LOGIN UTENTE

Ricordami

Registrati a MelodicRock.it

Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.

effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!

Classici

Diving for Pearls
Diving for pearls

LEGGI LA RECENSIONE

Diving For Pearls – Diving for Pearls – Gemma Sepolta

22 Settembre 2020 22 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1989
etichetta:
ristampe:

Pur essendo usciti su Major diversi dischi sono rimasti semi sepolti negli anni ed anche se abbastanza facili da reperire sul mercato dell’usato a qualcuno potrebbero essere sfuggiti, quindi un opera di recupero spero sia cosa utile e gradita.

Il caso di questi Diving for Pearls è abbastanza tipico usciti nel 1989 per Epic dopo una tiepida accoglienza commerciale si sono visti il contratto stracciato e arrivederci e grazie, qualche anno dopo è anche uscito un seguito con il solo vocalist nella formazione, ma niente a che vedere con questo disco.

Le coordinate sonore di questo lavoro non sono facilmente standardizzabili e forse questo è costato loro anche il successo, infatti in anni dove bastava rifarsi a Bon Jovi et similia per vendere qualche copia il gruppo in questione propone un AoR abbastanza atipico che come atmosfere si rifà anche vagamente al pop , new wave inglese mischiandolo abilmente all’ hard rock melodico di matrice canadese.

È un concetto difficile da spiegare a parole, ma in alcuni brani sembra di sentire accenni di Boulevard altri del Bryan Adams meno commerciale e in altre parti ci sono cose che potresti ascoltare che so , in pezzi degli U2 o nei Simple Minds il tutto impreziosito dalla splendida voce del cantante Danny Malone.

Canzoni degne di particolare nota sono la cadenzata e spettacolare Never on Monday , Give me all your good lovin , canadese fino al midollo e le sognanti New Moon e I can close my Eyes, ma sono solo citazioni perché tutte le Song sono di altissima qualità.

Insomma….un disco di AoR diverso non classificabile quello di questi ragazzi di Nashville, ben suonato e splendidamente prodotto che anche se è risultato un fallimento commerciale è sicuramente una Perla nel suo genere.

Aviator
Aviator

LEGGI LA RECENSIONE

Aviator – Aviator – Classico

31 Marzo 2020 12 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR / Melodic Rock
anno: 1986
etichetta: Escape Music (1997), Rock Candy (2019)
ristampe: Escape Music (1997), Rock Candy (2019)

Stiamo attraversando un momento nuovo e difficile. Mia mamma (classe 1950) non si ricorda di un momento paragonabile a questo. Nata da una famiglia di modeste possibilità economiche , cresciuta nel secondo dopo guerra. Abituati ad avere pochissimo, contenti quando avevano la fortuna di avere poco, come mangiare carne ogni 3/4 giorni,per esempio. La retorica chiama retorica esprimendo con parole diverse un unico concetto: si aveva molto meno e si era contenti. In questi giorni di riflessioni che attraversano le nostre menti e di cui ho il grosso timore non porteranno a nessun sostanziale cambiamento nella vita sociale una volta superata la pandemia da Covid-19, ho deciso di riascoltare un paio di album che mi hanno aiutato ad amare e a comprendere il nostro genere preferito. E nel voler scrivere di qualcuno di questi, ho scelto gli Aviator perchè ancora oggi mi chiedo come sia possibile che un disco cosi non abbia spopolato ai tempi in America e/o in Europa.

Alla fine degli anni 60 il chitarrista Ritchie Cerniglia e il batterista Mike Ricciardella erano gia attivi nella band di rock psichedelico The Illusion. Dopo questa esperienza provarono con il pop dei Network, ma anche questo progetto non ebbe grossi riscontri commerciali. Cosi i 2 durante i primi anni ’80 arruolarono il talentuoso Ernie White alla voce nonchè pregevole songwriter e il bassista, nonché turnista di una certa fama, Steve Vitale (prima nella band di Eddie Money e Bruce Springsteen tra le altre).
Provano la svolta verso un hard rock iper melodico dove le tastiere del guest Tommy Zito contribuiscono non poco a creare un perfetto circuito di armonizzazioni coi riff e i soli di Cerniglia e l’ugola d’oro di Ernie White, il tutto prodotto da un certo Neil Kernon (Petra, Dokken , Autograph, ma anche Kansas e Nevermore e tanti altri per non farsi mancare nulla).

Aviator è un disco dove tutto è al posto giusto;il songwriting, la produzione, il lavoro meraviglioso svolto da ogni singolo musicista.
Proviamo a fare un resoconto dei brani in scaletta.
Il ruolo di opener è affidato a “Frontline”, anthem che profuma di Survivor.
Come non nominare “Don’t Turn Away”? Romantica e dinamica allo stesso tempo col suo chorus sfumato che chiude l’outro di un pezzo pressochè perfetto.
“Wrong Place Wrong Time” dimostra quanto si possa essere coinvolgenti senza essere prevedibili con armonie vocali che si sussegono a tastiere che richiamano la scuola nordeuropea (Vedi Europe).
Il bridge voce tastiera che precede il solo di Cerniglia toglie ancora oggi il fiato.
Se “Never Let The Rock Stop” ricorda i migliori Autograph, il pop romantico di “Magic” vi lascerà prigionieri anche se non abituati a certe sonorità “soft”.
Si passa a “Can’t Stop”, energica e frizzante dotata di un lavoro sontuso alle tastiere con un riff degno della migliore scuola scandinava per poi sfociare in un pre-chorus e refrain tipicamente americani.
“Through the Night” è divertente e mi ha riportato alla mente i migliori Night Ranger.
Si continua con le 2 bonus prodotte dalla coppia White/Vitale scritte dopo l’abbandono di Cerniglia e Ricciardella, presenti gia a partire dalla prima ristampa da parte della Escape Music datata 1997.
Da ricordare “Holding on”, romantica ma non stucchevole. Una ballad credibile e di carattere.
Anche nominando paragoni gli Aviator avevano una loro identità, sintetizzabile in grandi chorus e negli arrangiamenti melodici composti da intrecci di chitarre-tastiere-linee vocali alla ricerca della melodia perfetta.

Ricordo un’intervista al guru Kernon letta anni fa dove fra tutti i gruppi che aveva seguito in fase di produzione , non era in grado di darsi un valido motivo del mancato successo degli Aviator, vista la qualità del prodotto e dei musicisti.
Di certo uno fu lo scarso interesse e promozione nutrita ai tempi dalla RCA.

Aviator rimane nel tempo un bellissimo esempio di come certa musica sia davvero difficile da riprodurre con la medesima qualità.
L’ispirazione è alla base del successo, se accompagnata dal talento e dalla perizia in fase di costruzione diventa un esempio, superando la prova del tempo. Capolavoro oggi come Capolavoro 34 anni fa.

TATTOO RODEO
RODE HARD, PUT AWAY WET

LEGGI LA RECENSIONE

TATTOO RODEO – RODE HARD, PUT AWAY WET – Gemma Sepolta

26 Giugno 2019 6 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: AOR / Blues Rock
anno: 1991
etichetta:
ristampe:

Nati dallo scioglimento dei gloriosi White Sister, autori di due albums AOR a dir poco clamorosi (l’omonimo del 1984 e Fashion by Passion di due anni dopo), i TATTOO RODEO capitanati dal cantante / bassista Dennis Churchill-Dries decisero di intraprendere lidi più blueseggianti, riuscendo a mantenere un songwriting di altissimo livello, come testimonia il disco in questione. 13 canzoni (alcune delle quali vecchie demo dei tempi White Sister) magistralmente eseguite, da cui trasuda tanta classe ed un gusto melodico che rende questo album una perla nascosta, immeritatamente dimenticata dal storia della nostra musica preferita.

continua

Signal
Loud & Clear

LEGGI LA RECENSIONE

Signal – Loud & Clear – I Classici

14 Maggio 2019 31 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: AOR
anno: 1989
etichetta: 2008
ristampe: 2008

Quando pensi ad un album perfetto spesso ti vengono in mente i classici, quelli universalmente riconosciuti come tali (sia dalla critica, sia dalle vendite dell’album) ed allora ti risulta facile scrivere Journey, Foreigner, Whitesnake, Dokken, Toto, Survivor e chi più ne ha, più ne metta. Poi ci pensi ancora un pò su e ti accorgi che in quei classici forse qualche pecca c’è comunque: una canzone sotto tono, un solo fuori posto, un qualcosa che in verità non ti è mai piaciuto, ma poco importa…sono “classici”, quindi perfetti ed incriticabili a prescindere. Poche volte ho trovato un album senza “macchia”: forse solo “1987” degli Whitesnake, “Sahara” degli House of Lords, “Love among the cannibals” degli Starship o “Native Tongue” dei Poison…ops…ma questo non è un “classico”?…ok, ma per me è un disco perfetto. Ah, dimenticavo…questa è solo una mia personale considerazione, del tutto criticabile, sia chiaro. Però a me spesso è successo di amare un “classico”, ma di criticarne allo stesso tempo qualche difetto: è capitato e capita ancora oggi.

Poi ci sono, invece, quegli album che la storia ha relegato in un angolo buio, senza nessuna ragione plausibile, se non le ingiuste leggi del business, destinati all’oblio, pur essendo tesori musicali di assoluta qualità, da tramandare ai posteri come esempi di classe sopraffina, nei suoni, nel songwriting e nella performance complessiva della band. Ecco, quello di cui voglio parlare oggi è uno di questi album.

Oggi, infatti, scrivo di un album perfetto, che considero un “classico” class metal – AOR di tutti i tempi, una pietra miliare assoluta. Esagero? Forse, ma LOUD & CLEAR dei SIGNAL sarebbe dovuto essere un “classico” di tutti i tempi ed avrebbe dovuto vendere milioni di album se…se fosse uscito nel 1986 e non nel 1990! Grunge…che brutta parola.

Per anni considerato alla stregua di un Santo Graal dell’Aor, vista la sua irreperibilità (venne infatti stampato in poche copie e la band scaricata poco dopo la sua pubblicazione dalla EMI), grazie alla Axe Killer venne ristampato nel 1999, egregiamente rimasterizzato e rimesso sul mercato, a rendere finalmente giustizia ad un capolavoro vero e proprio.

La produzione affidata a Kevin Elson (Europe, Mr. Big, Journey) è cristallina, cromata al punto giusto, perfetta per il songwriting proposto dai SIGNAL ed in grado di esaltare all’ennesima potenza la voce incredibile di Sua Maestà MARK FREE, nel pieno del suo splendore artistico.

Reduce dall’esperienza con i King Kobra, autori di due album bellissimi (per il sottoscritto), MARK FREE verrà consacrato al culto eterno dagli adepti dell’AOR proprio con questo LOUD & CLEAR: culto che negli anni a venire sarà suggellato dal primo album degli Unruly Child e dai suoi due album solisti, oltre che dalle innumerevoli demo da lui registrate nel tempo.

L’inizio dell’album è incredibile: il riff di ARMS OF A STRANGER è da antologia del melodic rock, una sorgente inesauribile di classe, da cui hanno attinto in molti. Ritmo frizzante e deciso, chitarre cromate e taglienti accompagnano la voce di MARK FREE, che tuona un chorus da pelle d’oca. Non scherzo, la pelle d’oca riaffiora ad ogni ascolto! Questa è uno di quei refrain che ti si appiccicano addosso e non ti si staccano più!

DOES IT FEEL LIKE LOVE, con il suo giro di tastiere che fa molto Baba O’Riley degli Who, conferma l’eccellenza e si descrive come power ballad emozionale, dai toni soft ed eleganti. Il chorus da solo vale intere discografie di band più blasonate, per l’intensità che esprime e la passione che trasuda la prova vocale di un MARK FREE stellare.

MY MISTAKE, scritta da Bob Halligan Jr., con il suo incedere pomp alla Toto, sterza un pò le coordinate sonore e raggiunge il suo apice nei cori, dove il biondo singer duella con un giovanissimo ERIC MARTIN. Da applausi.

THIS LOVE, THIS TIME riporta l’album su toni più rilassati e risulta essere una ballad pregna di romanticismo, dolce e disperato al tempo stesso. Inutile sottolineare come la voce calda e suadente di MARK FREE riesca ad impreziosirla e ad elevarla a capolavoro senza tempo.

WAKE UP YOU LITTLE FOOL, con il suo iniziale arpeggio di chitarra, ricorda le atmosfere vagamente tristi degli Scorpions, ma cresce d’intensità esprimendosi in un mid tempo che esplode come uno squarcio di sole in un chorus deciso, che cancella in un colpo solo le nubi iniziali.

LIAR si apre cadenzata e cresce di pathos all’altezza del coro declamatorio e rabbioso. Un break centrale, più soft, apre le porte ad un ottimo solo, prima che il buon MARK riprenda le redini della canzone e la accompagni melodrammaticamente alla conclusione.

COULD THIS BE LOVE, nata dalla collaborazione tra MARK FREE e CURT CUOMO non avrebbe sfigurato in un classic album dei Journey o dei Foreigner, tanta è la sua bellezza. Canzone che rasenta la perfezione e che in un mondo “musicalmente giusto”, sarebbe venerata ed inserita nella top 5 delle migliori ballads di tutti i tempi. Un highlight immortale.

YOU WON’T SEE ME CRY aumenta un pò il ritmo, le chitarre tornano a graffiare e disegnano insieme alle tastiere una class metal song dal chorus ammaliante a più voci, durante il quale MARK FREE raggiunge vette inarrivabili per molti altri più blasonati cantanti.

GO, con il suo incedere urgente, è un up tempo che mi ricorda i Diving For Pearls nell’uso delle chitarre e l’immediatezza dei Foreigner nel chorus. Scorre via veloce, ma ci lascia in dono abbondanti dosi di classe ed eleganza.

RUN INTO THE NIGHT chiude l’album col botto: inizia delicata con la sua atmosfera serena e, come una camminata che si trasforma in corsa, aumenta il voltaggio chitarristico e si trasforma in una pop rock song cromata e spensierata. Sembra di sentirla risuonare al tramonto di una giornata estiva, quando l’atmosfera si fa più frizzante, perché sa che la serata sta per iniziare e la notte sarà ancora protagonista.

So di averla romanzata un po’ troppo questa recensione, ma mi è venuta così. Ci sono album che ti sanno trasportare in un mondo di emozioni e la scrittura ne risente…se in bene o in male lo giudicherete voi. Io ho scritto solo quello che di bello mi ha sempre trasmesso questo album, certo che me lo saprà trasmettere anche in futuro, ogni volta che avrò voglia di ascoltarlo.

Starship
Love Among The Cannibals

LEGGI LA RECENSIONE

Starship – Love Among The Cannibals – Classico

13 Marzo 2019 14 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: AOR / Arena Rock
anno: 1989
etichetta:
ristampe:

Nipoti dei Jefferson Airplane e figli legittimi dei Jefferson Starship… come discendenza direi che non c’è male. Autori di due albums dal successo clamoroso (Knee Deep in the Hoopla del 1985 e No Protection del 1987), giungono orfani della storica vocalist Grace Slick alla prova del fuoco e ne escono vincitori. LOVE AMONG THE CANNIBALS è un disco incredibile, pieno di energia e pienamente inserito nel filone AOR di fine anni 80. I suoni sono più caldi rispetto ai due precedenti albums, ancora legati ad un certo techno-pop da classifica e le chitarre diventano finalmente protagoniste come si addice ad un disco melodic rock datato 1989. Produzione maestosa, che riassume il meglio di quel periodo, con cori curati nei minimi particolari ed ariosi in pieno stile Eighties.

Il songwriting è di livello assoluto, basti pensare ai vari Bernie Taupin, Martin Page, Robert John “Mutt” Lange e Tommy Funderburk, che hanno prestato la loro penna alla realizzazione di questa opera.

continua

Burns Blue
What If

LEGGI LA RECENSIONE

BURNS BLUE – What If – gemma sepolta

04 Febbraio 2019 2 Commenti Alessio "Sixx" Garzi

genere: Classic Rock / Melodic Hard Rock
anno: 2003
etichetta:
ristampe:

4 anni dopo il suo primo album solista, il godibile The Journey (1999), il chitarrista Vinny Burns (ex Dare, Ten ed Ultravox) ritorna in pista ancora una volta affiancato dal fidato vocalist Sam Blue (anche lui ex Ultravox). What If, uscito a nome BURNS – BLUE, continua il percorso musicale del precedente album, migliorando però sia nella produzione che nella qualità compositiva. La proposta, un solido hard rock melodico, pur derivativa dalle sue ex bands, soprattutto TEN, risulta più frizzante e varia.

La voce di Sam Blue, pulita ed impostata su toni medi, si adatta alla perfezione alla chitarra di Burns, non la sovrasta ed anzi la accompagna melodicamente lungo tutte le dodici tracce dell’album: una voce più accesa di quella di Gary Hughes e meno malinconica rispetto al tono di Darren Wharton.

La chitarra di Vinny Burns è totalmente messa a disposizione delle singole canzoni: il suo stile chitarristico, fatto di ritmiche ben presenti, suono “grasso”, soli di rifinitura, eleganti e mai invasivi, rende il pacchetto di canzoni compatto e piacevole.

continua

Tower City
A Little Bit of Fire

LEGGI LA RECENSIONE

Tower City – A Little Bit of Fire – Gemma sepolta

11 Maggio 2018 8 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

genere: AOR
anno: 1996
etichetta:
ristampe:

A Little Bit Of Fire dei Tower City rappresenta a mio avviso una delle uscite più sorprendenti e misteriose della storia dell’AOR.

L’arcano è tutto racchiuso nell’anno di pubblicazione del lavoro. 1996. Esatto, avete letto bene, 1996. Un annus horribilis per l’AOR. Tempi durissimi, tristi e mortalmente noiosi. L’AOR sembrava ormai morto e sepolto, soppiantato dalla pseudo rivoluzione grunge. Tempi in cui se ti chiedevano cosa ascoltassi, e rispondevi “AOR”, la massa ti osservava con il vuoto cosmico stampato in volto.

Risulta, quindi, un’impresa estremamente ardua e dai toni anche in parte misteriosi capire perché, in questa atmosfera di decadenza e grigiore, i Tower City potessero essere usciti con il loro strepitoso lavoro. In realtà, in parte, possiamo spiegare l’arcano, facendo presente che l’album era stato ultimato già nel 1992 ed era destinato ad essere travolto dalle minacciose nubi del grunge che si addensavano all’orizzonte. Fu solo grazie alla MTM Records che l’album trovò la luce, proprio nel 1996.

I Tower City erano i due fratelli Saltis: il cantante Larry negli anni ottanta aveva ottenuto un certo successo con i New Monkees, ed Heath si occupava di batteria e tastiera.

A Little Bit Of Fire è un diamante AOR dalla purezza incontaminata, e dotato di una classe sopraffina. Arena rock del genere più maestoso e solare, chorus anthemici e solenni, cori celestiali e melodie ottantiane fino al midollo. Questo è A Little Bit Of Fire.

Ascoltate l’opener Talking To Sarah per rendervene conto. La magnificenza del coro, trasportato da un tappeto tasti eristico ridondante, vi trasporterà via.

E poi A Little Bit Of Fire, che è gioia pura all’ascolto. Il miglior pezzo del lavoro, e forse uno dei cori AOR più solari che io abbia mai ascoltato.

I’ll Sleep Tonight è una power ballad che quando inizia a martellare con la tastiera ti prende il cuore e te lo mette in un frullatore! I Giant avrebbero pagato oro per realizzare un pezzo così.

Closer To The Heart ti spara subito in faccia un pazzesco intro di tastiera, ed esplode in un coro urgente e maestoso.

Stop Runnin’ è un pezzo di maestosa melodia, che si sviluppa in un continuo crescendo sonoro.

E poi ancora l’intero album presenta ancora anthem festaioli (Hooked On Hope, Love and Money) o ballad strepitose, come Surrender.

A Little Bit Of Fire rappresenta davvero l’anima della sezione Gemme Sepolte di Melodic Rock.it, perché veramente di lost gem si tratta. L’album pagò solo il fatto di essere arrivato a festa ormai finita, quando tutti stavano sbaraccando, e le luci sulla Los Angeles dell’AOR stavano ormai tramontando. Anzi, rischiò veramente di non vedere mai la luce, e sarebbe stato un peccato mortale.

I Tower City pubblicarono anche un secondo lavoro, All Or Nothing, che conteneva pezzi AOR di grandissimo livello, come All Or Nothing, Fire With Fire o I Won’t Surrender. Inoltre, nel 2011, uscirono con una compilation dei due lavori e quattro nuovi pezzi.

Ammetto candidamente che tutt’ora, e molto spesso, la solarità di A Little Bit Of Fire e la maestosità di I’ll Sleep Tonight mi riempiono casa. D’altra parte è smisurato lo stacco, sia compositivo che di resa sonora, con cui A Little Bit Of Fire si erge sopra gran parte delle uscite odierne. Stiamo parlando di un lavoro passato inosservato in modo quasi criminale, per il quale chiedo, ancora oggi, almeno un po’ di giustizia.

HAYWIRE
BAD BOYS

LEGGI LA RECENSIONE

Haywire – Bad boys – classico

29 Dicembre 2017 1 Commento Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

genere: AOR/MELODIC ROCK
anno: 1986
etichetta:
ristampe:

Gli Haywire erano una band canadese di melodic rock, e il loro primo album Bad Boys non può essere considerato una vera e propria gemma nascosta. All’epoca, infatti, avevano raggiunto un certo successo, cavalcando la scena al momento giusto, quando ancora i fasti erano tutti per il nostro genere, e il melodic rock riempiva gli stadi.
Credo però che il ricordo degli Haywire si sia un po’ affievolito col passare del tempo, e sempre meno spesso vengono citati tra le bands di maggior spessore della Golden Era.
La mia idea di recensire Bad Boys nasce proprio dall’esigenza di rimetterli dove meritano, lassù, nell’Olimpo del melodic rock. Se volete assaporare lo spirito dei magici Eighties, beh ..ascoltare Bad Boys deve essere un passo imprescindibile! Non a caso a produrre l’album fu la leggendaria etichetta canadese Attic Records, e il risultato fu questo spettacolare lavoro pubblicato nell’anno di grazia 1986.
Gli Hawyire proponevano un melodic rock pulitissimo ed estremamente patinato, dove le tastiere e i cori solari esplodevano alla grande, come le regole del tempo esigevano, e come personalmente io amo a dismisura.

continua

Bad English
Unreleased Thid Album?

LEGGI LA RECENSIONE

Bad English – Unrealised Third Album? – gemme sepolte

06 Giugno 2017 14 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

genere: Aor / Melodic Rock
anno: 1992?
etichetta:

Gli anni ottanta sono stati maestosi, solenni. Magnificenti.

Erano gli anni del lusso sfrenato, e ostentato. Erano gli anni della voglia di successo, da ottenere ad ogni costo.
Negli Stati Uniti erano gli anni di Ronald Reagan. E poco importa oggi se qualche bugia poteva averla detta, perché Reagan sapeva far sognare gli americani. Sapeva interpretare la magia di quel tempo, sapeva rassicurare il suo popolo, facendolo sentire invincibile.
Dopo il grigiore degli anni settanta, nella società americana era nata una nuova voglia di godersi la vita, di godersi tutto della vita, un nuovo modo di pensare, e chi se ne fregava se era da egoisti. La vita era una gara, e se ne sbatteva di chi restava indietro.
L’AOR era il genere musicale perfetto, creato ad arte per rappresentare questo clima, allegro e festaiolo. In particolare fu Los Angeles la sua culla. Dalla città degli angeli venivano sparati al cielo i nuovi inni alla vita, di chi si sentiva forte e di chi credeva in se stesso, facendoli risuonare tra le spiagge assolate, gremite di bellissime e biondissime ragazze in bikini, e le ville di Malibù.

Poi d’un tratto gli anni ottanta iniziarono a tramontare, e all’orizzonte si addensavano nubi minacciose, accompagnate dalla cupa sagoma di un depresso ragazzotto di Seattle che non voglio neppure nominare.
Non curanti di queste nubi, alcuni nostri eroi continuavano imperterriti a sfornare i loro capolavori, come se il sole dovesse durare ancora all’infinito. I Bad English furono tra questi nostri eroi.
Ebbero vita breve, solo tre anni, il tempo di un bagliore, ma di una luminescenza mai vista prima. E anche se la festa era quasi finita, rappresentarono l’AOR come nessuno fece mai. Ma di questo non possiamo sorprenderci, perché, unito alla voce cristallina di John Waite, il cuore pulsante della band era rappresentato da Neal Schon e Jonathan Cain, che avevano inventato l’AOR con i Journey.
D’altra parte, sul finire degli anni ottanta, l’AOR stava virando su un territorio più metallico, con toni più alti, chitarre più ridondanti e batterie più roboanti, pur senza intaccare le solari linee melodiche. A pensarci bene, si trattava di un equilibrio molto precario, su una linea di confine molto instabile. Bisognava essere dei fenomeni per restare su questa linea, e, signori, i Bad English lo erano.
Gli unici due album della band, l’omonimo del 1989 e Backlash del 1991, sono celestiali spettacoli di AOR. Backlash uscì quando i Bad English ormai non esistevano praticamente più, e questo fa paura solo a pensarlo.
Eravamo in pieno 1991, e la tempesta ormai stava arrivando.

continua

RIO
BORDERLAND

LEGGI LA RECENSIONE

Rio – Borderland – Gemma Sepolta

08 Febbraio 2017 3 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

genere: AOR/MELODIC ROCK
anno: 1985
etichetta: 2010- Krescendo Records ‎
ristampe: 2010- Krescendo Records ‎

Di ritorno da uno dei miei viaggi indietro nel tempo, dagli Eighties oggi vorrei recuperare i Rio, con il loro bellissimo Borderland.
I Rio erano nati dall’amicizia tra Jon Neill e Steve Rodford, e venivano dal Regno Unito. Il loro era un FM-AOR estremamente ovattato e patinato, proprio come quegli anni di grazia richiedevano, straripante di grandi cori, e tutto molto States-oriented.

Ebbene, nell’anno del Signore 1985 diedero alle stampe un fenomenale lavoro intriso dell’anima di quei tempi. Un lavoro che ancora oggi, dopo più di trent’anni, ripulito dalle poveri dei decenni e dalle ceneri del grunge, può esplodere ancora di romantiche melodie, ma con un’urgenza pazzesca.

Apriva le danze I Don’t Wanna Be your Fool, energica e fanciullesca, sostenuta da un tappeto tastieristico spaventoso.
Straight To the Heart è più matura, solenne come non mai nell’intro, ma carica a mille nel bridge, per poi scatenarsi nel chorus.
Tommy Can’t Help it è una perla AOR, un mid-tempo dai tratti quasi Hi Tech, con un chorus epico.
Continuiamo con Better This time, scanzonato AOR di pregevole fattura, e State of Emergency, il lato duro della band, urgente nel suo incedere.
A questo punto, signori, arriviamo a Shy Girl che è l’autentico capolavoro. Pazzesca, fenomenale. Assolutamente dentro la mia personale top ten della storia dell’AOR. Le aperture iniziali della tastiera si fondono senza sosta con la chitarra, in un maestoso brivido sonoro, sempre in crescendo, fino al chorus che ti spazza via, letteralmente.
She’s a Virgin propone un altro pezzo che profuma di spensieratezza Eighties.
Close to you è una semi-ballad dal chorus solenne e urgente.
Borderland è anthemica ed epica, ed è il suggello perfetto per la fine del disco.

Dopo questo lavoro i Rio diedero alle stampe Sex Crimes, che presentava un sound un po’ più duro e sporco, poi nel 1987 cambiarono nome in Big Talk e uscirono con dei demos, tornando su sonorità più leggere. A quel punto i nostri due eroi si persero tra le nebbie dei tempi. Ormai la magia di Borderland  si era esaurita.
I motivi per cui il disco non ebbe successo sono veramente inconoscibili. Il sound era quello giusto, l’anno di pubblicazione era perfetto, a metà di quella che fu la Golden Era dell’AOR, e la triste tempesta del Grunge era ancora sufficientemente lontana. Forse malsane divinità avevano deciso che i Rio non dovevano avere successo.
Ebbene, sta anche a noi adesso, dopo più di trent’anni, fare sì che questo gioiello non vada completamente dimenticato. Perché è indubbio che, nell’intera storia del melodic rock, Borderland ne deve essere considerato un superbo caposaldo.