fare lo stesso con voi.