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15 Gennaio 2021 7 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard rock
anno: 1988
etichetta:
ristampe:
Mi rendo benissimo conto che parlare di questo disco potrebbe risultare superfluo, vista la fama e la diffusione che ha avuto, ma in una rubrica dei classici , direi che è un obbligo morale.
La mia storia con questo disco comincia un annetto dopo la sua uscita, ovvero fine giugno 1989, scuole finite, stereo nuovo appena regalato e via in giro per il mondo ad acquistare dischi. Questo appunto fu il mio quarto vinile acquistato, ed il ricordo dello scartabellare tra gli scaffali di un universo quasi del tutto inesplorato , è ancora vivido ed emozionale. Il fascino di rigirare in mano le copertine, guardare e riguardare ed infine le corse a casa per svelare il tesoro appena comprato, sensazioni che oggi giorno sono sconosciute ai giovani fruitori digitali, e francamente, mi dispiace per loro.
Cinderella uno dei pochi gruppi glam ( almeno il primo disco in parte lo è ) che anche i thrasher incalliti evitavano di denigrare, un gruppo che ha saputo evolversi e con soli quattro dischi ha segnato un’ era, anche grazie alla partecipazione al Moscow Music Peace Festival, spettacolo che apri la cortina di ferro alla musica rock alla fine dell’epoca sovietica, e che li ha fatti conoscere a tutto il mondo.
Long Cold Winter, il disco perfetto di passaggio tra l’hard rock con richiami glamour dell’ esordio e il blues sempre più presente e viscerale che ne marcherà il prosieguo della carriera, un disco che già dalla copertina , che più semplice non si può, già ti attira ( beh l’abbinamento di viola e bianco su un fiorentino hanno sempre un certo appeal ) .
Una partenza hard blues che ti fa drizzare i peletti sulle braccia con l’intro Bad Seamstess Blues che lancia la graffiante Fallin’ Apart at the seems, seguita dalla catchy gypsy Road e da una delle 10 ballad più strafiche ever, ovvero Don’t know What you Got ( Till It’s Gone). Si scorre così tra energia, melodia e affondi blues un po’ per tutta la durata dell’opera, il tutto sempre trainato dalla voce quasi unica del buon Tom Keifer , sempre pronto a trascinarci ora , con le energiche If you Don’t Like It , Second Wind ,Fire & Ice e Take Me Back, poi a sedurci con le melodie di The Last Mile , le delizie acustiche di Coming Home ed il monumentale e passionale lento blues di Long Cold Winter. Tutto rasenta la perfezione in questo disco, sia le canzoni dove partecipano strumentisti di livello assoluto ( curiosità: le parti di batteria sul disco sono incise da Danny Carmassi e Cozy Powell , sembra a causa della scarsa affidabilità in studio di Fred Coury), sia la produzione, affidata a veri giganti dell’epoca quali, la coppia Thompson & Barbiero ed Andy Johns.
Insomma un disco che ha fatto epoca ed è obbligatorio possedere per chiunque voglia fregiarsi del titolo di appassionato di rock e che a distanza di 33 anni brilla ancora vivido nel firmamento delle nostre collezioni.
07 Gennaio 2021 11 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1989
etichetta: Rock Candy 2013
ristampe: Rock Candy 2013
Steve Stevens gran personaggio,un vero animale da palco che ho avuto la fortuna di ammirare nel 2015 con Billy Idol . Noto ai più grazie alla sua collaborazione con miriadi di artisti rock , nonchè autore dell’ anthem del film Top Gun, ha sfornato anche tre dischi solisti di cui questo è il primo e direi il più attinente all’ambiente hard rock melodico.
In questo disco lo vediamo affiancato dal talentuoso singer Perry McCarty(ex Warrior) ritornato sulle scene nel 2017 con i Radiation’s Romeo (nome tratto proprio dalla canzone Atomic Playboys) su Frontiers.
Questo è stato un disco talmente eclettico da essere concettualmente avanti anni rispetto alle uscite medie del 1989, si notano infatti innesti di effetti elettronici , ritmiche funkeggianti (portate poi alla gloria dai Bang Tango e non solo), chitarra al fulmicotone tutto al servizio di melodie assassine e tremendamente easy listening, ovvero una sorta di hard rock sofisticato , ma dall’incommensurabile appeal commerciale…. c’è infatti molto più di quel che appare ad un ascolto distratto.
Esempio lampante di tutto ciò la prima e title track, Atomic Playboys, tirata ritmicamente con quel riff graffiante , che ti scatena subito al primo ascolto e ti ricordi per anni. Seguono la funky oriented Power Of Suggestion (finita nella Colonna sonora di Ace Ventura) ed Action, cover degli Sweet e sono convinto che questa sia una delle migliori versioni mai riproposte. Poi quando meno te lo aspetti, ecco Desperate Heart, mega ballad struggente melodica e sofferta. Si rialzano prepotentemente i ritmi con Soul On Ice , fino a giungere con la seguente Crackdown alle tipiche atmosfere Idoliane dove McCarty gioca con classe a fare il Billy della situazione . Pet Hot Kitty è uno street ruffiano e accattivante , mentre Evening Eye è un altro funk d’atmosfera veramente crepuscolare e fuori dall’ordinario. Woman of a 1000 Years è un blusettone catchy dove Stevens si misura anche alla voce, Run Across The Desert è l’unico strumentale del disco dove il Ns. eroe si misura con atmosfere spagnolegianti dando libero sfogo a tutto il suo estro. Si chiude tornando in carreggiata con l’hard rock elettrico e catchy di Slipping Into Friction.
Insomma un disco vario ed ispirato che a distanza di 31 anni non annoia e coinvolge ancora restando moderno anche nelle sonorità proposte, e non è cosa da tutti. Impeccabile la produzione di Beau Hill che dona quel piccolo tocco di eleganza patinata che nei giorni moderni possiamo solo ricordare con meraviglia.
Data anche la ristampa dell’immancabile Rock Candy non dovrebbe essere un problema procurarsi questi Playboy Atomici.
31 Dicembre 2020 8 Commenti Samuele Mannini
genere: Aor
anno: 1989
etichetta: Frontiers 2007
ristampe: Frontiers 2007
Uno due tre…… Capolavoro e potremmo anche chiudere qui la recensione.
D’altra parte era l’anno magico 1989 l’apice aureo del melodic rock e visto i nomi coinvolti non poteva essere altrimenti, tutto il gotha della melodia made in Usa ha partecipato o al songwriting o ha prestato la sua opera come musicista e corista su questo disco.
Lo si potrebbe definire una sorta di manuale di ciò che rappresenta l’AOR una definizione enciclopedica : suadenti melodie, voce passionale , chitarra tecnica ed atmosfere sensuali che pervadono l’opera dalla prima all’ultima nota .
Notevole la prova alla voce di Moon Calhoun in grado di rivaleggiare con tutti i maestri del genere ed è una altra caratteristica che aggiunge valore a questo disco.
Michael Thompson è un vero guru ed ha prestato la sua opera a chiunque spaziando per ogni genere musicale, dotato di tecnica sopraffina e di un feeling non comune, per averne la riprova basta ascoltare i quasi tre minuti di assolo nel finale di Give Love a Chance dove mette mostra tutta la sua maestria.
Nessun Brano di questo disco è fuori posto , a cominciare dall’opener Secret Information ammiccante e suadente, la sognante 1000 Nights, la più intima ed emotivamente coinvolgente Wasteland, un po’ di atmosfera westcoast pervade invece Never Stop Falling e vogliamo non citare la funkeggiante Can’t miss ? Classe allo stato puro. Gloria sarebbe potuta essere una hit Toto style se solo ci avessero puntato con forza, Stranger è invece un rock che ricorda un po’ i Survivor . Via altro giro altra corsa, o altra gemma melodica alias Baby Come Back col suo giro di basso che provoca sculettamento automatico, si chiude con la riflessiva title track piena di piccoli inserti di piano che insieme alla interpretazione di Calhoun sono pura magia.
Pensare che l’ AOR viene a volte definito commerciale e pieno di testi banali mi fa semplicemente piegare in due dalle risate pensando a cosa è contenuto in certi dischi di cui questo è un fulgido esempio. Ci sono canzoni magistrali, interpreti fenomenali , testi profondi il tutto condito da una produzione scintillante che ai giorni nostri possiamo solo sognare.
Un paio di curiosità sulla ristampa del 2007 targata Frontiers: la versione di Secret
Information è diversa dalla versione originale ( che secondo me è migliore) da me posseduta in vinile , viene quindi da chiedersi se il master usato per la riedizione sia esattamente lo stesso del 1989 , anche se nelle restanti canzoni ad orecchio non ho notato differenze sostanziali se non dovute alla compressione dinamica attuata per aumentare i volumi, male questo comune a tutte le operazioni di remastering moderne. Infine sono presenti tre bonus track di buona fattura anche se non seguono proprio il filone originale dell’opera , ma comunque arricchiscono il piatto e non fanno mai male.
Sicuramente uno dei dischi top AOR di sempre, che se già non avete vi costringerà a frugarvi le tasche per rimediare all’errore.
28 Dicembre 2020 10 Commenti Samuele Mannini
genere: Progressive rock
anno: 1996
etichetta:
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La seconda e ultima opera dei britannici The Quest è un disco che come sonorità si muove in un territorio di derivazione neo prog che lambisce da un lato, certe atmosfere Aoreggianti e dall’altro va vicino a quanto proposto dai primi Dream Theater , quindi vicino a sonorità più metallizzate che nel primo e già buon esordio erano sicuramente meno accennate, si nota dunque una certa evoluzione che a mio avviso esalta ancora di più l’opera.
Trovare tracce biografiche su questa band è estremamente difficile ed all’infuori dei due album non ho notizie di altri lavori(anche se esiste una pagina Fb ufficiale dove si vocifera di cose nuove in programma), ed è un grande peccato, perché siamo al cospetto di qualità sopraffina.
Guidati questa volta dal dotatissimo singer Steve Murray , che a me in alcuni tratti ricorda in maniera impressionante il Dennis de Young Styx era, i nostri si muovono sapientemente tra atmosfere tastieristiche alla Keith Emerson con riff chitarristici e stacchi di batteria che rimandano ai Dream di Images and Words… Ascoltare Do you Believe per esempio ti dà quella sensazione di genio e melodia allo stesso tempo, mentre la iniziale Change paga forse dazio alle atmosfere del supergruppo Three di Emerson . La successiva Inner Room è un esempio meraviglioso di intimismo progressive che si libera in tutta la sua emotività in un solo di chitarra che trasuda passione. Turn Away è dolce e suadente ,To Breath e Afterlife II con il suo magico sax, fungono da introduzione a Stand , inquieta e progressiva a tratti dura con cambi di ritmo repentini una delizia prog. cui segue un’ altro intermezzo, Afterlife I dove la voce di Murray quasi a cappella ci mostra la sua classe e il suo timbro vocale passionale. Do You Believe è un altro tripudio di ecletticità con le chitarre affilate ben in evidenza nei quasi nove minuti di trip melodic, epic, progressive, Beyond The Brave è invece più intima , ma anch’essa in linea con la tradizione neo prog, chiude il minuto di Epitaph che serve a chiudere il concept dell’album che vi invito caldamente a scoprire.
Mi rendo perfettamente conto che non è un disco facile da descrivere a parole e anche io, leggendo quello che ho scritto , capisco che probabilmente non sono riuscito a rendere perfettamente l’idea , quindi cercherò di usare una immagine: se in un giorno di pioggia vi sentite l’anima in subbuglio per qualsiasi motivo, premete play sul CD guardate la pioggia dalla finestra e capirete di più su voi stessi.
Insomma bando alle ciance indipendentemente dai vari riferimenti musicali , se per caso non li aveste mai ascoltati i 10 pezzi di Change potrebbero veramente cambiare i vostri punti di vista.
P.s. in data 28 Aprile 2023 il disco è stato rilasciato in versione rimasterizzata su tutte le piattaforme digitali di streaming ed è disponibile anche in digital download….
21 Dicembre 2020 5 Commenti Samuele Mannini
genere: Aor
anno: 1991
etichetta:
ristampe:
Probabilmente questo recupero farà discutere, già ai tempi della sua uscita il disco non scaldò tanto i cuori degli appassionati di Mr.Rodgers che, se dobbiamo dire la verità, già mugugnavano dopo i due album dei The Firm con Jimmy Page , ma a quei tempi l’abbondanza era tanta che era facile fare gli snob, uscisse oggi a quasi 30 anni di distanza ci strapperemmo le vesti ringraziando gli Dei.
Per quanto riguarda il sottoscritto questo è un classico esempio di quanto un disco possa
risultare gradevole e spensierato pur senza nessuna pretesa di essere un capolavoro e di
quanto ciclicamente finisca come per magia sul piatto o nel lettore CD (si perché siccome mi piace poco ce l’ho in doppia versione).
Progetto nato dopo la fine dei già menzionati The Firm , oltre a Rodgers sono coinvolti in fase di incisione il batterista Kenney Jones ( ex Small Faces e The Who) più vari session man e ospiti personalizzati per ogni Song tra i quali Bryan Adams , Dave Gilmour e Chris Rea.
Per quanto riguarda il songwriting tre pezzi sono firmati Rodgers mentre negli altri otto figurano Mark Mangold , Phil Collen , Bryan Adams, Jim Vallance, Chris Rea…. più qualcuno che sicuramente mi son dimenticato.
Ora, pensare che una pletora di semi divinità del genere possa avere dato vita ad un disco brutto è un concetto che la mia mente non considera e per quanto mi riguarda, già l’opener For a Little Ride spazza via i timori con il suo incedere RnR e quel testo pieno di doppi sensi di whitesnakiana memoria.
Altri pezzi più che degni sono il raffinato lento AoR oriented Miss You in a Heartbeat, la
Bluesegiante Stone Cold ed l’ ibrido Toto/Journey di Come Save Me (Julianne) mentre in Layng Down The Law si sentono i lontani echi di foggia Bad Company.
Nature of the Beast è un altro rockettone danzereccio, mentre Stone è un lento bluesy con venature soul, molto emozionale ed etereo, dove la voce suadente Rodgers risalta sui delicati tocchi di chitarra di Chris Rea.
Ho sempre considerato questo, un disco da ascoltare in viaggio, dove a finestrini aperti e capelli al vento ci si può immaginare di guidare su una solitaria highway USA e sarà forse per questo che a tanti anni di distanza riesce ancora a coinvolgermi nella sua semplicità.
Piccola curiosità per i fanatici delle note tecniche, questo è uno dei rarissimi casi (almeno per quei tempi ) anche per quanto riguarda l’incisione Vinilica, di registrazione Digitale masterizzatore digitale , ma con Mixaggio analogico se vi ricordate le sigle sui primi CD …. questo sarebbe un DAD quasi un unicum e non so se è per questo che anche in vinile abbia ancora una impronta così moderna e suoni ad un volume veramente notevole per il supporto.
17 Dicembre 2020 0 Commenti Yuri Picasso
genere: Hard rock/ Glam
anno: 1990
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I Motley Crue Gallesi, da Cardiff per essere pignoli. Parliamo di glam rock multicolor, di musica graffiante ma divertente, dei Poison del paese dei castelli . La ricerca del coro vincente mediante l’abuso di più voci per fare uscire dalle casse l’effetto chewing gum caratterizzava la loro proposta, unita a riff taglienti e immediati suonati dall’ottimo chitarrista John Pepper, nonché fondatore assieme al bassista Pepsi Tate (1965 – 2007 R.I.P).
Dopo aver pubblicato con quel matto di Steevi Jaimz alla voce “Young and Crazy” nel 1987 (alcol e guai con la legge erano all’ordine del giorno), viene reclutato al microfono il talentuoso Kim Hooker per dare vita a quello che è il loro piccolo capolavoro,“Bezerk”; era il 1990, e nonostante il genere avesse iniziato a vivere la sua eclissi, con band che negavano il loro passato e studiavano sul come sopravvivere alla decade “nera” cambiando pelle, i nostri riuscirono ad ottenere ottimi riscontri non solo nel Sol Levante, ancora di salvezza per molte band nate sul finire degli anni 80, ma pure nella vicina Inghilterra dove l’album raggiunse la posizione 36 delle official charts.
Trascinato da singoli quali la ballad “Heaven”, le divertenti e magnetiche “Love Bomb Baby” e “Noise Level Critical”, ma non solo.
La carne al fuoco qua non manca, anzi. In ogni pezzo troviamo l’insana pazzia e la tipica sfrontatezza proprie del sunset strip riviste in chiave anglosassone; l’ispirazione, il coinvolgimento/sconvolgimento sessuale (e su questo l’opener “Sick Sex” potrebbe essere un manifesto dell’epoca).
Cori trascinanti come in “Squeeze It Dry”, scanzonata a partire dalla strofa o l’altrettanto spericolata “I Can Fight Dirty Too”, una corsa sfrenata in 4/4.
Bezerk si conclude con il funky sleaze di “Call of The Wild”.
Dopo lo scioglimento avvenuto l’indomani di Wazbones (1995, solo per il mercato giapponese vedendo i nostri abbracciare una strada maggiormente metal) ci furono un paio di reunion:
Jaimz formerà la sua versione dei Tigertailz nel 2003 senza pubblicare alcun disco di studio e perdendo la causa contro Hooker Tate Pepper, i quali non si limitarono all’attività live ma daranno in pasto ai fan ottimi lavori (Bezerk 2.0 è un ottimo disco), senza snaturare la propria natura artistica
Ricordo molto bene l’esibizione nel primo pomeriggio in quel dell’Idroscalo al Gods of Metal del 2007, trascinante sebbene aiutata da cori preregistrati.
Dopo la morte di Tate a causa di un tumore al pancreas, il nucleo storico si sciolse, seguito da ulteriori ma in questo caso vani tentativi di riportare il nome Tigertailz al culto di un tempo.
Dischi come Bezerk rimangono ottimi dipinti oramai sbiaditi dal tempo ma dall’ immutato impatto emotivo.
17 Dicembre 2020 2 Commenti Yuri Picasso
genere: Melodic rock/AoR
anno: 1988
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ristampe:
Ricordo come se fosse ieri quando una quindicina di anni fa mi ritrovai tra le mani una first press usata al mercatino di dischi e vinili di Genova che si teneva due volte l’anno fino a poco tempo fa di “Hungry For A Game”. Giornate passate a esaminare cosa mi interessava e cosa mi mancava nella mia crescente collezione. Avevo un’altra età.
Il mio essere pseudo musicista, l’essermi innamorato da pochi anni di un genere musicale tanto poco commerciale in quel momento quanto ricco di realtà e diramazioni, la mia crescente curiosità artistica, alimentavano la fame di conoscere, documentarmi, leggere riviste ed enciclopedie dedicate. E fu proprio in uno di questi adorati “mattoni” che si parlava dei danesi Skagarack come una realtà di assoluto valore musicale nel vasto panorama AOR – Melodic Rock che troppo poco aveva raccolto in termini successo al di fuori della Scandinavia. Senza guardare il prezzo comprai in quell’occasione “Hungry for a Game” (uscito ai tempi per la Polydor) e nel giro di poco tempo mi accaparrai l’intera discografia.
C’è chi preferirà il puro Aor dell’esordio, c’è chi preferirà il taglio hardeggiante di “A Slice of Heaven“ del 1990 e c’è chi preferirà il perfetto connubio tra AOR e Melodic Rock presente nel disco in oggetto.Siamo nel 1988 e ascoltando il platter gli Europe di “Out of This World” sono il primo riferimento che ci torna in mente, e il più conosciuto. Cascate di armonie dominate da tonnellate di tastiere, spruzzate di sintetizzatori e una chitarra che sia in fase ritmica che in quella solista regala arpeggi riff ghost notes tutto amalgamato da una produzione scintillante, perfetta. Non c’è uno strumento che prevale su un altro, tutto lavora stupendamente in funziona di un songwriting davvero ispirato.
Ad ogni ascolto veniamo attirati da particolari diversi e non si ha MAI la sensazione di pesantezza o lungo il playing per arrivare alla fine del disco, emozione che nei lavori odierni proviamo troppo spesso.
Difficile fare una review track by track non inciampando sugli stessi aggettivi, difficile scegliere i pezzi migliori di questo platter.
Impossibile non parlare di “She’s a Liar” divisa tra Aor tipico della scuola scandinava e inserti pre-chorus maggiormente Heavy dominata da un ritornello pronto a stamparsi in testa e a non uscirne più. Nell’americana “Joanna” troviamo un ottimo mix di Journey e Survivor. Nel ricettario dei chorus vincenti e mai scontati inseriamo volentieri “Somewhere in France”, ricordo di una notte passata in compagnia di una misteriosa donzella, chissà se frutto di fantasia oppure suggestioni di un episodio reale. Un riff vagamente Survivor ala “Eye Of The Tiger” accompagna la strofa del capolavoro “Always in a Line”, per poi sfociare in un ritornello tutto tastiere e Europe. I gruppi scandinavi odierni pagherebbero per tirar fuori dalla loro penna un brano cosi vario e avvincente. Echi class metal nella riuscita “Outrageus” dominata da uno spirito californiano sbarazzino e positivo.
Capitolo ballads: cadenzate e pienamente riuscite entrambe; se “This World” è una riflessione notturna sui tempi e sul valore dei sentimenti che cambiano, straordinariamente attuale, “Facing The truth” affronta la difficoltà nell’ affrontare e ammettere la fine di un Amore. Straordinari i ricami strumentali lungo entrambe i brani.
A essere onesti l’intero disco, all’interno di ogni singolo brano, presenta inserti e assoli guidati da strumentisti (Jan Petersen alla chiatarra, Tommy Thiel Rasmussen ai tasti d’avorio) straordinariamente ispirati che trasformano buone canzoni in ottime canzoni.
Il loro successo si limitò in gran parte nei paesi del nord Europa e nella natia Danimarca. Dopo il successivo “A Slice of Heaven” la band nella sua line up classica si scioglierà. Sotto il moniker Skagarack, accompagnato da una line-up diversa, il vocalist Torben Schmidt pubblicherà nel 1993 “Big Time” ma i tempi erano cambiati e le possibilità di fare il grande salto nulle. Nel 2008 la band si è riunita nella sua line up originale per show e festival in giro tra Danimarca e Nord Euorpa con la promessa non mantenuta di pubblicare un nuovo album. Solo a gennaio di quest’anno è stato pubblicato “Be With You Forever” un singolo che vede coinvolti i soli Schmidt e Petersen seguito da un altro singolo ad Aprile , “Changing”. Pezzi discreti che provano a riesumare parte di quella magia indelebile presente nei primi 3 dischi di questa band.
17 Dicembre 2020 5 Commenti Giulio Burato
genere: Hard rock
anno: 1987
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Nella mia breve carriera da recensore (amatoriale), ho riscontrato una falla nel mio sistema di scrittura; senza un reale motivo di fondo, sono sempre stato un po’ allergico all’hard rock di matrice teutonica. Per carità, ci sono alcuni album degli Scorpions e alcuni degli Helloween presenti nella mia discografia, ma sono come granelli di sabbia in una spiaggia, rispetto alla vastità di proposte che arrivano dal centro Europa.
Per lenire a questa falla, devo fare marcia indietro sino al lontano 1987, quando, per pura casualità, decisi di acquistare la musicassetta di una band, a me sconosciuta, chiamata Bonfire.
“Fire works” è l’album che esce da quei miei “ottusi” schemi e che considero una gemma dell’hard rock di stampo tedesco e mondiale.
Uscito tramite la prestigiosa BMG, prodotto da uno dei Diego Maradona (RIP) della produzione, Michael Wagener, registrato negli studi americani di Hollywood , supportato al songwriting dai grandi Desmond Child e Jack Ponti, “Fire works” è il secondo album della band capitanata, ancora oggi, dal chitarrista Hans Ziller, unico “superstite” di quella prodigiosa formazione.
Al suo fianco la voce di Claus Lessmann (di recente nei Phantom V), storico e emblematico frontman nella loro discografia, il session-man Ken Mary alla batteria, il bassista Joerg Deisinger, l’altro chitarrista Horst Maier-Thorn (RIP) e Martin Ernst in supporto alle tastiere.
La qualità delle canzoni rende impossibile una descrizione track by track. Non ci sono cali di tensione o filler ma c’è una tracklist così roboante da reggere il confronto con album storici nel settore. Da “Ready 4 reaction” a “Cold days” è un trionfo di potenza e melodia; le venature teutoniche sono plasmate da forti richiami a stelle e strisce che resero l’album molto appetibile anche oltre oceano. Al tempo, riuscì a vendere più di 100.000 copie, destando un grande interesse e successo.
Oggi, canzoni come “Never Mind”, “Champion”, “Sleeping all alone”, “Fantasy” e la power ballad “Give it a Try” sono alcuni dei fiori all’occhiello dei Bonfire.
Semplicemente da avere, semplicemente “fuochi d’artificio” musicali.
17 Dicembre 2020 2 Commenti Yuri Picasso
genere: Aor
anno: 1987
etichetta:
ristampe:
4 milioni di copie vendute dovrebbero rendere orgoglioso e fiero qualunque Artista o prodotto di talent Show uscito dai vari Amici – Xfactor – The Voice.
Scrivere e suonare un disco con musicisti quali Bruce Kulick, Eric Martin, Joe Lynn Turner, Martin Briley, Bob Halligan Jr, Diane Warren, Neal Schon, Jonathan Cain (e tanti altri ancora) dovrebbe farti capire che hai raggiunto un apice, superabile certo, ma rimarrà ai posteri un’alta vetta della tua carriera. Se non commerciale, meramente artistica.
Un obiettivo compiuto in grado di lasciare un segno, che verrà preso come ispirazione e visto come un punto di arrivo da colleghi e addetti ai lavori.
Nessuno spazio per rinnegazioni, nemmeno se il materiale scritto e cantato non ti aggrada.
Eppure…Eppure Michael Bolotin (di famiglia d’origine russo-ebraica rinominato Bolton ai tempi del disco “Michael Bolton” del 1983 dopo la non fortunata esperienza come frontman dei Blackjack e due dischi solisti a nome Bolotin passati inosservati) finchè ha potuto si è opposto alle ristampe dei suoi dischi Aor, e se andiamo a vedere le tracklist dei suoi concerti non canta pezzi tratti dai suoi album degli anni 80 da decadi, eccezione fatta per i singoli/cover che hanno spopolato nelle charts.
Eppure.. Eppure sono dei dischi meravigliosi, spaziano dall hard rock al puro Aor coinvolgendo come scritto sopra artisti di primissimo livello. E lo stesso Bolton è un artista con la A maiuscola. Come Voce, come songwriter.
Ho scelto di scrivere su questo The Hunger, anno di grazia 1987, perché rappresenta un perfetto mix di cio che la musica ancora oggi sarebbe in grado di offrire.
“The Hunger” è un equilibrio perfetto di generi musicali, una veduta panoramica dalla quale non staccherei mai gli occhi.
Una scacchiera di grandi musicisti dove il Re rimane interpretato dalla sua ugola, accerchiato da regine alfieri torri e pedoni di primo livello artistico che strutturano e consolidano l’immensità di queste 9 tracce, la varietà della proposta musicale e le proprie qualità.
“Hot Love”, mid tempo hard edge semplice e curato in ogni dettaglio, entra in testa e farebbe sfracelli dal vivo ancora oggi. “Gina” dal refrain anthemico, coadiuvato da synths sempre presenti ma mai invasivi, “The Hunger” mix magistrale di piano voce sax e ancora tanta melodia.
Masterpiece after Masterpiece, come non citare “Wait On Love”, incastro scintillante di armonie tutte costruite per far brillare le prodezze vocali di The Bolt, sempre protagonista.
“Walk Away”, malinconica ballad a la Journey, alla quale fu preferita come singolo “That’s What Love is All About”.
Il tutto trascinato dalla cover di “(Sittin’ on) The Dock of the Bay “di Otis Redding, magistralmente reinterpretata da The Voice.
Un Bignami di Rock Fm che i natii del nuovo millennio non sarebbero/sono in grado di apprezzare.
Il tempo ci dirà che Michael Bolton, dopo aver rifiutato l’ingresso nei Journey, abbraccerà sonorità maggiormente soul (Soul Provider è del 1989), propriamente pop, per donne alla soglia della menopausa, con ottimi riscontri commerciali, allontanandosi disco dopo disco dal suo passato AOR. Dotato di un registro vocale e un timbro da fare invidia a qualunque cantante, non poteva andare a finire male insomma.
Rispetto la scelta commerciale, meno la sua preoccupazione nel ridare in pasto al pubblico capolavori come “The Hunger”, pietra miliare di una ricerca melodica certosina e antemica, preziosa, dotata di una produzione e di un fascino che il tempo non è stato in grado di arrugginire.
14 Dicembre 2020 19 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard rock
anno: 1993
etichetta: Frontiers cofanetto Full Moon Collection 2005
ristampe: Frontiers cofanetto Full Moon Collection 2005
DISCLAIMER doveroso : in questa recensione non sarà presente nessuna traccia di obiettività se non vi troverete d’accordo con le opinioni di chi scrive smettete subito di leggere e amici come prima.
Per me questo disco rientra di diritto nei migliori 50 album hard rock di sempre quindi non riesco a trovargli difetti di sorta e poi voglio proprio vedere che difetti si possano trovare qui…. se non vi piace l’ hard rock ok , ma se state ancora leggendo allora vi dico che questo è uno dei dischi hard rock per antonomasia.
C’è il blues roccioso dagli echi Whitesnake e Led Zeppelin, c’è la chitarra che disegna tutte le atmosfere possibili tra luce e oscurità , c’è l’interpretazione passionale di un’ anima straziata e piena di speranze spesso tradite, c’è insomma il rock nella sua incarnazione primigenia e genuina che fa ribollire il sangue di coloro che hanno vissuto questa musica e non si limitavano ad ascoltarla.
La mia venerazione per questa Band nasce già dal suo embrione primordiale ovvero i Lion che vedevano già Dough Aldrich e Kal Swan autori di un paio di ottimi album passati sottotraccia dalle nostre parti mentre in Giappone fortunatamente ebbero un discreto successo , così come il primo parto dei Bad Moon Rising che praticamente in Europa era introvabile e poi anche il successore di questo Blood ovvero il monumentale Opium For The Masses che magari tratteró in futuro.
Aldrich in quegli anni, trasformava in oro tutto ciò che componeva ed infatti è stato poi ricompensato dalle numerose collaborazioni fino all’approdo agli Whitesnake, Swan è un ottimo compositore nonché vocalist magistrale dalla voce potente e versatile ed una espressività sorprendente ,una sorta di Coverdale 2.0 da me infinitamente invidiato e vanamente imitato quando mi sono cimentato nelle mie avventure canore.
Aggiungiamo una sezione ritmica collaudata e chirurgica forgiatasi in mille collaborazioni con altrettante band Hericane Alice e Bangalore choir su tutte anche se sembra Mayo e Ramos si siano alternati nella registrazione ad un’altra coppia ritmica assoluta quale Ken Mary e Chuck Wright quindi la sostanza cambia poco. continua