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Classici

Shadow King
Shadow King

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Shadow King – Shadow King – Gemma Sepolta

02 Maggio 2021 13 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 1991
etichetta: Rock Candy 2018
ristampe: Rock Candy 2018

In ambito di rock melodico il 1989 è forse stato l’anno aureo per eccellenza sia per qualità che per quantità, ma se andiamo a controllare i nostri archivi discografici, vedrete che il 1991 non è stato sicuramente da meno, solo che le orecchie e le attenzioni delle etichette discografiche erano già volte altrove e si stava già pianificando una virata verso altri lidi che sarebbero diventati mainstream di lì a breve. Ci fu quindi quasi una corsa a ” svuotare il catalogo” per fare uscire dischi ormai contrattualizzati senza poi starci dietro più di tanto, una sorta di sottocosto volto a liberare i magazzini.
In questo contesto esce questo supergruppo dove Lou Gramm si contrappone ai suoi ex Foreigner che usciranno anche loro quell’anno con il mezzo flop commerciale Unusual heat.
Supergruppo dicevo, costruito a tavolino e pilotato dal polistrumentista e co autore Bruce Turgon che dirige il lavoro completato da un Vivian Campbel, che pur svolgendo il compitino stretto a lui assegnato, contribuisce al sound  con i suoi tocchi di classe per niente scontati; dietro le pelli  troviamo infine l’esperto ed affidabile  Kevin Valentine.
Il disco è magistralmente prodotto da Keith Olsen e propone dieci gemme assolute di Rock melodico , tanta melodia viene però mitigata dal lavoro chitarristico più hard che fa da contrappunto alle inevitabili sortite in stile Foreigner di Gramm , splendidi esempi sono: What Would It Take , This Heart Of Stone , Once Upon A Time e Boy.
La parte più  Rockeggiante viene fuori in  Danger In The Dance Of Love dove la chitarra di Campbell ruggisce di più. Splendida inoltre la supermega ballad da lacrimuccia, Don’t even know i’m alive (Foreigner allo stato puro), ma il disco non ha cali di tensione emotiva e tutte le canzoni sono di qualità sopraffina.
L’ultimo pezzo, l’unico tra l’altro dove mette la penna Vivian Campbell, è la meravigliosa ballad semiacustica Russia dove i sussurri e la voce di Gramm si appoggiano, con una magia evocativa unica, sulle note della chitarra , una canzone che da annoverare nei must assoluti del genere.

Ora io spero che lo abbiate tutti nella vostra discografia e che quindi questa sia solo un’occasione per togliere un po’ di polvere e rimetterlo nel lettore cd, perché nel caso non lo aveste, sappiate che non vi verrà riservato il posto nel paradiso dei melodic rockers.
Credo inoltre che sarebbe il caso di dedicare una esaustiva retrospettiva ai primi tre anni dei “maledetti ” anni 90 che meriterebbero di essere raccontati in tutta la loro meravigliosa agonia.

Nuclear Valdez
I Am I

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Nuclear Valdez – I Am I – Gemma Sepolta

13 Aprile 2021 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Pop Rock/Melodic Rock
anno: 1989
etichetta:
ristampe:

Che bellissimi anni quelli dall’ 87 al 92,  dove un teenager che come me si stava innamorando dell’hard melodico, ha potuto vivere in diretta uscite spettacolari ed altre, che seppur con minore riscontro commerciale, degne comunque di nota , tutte comunque figlie di un periodo florido dove le majors si scannavano per proporre gruppi e nuovi talenti a tutto spiano.
Proposta infatti abbastanza originale quella di questi Nuclear Valdez, che al contrario del nome, propongono un disco molto melodico anche se di non facile etichettatura….. si potrebbe definirli un Melodic rock chitarristico con connotazioni vagamente folkeggianti , a volte ricordano un po’ Tom Petty in salsa ispanica dalle venature malinconiche, altre volte non si disdegna rivolgere l’occhio al sound di Santana con tocchi di blues.
Il quartetto di Miami di chiara discendenza cubana e dominicana, non si avvale di un tastierista di ruolo e il suono che viene proposto è un melange di melodia, grinta ed introspezione,  mostra sempre una certo piglio rock anche nei suoi passaggi più compassati ed il merito è certamente anche della voce accattivante e caliente di Froilan Sosa che fornisce una prova veramente di buon livello.
Canzoni degne di nota ce ne sono diverse a cominciare dall’ opener Summer col suo ritmo sostenuto , il  ritornello catchy e le ottime linee vocali, che al tempo valsero anche l’ingresso in classifica. La successiva Hope che paga pegno a Santana rendendogli omaggio. If I Knew Then è un bluesettone passionale e malinconico, mentre Eve è un hard pop semiacustico di gran presa , sarà poi riproposta riarrangiata in chiave più elettrica ( e secondo me più efficace) nell’ album successivo. Si fa notare per le sue qualità anche Apache, dal ritmo tribale e l’incedere veloce, e molto bella, con i suoi tratti folk è la successiva Run Through The Fields.

Insomma un disco non ordinario , ma senza dubbio gradevole,  per i timpani fini e tutti gli amanti della melodia ad ampio spettro. La produzione è eccellente e pienamente negli standard elevati dell’epoca, i testi non sono mai banali, e gli interpreti offrono una prova veramente di livello per un esordio discografico.
Vi fosse sfuggito…..

A proposito, molto valido è anche il seguente Dream Another Dream uscito nel 1991 sempre per epic , quindi se questo disco vi ha stuzzicato suggerisco di procurarsi anche l’altro.

Journey
Escape

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Journey – Escape – Classico

25 Marzo 2021 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1981
etichetta:
ristampe:

Come quando la polvere cosmica comincia a radunarsi intorno ad un centro di gravità, fino a raggiungere la massa critica che innesca i processi nucleari al suo interno dando vita ad una stella, tutto quello che è derivato da Escape ha dato vita al movimento melodico, dando origine a ciò che chiamiamo AOR ed a quello che fino ad oggi ne è seguito. Almeno per quanto riguarda l’aspetto commerciale è proprio nel 1981 con Escape che ha origine l’AOR, musicalmente infatti qualche atmosfera era cominciata a virare verso queste sonorità e per esempio, i Reo Speedwagon di Hi Infidelity ed il primo Loverboy sono dei prototipi che troveranno la sublimazione definitiva proprio con la genesi di Escape. La perfetta quadratura del cerchio, tra melodie irresistibili, suoni scintillanti e produzioni sopraffine. Per me , che causa anagrafe, il nome Journey è stata una scoperta fatta tra l’89 e il 91 per via delle uscite di Bad English e The Storm, ripercorrerne la storia è stato come un magico viaggio nel tempo fino alla sorgente primigenia di queste sonorità.

La loro avventura inizia infatti nel 73 quando la band si formò attorno all’allievo di Santana Neal Schon come chitarrista e Gregg Rolie alle tastiere e alla voce. La formazione si completò con il bassista Ross Valory e il chitarrista ritmico George Tickner e con il batterista Prairie Prince. E’ però alla fine degli anni 70 che con l’ingresso di Steve Perry alla voce che si comincerà a migrare verso un sostanziale cambio di sound e cominciare un vero e proprio percorso che terminerà con la genesi dell’ Aor. Altra spinta sicuramente cruciale in questa storia è venuta dalla Columbia, che già nel 1977 cominciò a fare pressioni sul gruppo  affinché commercializzasse di più il proprio sound, virando verso il rock radio friendly che cominciava in quegli anni ad appassionare il pubblico. Piccola parentesi sui corsi e ricorsi storici, il potere delle case discografiche nell’indirizzare le volte artistico commerciali ed orientare i gusti del pubblico, si ripeterà pari pari una decina di anni più tardi con la discesa delle camice flanellate che, per qualche anno, detteranno le nuove coordinate sonore mainstream. Chiusa la parentesi filosofica, torniamo a parlare delle pressioni che portarono nel 78 all’ingresso di Perry ed al nuovo corso sonoro che ebbe in Infinity, il suo primo embrione .Con l’aumento delle vendite ed il successo che comincia ad arridergli, i nostri eroi continuano nella maturazione del nuovo sound facendo uscire dischi con sempre maggiore appeal , Evolution e Departure proseguono la virata verso il rock da classifica, con produzioni via via sempre più centrate. L’ultimo cambio di formazione , ovvero l’ingresso dell’ ex Babys Johnathan Cain (proprio su suggerimento dell’uscente Greg Rolie), fornirà la definitiva scintilla che porterà alla nascita di Escape ed al  conseguente boom commerciale che fisserà i canoni di tutto il melodic rock per il decennio seguente dall’alto dei suoi 9 dischi di platino. Con ben tre singoli numero uno per settimane e la strada del successo spalancata davanti, le canzoni dei Journey finirono ovunque, spot pubblicitari , film e serie tv cominciarono a diffondere quel tipo di sound ovunque , orientando i molteplici gruppi che seguiranno a pescare a piene mani dal repertorio di idee dei Journey,  nasceranno come funghi miriadi di Steve Perry clones, creando un vero e proprio fenomeno di costume collettivo.

Parlando delle canzoni ,  praticamente non c’è niente fuori posto ed il trittico di compositori Cain , Schon, Perry non sbaglia un colpo, sia quando si cimenta nei pezzi più ritmati e duri quali Lay It Down e Keep On Running, sia quando si vanno a toccare atmosfere piu’ bluesegianti come in Dead Or Alive. I mid Tempo come Stone In Love e le ballad sognanti come Still They Ride saranno esempi iconici del sound Journey ed anche la ricercatezza di pezzi come la title track e Mother Father sono avanti anni luce rispetto alla media del periodo. Poi il trittico Don’t Stop Believin, Who’s Crying Now e Open Arms, canzoni che a quarant’anni di distanza sono cantate a squarciagola da milioni di fans e che rappresentano un vero e proprio simbolo di classe e melodia. Non facciamoci dunque ingannare dall’appeal commerciale, qui c’è tanto hard rock pieno sì di melodia , ma anche di feeling ed energia a fiumi, che anche grazie alla iperproduzione di Kevin Elson e Mike Stone si mischiano in un melange maestoso mai udito prima.

Insomma mi rendo conto che qui si rischia di esagerare con i superlativi, ma c’è poco da fare, il melodic rock resterà per sempre legato al nome di questo gruppo. Basti pensare che Escape e Frontiers sono anche i nomi di due case discografiche che dai travagliati anni novanta fino ad oggi ,  contribuiranno in modo determinante a tenere viva la fiamma della melodia.  A proposito, ci potrebbero essere discussioni tra chi preferisce Frontiers ad Escape , ma sinceramente siamo su livelli talmente eccelsi che la considero pura filosofia, ho semplicemente scelto Escape perché è con questo disco che avviene la trasformazione vera e propria del sound e nasce il mito Journey.

Della reperibilità nemmeno parlerò , esistono talmente tante versioni e tra remaster , bonus track, cofanetti , vinili, cd e chi più ne ha più ne metta. Il Disco è da avere ad ogni costo la versione ed il supporto sono l’ultimo dei problemi. Quaranta anni di storia cominciano qui, dovete solo aprire il libro.

Coverdale Page
Coverdale Page

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Coverdale Page – Coverdale Page – Gemma Sepolta

15 Marzo 2021 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1993
etichetta:
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Quello che è utile nei matrimoni d’interesse è che svolgano la funzione per cui sono stati celebrati e questo disco ne è la plastica dimostrazione. Il connubio tra questi due mostri sacri dell’ hard rock nasce infatti dagli interessi coincidenti dei due protagonisti e saranno portati a completa realizzazione proprio grazie a quest’opera. Jimmy Page non è mai riuscito a digerire completamente la fine dei Led Zeppelin e nonostante i progetti solisti e i due album dei The Firm ( con Paul Rodgers) l’astinenza da dirigibile era sempre pressante, non riuscendo a convincere Plant, che nel frattempo se ne era fatta ben più di una ragione, ha tentato la carta della gelosia, ovvero fare un disco con quello che tutti consideravano l’emulo più credibile e famoso di Mr. Plant. Coverdale dal canto suo dopo i polveroni commerciali di 1987 e Slip Of The Tongue aveva ancora una volta smontato gli Whitesnake e dopo gli ennesimi problemi di salute era in attesa di qualcosa che non rischiasse di essere un buco nell’acqua, dopotutto il vento degli anni 90 aveva cambiato direzione e il pericolo di finire in disgrazia era concreto. Quindi quando il boss della Geffen ( distributrice per gli usa degli Whitesnake) iniziò a tramare per un progetto comune per i due artisti trovò il terreno super fertile ed in men che non si dica i due cominciarono a produrre musica. Il disco fu registrato in quattro differenti sessioni ed altrettanti studios ( tra i quali gli Abbey Road di Londra) , nelle canzoni infatti si percepiscono anche i vari stadi di miglioramento della voce di Coverdale.

Il frutto di questi sforzi si espleta in undici solide canzoni che partendo dalla comune matrice blues, si sviluppano ora più nella direzione classica degli Zeppelin ora più verso la matrice Hard Rock più chart oriented degli Whitesnake 2.0. Infatti il disco pur essendo uscito nel 1993, vende abbastanza bene, i problemi saranno più durante i tour, che non adeguatamente supportati segneranno un mezzo flop, decretando così la fine del progetto. Nonostante tutto però gli obbiettivi dei due deus ex machina saranno raggiunti. Coverdale mostrerà di essere ancora in palla e dopo un album blues e un live acustico ( assolutamente splendido) riprenderà in mano gli Whitesnake fino ai giorni nostri, l’operazione gelosia infine riporterà Page e Plant (che nel frattempo ebbe a definire David il “Cover…Version”) insieme sul palco e collaborare ancora…. e vissero tutti felici e contenti.

Questo disco non va però ripescato solo per la sua funzione storica o per il gossip che generò; qui ci sono pezzi di alta scuola , Shake My Tree con il suo riffettone blues e le spiccate tematiche sex oriented tanto cari ai Whitesnake prima maniera, il lento Take Me For A Little While ovvero una sorta di Sailing Ship ancor più emozionale, Pride And Joy zeppeliniana nel suo intimo profondo ed Over Now che innesta parti molto Hard Rock in una atmosfera Khasmiriana originale e familiare allo stesso tempo. Altre menzioni meritano Absolution Blues che inizia  con il chitarrone di Page, su cui Coverdale offre una prestazione notevole ed infine la grandiosa Whisper A Prayer For The Dying, un pezzo etereo e mistico con un’altra grande prova offertaci da Mr. Page.

Insomma il disco è di livello assoluto e addirittura  David Coverdale ha dichiarato che siccome erano già pronti sei brani per l’eventuale sequel, si starebbe accordando con Page per una edizione remasterizzata con queste track in aggiunta, questo significa che probabilmente toccherà preparare i nostri portafogli, con la speranza che la remasterizzazione possa correggere un po’ di difetti della produzione originale che sicuramente non era a livelli  eccelsi……..Preghiamo fratelli e sorelle, preghiamo.

Van Stephenson
Suspicious Heart

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Van Stephenson – Suspicious Heart – gemma sepolta

10 Marzo 2021 6 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR
anno: 1986
etichetta:
ristampe:

L’8 aprile di quest’anno saranno 20 anni che Van Wesley Stephenson, più semplicemente Van Stephenson, ci ha lasciato, prematuramente, a causa di un melanoma col quale combatteva da oltre un anno.
Il primo pensiero che mi viene alla mente se penso a questo Artista Vero proveniente dall’Ohio, Hamilton, oltre le innumerevoli collaborazioni avute con Signal e Giant tra gli altri, è una ristampa di Suspicious Heart a cura della tedesca High Vaultage edita nel 1996 che riporta sul libretto dei testi un pensiero dello stesso Van Stephenson rilasciato nello stesso 1996 in occasione della doppia ristampa (SH e Righteous Anger del 1984, rispettivamente terzo e secondo album da solista dopo il debutto “China Girl”del 1981):
credeva nella ristampa di entrambe gli album perché anche se erano passati 10 anni e poco più dalla nascita di quei brani, li reputava ancora ottime canzoni in grado di dispensare emozioni.
Ora da quel lontano 1996 sono passati altri 25 anni (!!!) e quelle canzoni continuano a essere una fonte inesauribile di emozioni, argomento di discussione tra i fans e punto di riferimento nonché influenza per gli artisti che si intraprendono la difficile strada(almeno per bontà e quantità di riscontri) dell’AOR.

Confermata una backing band di primissima fascia (la medesima di Righteous Anger) tra i quali Dan Huff alla chitarra e Alan Pasqua ai tasti d’avorio che da li a poco troveremo nei Giant, Mike Baird (Michael Bolton, Joe Cocker e altri innumerevoli collaborazioni) alla batteria.

Perennemente sospeso tra romanticismo e malinconia, rispetto al suo predecessore le scelte virano sulla ricerca di arrangiamenti notturni e scintillanti, caratterizzati da una scelta di suoni mai banali, enfatizzati da una produzione stellare.
E’ un disco dannatamente completo e meravigliosamente immediato condito dal timbro di Van Stephenson, l’anello ben presente per elevare il disco allo status di Masterpiece.

Apre le danze “We’re doing alright”, arriviamo al primo bridge ed è chiaro sin da subito il sentiero che l’intero disco percorrerà.
Rimarremo meravigliati dai colori e dalle emozioni che proveremo durante il cammino.
La ricerca della speranza in musica continua con “We Should Be Togheter Tonight”,
colori notturni disegnati dalle keys di Alan Pasqua
E’ malinconia allo stadio musicale la title track, condita da un arrangiamento ricercato ed immediato e fa coppia con “Desperate Hours”.
Semplice Romantica e Diretta la ballad “Never Enough Night”, la quale profuma del primo Bryan Adams.
Sul finale del disco l’anima Rock del nostro torna con “Fist Full of Heat”, ripresa dai Sunstorm di Joe Lee Turner nel primo capitolo. La chitarra di Dan Huff fino ad ora utilizzata per avvolgere, accarezzare i brani con inserti mai banali e arricchire il bagaglio emotivo di ogni singolo brano, alza il wattaggio, diventa lo strumento principe, si prende la scena e accompagna i ritornelli di “Glamourous” e apre le danze nella conclusiva “No Secrets”.

Un capolavoro musicale che mancherà la classifica di Billboard e che porterà il nostro, dopo aver registrato una serie di demo di bellezza incommensurabile (andatevi ad ascoltare sul tubo le demo di “Never in a Milion Years ” e di “Grand Illusion”, pensatele registrate e prodotte a puntino e lasciatevi travolgere dai brividi), alla musica country e a formare nel 1993 i BlackHawk, riscuotendo finalmente e meritatamente un ottimo successo negli States.

Van Stephenson ha perso la sua battaglia per la sopravvivenza terrena molto presto a soli 47 anni; tutti noi, chi prima chi poi, perderemo questa battaglia, ma la sua musica, la sua arte ha ampiamente superato la prova del tempo.

Heavens Edge
Heavens Edge

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Heavens Edge – Heavens Edge – Gemma Sepolta

27 Febbraio 2021 10 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock / Class Metal
anno: 1990
etichetta: Rock Candy 2010
ristampe: Rock Candy 2010

Per la rubrica , cosa diavolo è andato storto?  Ecco a voi gli Heavens Edge.

Il disco è uscito all’inizio del 1990 quindi in epoca non ancora di declino, etichetta CBS e dunque una Major… il disco è prodotto benissimo da Neil kernon , quindi non proprio al risparmio. La musica è un ibrido tra hard rock e class metal,  con chitarre taglienti e scintillanti Dokken style e una voce perfetta per il genere, pezzi spacca cervicale a go go ed almeno un lento strappamutande, un disco che nel complesso poteva piacere ai metallers più ortodossi e ai ” mollaccioni” più avvezzi alla melodia. Invece tutto quello che ne è suguito è una uscita fatta dopo vent’anni con gli scarti del primo e due tre Song che dovevano uscire sul successivo…. cosa è andato storto?

Le canzoni sono veramente valide basti pensare a Play Dirty, tagliente ma catchy , energica  ma melodica, tutti i giusti ingredienti. Skin to Skin non è molto distante dallo stile Skid Row che spopolava in quel periodo, Find Another Way è una squisita power ballad con un robusto guitar work addolcito a tratti da precisi inserti di tastiera. Up Against The Wall è un hard rock veloce e danzereccio al quale segue un vero e proprio gioiellino Hold On To Tonight, ballad si passionale , ma assolutamente non melensa che abilmente riesce a muoversi a cavallo tra melodia ed energia. Can’t Catch Me è un hard martellante con una ritmica serrata,  Bad Reputation parte piano per poi svilupparsi in un class metal che a tratti ricorda i Fifth Angel più melodici , così come il serrato e quasi metal riff che sorregge Daddy’s Little Girl. Is That All You Want ?, è invece un blues distorto che è fatto apposta per l’esecuzione live , seguito dalla gradevolissima e radio friendly Come Play The Game. Chiusura per quello che forse il pezzo più debole ovvero Don’t Stop, Don’t Go un hard rock tirato , ma tutto sommato confusionario.

Tirando le somme abbiamo un disco con 10 pezzi di alto livello, che grazie alla produzione di Kernon suonano divinamente, ma che è passato inosservato ai più. Probabilmente il più grande problema di quegli anni era proprio la sovrabbondanza di uscite e la noncuranza della promozione delle case discografiche che lanciavano nella mischia frotte di gruppi che, per la maggior parte, erano destinati a sparire nell’oblio. Sono stati bruciati così molti artisti e dischi di valore fino ad un paio di anni dopo , quando le camicie a quadri di flanella presero definitivamente la scena e fu veramente il declino.

Vista la ristampa Rock Candy penso che non sia né difficile né particolarmente dispendioso recuperarlo, fateci un pensierino.

Boulevard
Into The Streets

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Boulevard – Into The Street – Classico

20 Febbraio 2021 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1990
etichetta: Metal Mind 2010
ristampe: Metal Mind 2010

Dopo aver trattato del primo Blvd nelle gemme sepolte (leggi qui), ed avere recensito ( recensione di Iacopo Mezzano) il più recente IV Luminescence (leggi qui), credo sia venuto il momento di chiudere il cerchio e parlare anche di quello che i dai più viene considerato il loro classico, ovvero Into The Street.

Il disco è uscito a due anni dal precedente e vede due cambi di line up alla sezione ritmica con l’ingresso di Tom Christiansen e Randall Stoll, mentre la produzione viene affidata a John Punter, noto per aver prodotto artisti come Brian Ferry, Nazareth , Roxy Music etc… Dalle nostre parti il disco è rimasto in semiclandestinità ; mentre il primo lo si trovava tra i cd forati e nei vari mailorder te lo tiravano dietro a poche lire, su questo Into The Street era calato il mito della irreperibiltà, che aveva relegato a pochi eletti la possibilità di godere di questo gioiello. Per fortuna grazie ai vari portali di vendita on line e successivamente anche alla ristampa della polacca Metal Mind, reperire questa chicca non è più impresa improba. Resterebbe sempre da chiedersi perché le major ( e la MCA è stata maestra in questo) spendessero fior di quattrini per produrre e stampare opere per poi lasciarle in balia delle onde senza un minimo di promozione, ma questa è tutta un’altra storia.

Passiamo al materiale contenuto nell’ lp. I fans più accaniti avranno subito notato la presenza di Rainy Day In London, ballata nostalgica ed espressiva. Questa canzone è stata il vero e proprio esordio discografico dei Boulevard nel 1984 (anche se con un altro cantante)  ed ebbe anche un discreto riscontro mitteleuropeo. Viene qui reincisa e riproposta in chiave Aor amalgamandola così al resto del materiale. Questo disco , rispetto al predecessore, mostra una chiave più definitamente adult orientated, “indurendo” alcuni arrangiamenti che nell’esordio volgevano più marcatamente al pop/rock. Esempi lampanti di questo affinamento sonoro sono l’opener Talk To Me, con il riff di chitarra ben in evidenza, non soffocato, ma anzi supportato dalle tastiere, ed anche la splendida ballad Where Is The Love,  si erge matura e di classe seguendo il registro Aor per definizione. Una dinamica comune ad altri gruppi del filone canadese che adora galleggiare tra le linee tra pop/rock ed aor, come ad esempio i Glass Tiger, tanto per citare un nome. Lead Me On ondeggia di più sul lato Pop grazie all’uso dei synth ed al ritornello molto catchy, così come Eye Of The Hurricane che occhieggia con malizia ai Loverboy ed evidenzia la parte rockeggiante con il  solo di chitarra centrale. Light Of A Day mostra una struttura che rimanda ad un mix tra Stan Bush e Tim Feehan, ritmica sostenuta su base fortemente keybord oriented, suadente ed energica. Crazy Life poggia su un giro di basso ritmato e ballabile, mentre di Rainy Day In London ho già accennato in precedenza quindi non resta che gustarsi la sua melodia ed il solo finale di sax. Ritmata e sopraffina è Where Are You Now dove ad una splendida trama melodica si uniscono arrangiamenti veramente lussuosi. Need You Tonight è un brillanteAor giocato sull’equilibrio tra i contrappunti chitarristici e gli incroci di sax. Chiude Eye To Eye con le sue venature soul ed i fiati in evidenza.

Insomma un album di buon vecchio Aor a tutto tondo, che esplora il genere in tutte le sue sfumature con la collaudata ricetta canadese, sempre piena di buon gusto. Se sia più bello questo o il primo disco è un dibattito puramente filosofico guidato dai gusti e dalla sensibilità personale, quello che invece è certo è che siamo in presenza di un disco che ogni appassionato di melodia dovrebbe fare suo.

Whitesnake
1987

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Whitesnake – 1987 – Classico

06 Febbraio 2021 43 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1987
etichetta:
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Mettetevi pure comodi, qui non ce la sbrigheremo certo in cinque minuti. Parlare di 1987, uno degli album più iconici dell’hard rock anni 80 richiederà infatti un po’ di impegno e di ricostruzione storica.

Il Deus Ex Machina del Serpente Bianco è sempre stato David Coverdale , fino dalla fondazione del gruppo nel 1977 , ha sempre fatto e disfatto a seconda del capriccio e dell’ ispirazione del momento. Già con l’album Slide It In del 1984 l’idea della conquista del mercato americano, storicamente sempre freddino verso l’hard rock made in europe, stava infatti prendendo forma nello smisurato ego di David. Fomentato dalla Geffen , che curava la distribuzione americana degli Whitesnake, ed avendo già in effetti sciolto la formazione che registrò Slide It In, fu affiancato dall’ex Thin Lizzy John Sykes nella stesura, e dallo storico bass player Neil Murray negli arrangiamenti, di quello che diverrà poi il più grande successo firmato Serpente bianco ovvero, 1987. Superati anche i problemi di salute di Coverdale , che avrebbero potuto metterne a rischio la carriera, l’ album vede finalmente la luce. Sarà un vero e proprio crack planetario (12.000.000 di copie vendute) ed uscirà con tre titoli diversi (1987, Whitesnake ,Serpens Albus) per i mercati europeo , americano e giapponese. Dulcis in fundo, i video promozionali ed il tour saranno fatti con una formazione totalmente diversa ( Vandemberg-Campbell alle chitarre , Sarzo al Basso , Aldridge alla batteria) da quella che registrò in studio, proprio per i dissidi tra il gruppo ed il buon David, con inevitabile querelle legale con Sykes, co-autore di buona parte del disco.

Chiusa dunque a grandi linee la parte storica e di cronaca, veniamo a parlare di ciò che ha rappresentato musicalmente questo disco. Come vendite e successo è stato sicuramente uno di quei platter che ha segnato un’ epoca, ma… musicalmente? Per i vecchi fan fu sicuramente un mezzo colpo al cuore. L’abbandono così repentino delle radici più marcatamente blues, non è stato così facilmente digerito da chi seguiva il Serpente bianco dagli esordi, quando Coverdale uscito dai Deep Purple cominciò a tracciare una rotta ben precisa fatta di Blues e Hammond. E’ oggettivamente vero però che per quelli della mia generazione, 1987 è servito come trampolino di lancio per andare indietro e scoprire, e come nel mio caso adorare,  i vecchi Whitesnake che camminavano nell’ombra del blues. Un disco che i detrattori all’epoca definirono, in maniera superficiale, mollo e commerciale per via del successo della super hit Is This Love, salvo restare atterriti davanti ai riff potenti e roventi di Still Of The Night. Userò queste righe per esprimere il mio personalissimo parere su quest’opera; vale a dire che l’unico difetto potrebbe essere proprio il fatto che in realtà non ha difetti. Mi spiego meglio, il disco è costruito per avere successo, ha la tecnica, le canzoni giuste, gli arrangiamenti killer ed una produzione de luxe, e se questi vogliamo considerali difetti…. allora ce’ poco da chiacchierare, va bene che sui gusti non si discute, ma qui è stato fatto tutto a regola d’arte e ne è uscita una vera e propria pietra angolare dell’ hard rock, che ha tracciato un solco indelebile per molti gruppi, anche negli anni a venire. Prendiamo la già citata Still Of The Night , ed i suoi riferimenti Zeppelin con tanto di chitarra che nel video viene suonata con l’archetto del violino, è semplicemente magnifica, dura ed audace, ma suadente e catchy allo stesso tempo. Bad Boys è un up tempo a presa super rapida ed estremamente ben rifinito. Give Me All Your Love, è quel brano che mira spudoratamente alla classifica e che non puoi fare a meno di cantare a squarciagola mentre guidi la macchina. Looking For Love è il primo lento del disco e consente a Coverdale di dare prova di tutta la sua suadenza vocale. Crying In The Rain è il primo dei due remake tratti da Saints And Sinners, ovvero la plastica dimostrazione che una grande canzone, seppur privata della parte più blues, ma dotata di più ritmo ed energia, resta sempre magnifica. Poi….beh poi…c’è “LA” ballad quasi per antonomasia ovvero Is This Love, canzone che Coverdale aveva scritto per farla interpretare da Tina Turner, ma senza nulla togliere, sono estremamente contento che l’abbia tenuta per se. Segue Straight For The Heart, e se non ha avuto molto risalto, è perchè nell’album ci sono cinque hit single ed altri cinque che avrebbero potuto diventarlo, in un qualsiasi altro contesto avrebbe fatto furore. Don’t Turn Away è malinconica ed appassionata e ci introduce all’hard rock potente ed elettrico di Children Of The Night, che farebbe ballare anche un cadavere. Secondo ripescaggio da Saints And Sinners, ovvero Here I Go Again , che era già splendida e che qui poggia sul tappeto tastieristico steso da Don Airey. Si chiude infine con l’ energetico hard rock di You’re Gonna Break My Heart Again.

Insomma; interpreti eccezionali, produzione stellare, canzoni memorabili, per un disco che anche oggi, a quasi trentacinque anni di distanza, resta un fondamento dell’hard rock, che ciclicamente bisogna ascoltare per ricordarsi da dove siamo venuti. Da possedere ad ogni costo.

 

Prophet
Cycle Of The Moon

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Prophet – Cycle Of The Moon – Classico

29 Gennaio 2021 15 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1988
etichetta: Z-records 2001 Wounded Bird 2009
ristampe: Z-records 2001 Wounded Bird 2009

Questo disco ai suoi tempi generò una discreta battaglia tra gli aficionados di etichettatura , ho letto veramente di tutto,  hard pomp melodic space rock e chi più ne ha più ne metta , ora io capisco che dare una etichetta ad un disco sia utile per fornire a chi stà leggendo una indicazione di massima sulla direzione sonora dell’opera in questione  ma,  come in tutte le cose, quando si cerca di andare troppo in profondità con le definizioni si rischia di perdere il quadro d’ insieme e si finisce per perdersi in una infinita battaglia filosofica fatta da fuffa e controfuffa.

In realtà , a mio modesto avviso , questo disco è puro hard rock a 360 gradi che non disdegna affatto gettare un’ occhiata curiosa su arrangiamenti tastieristici al limite del progressive e ritmiche tambureggianti al limite del metal, il tutto legato da una irresistibile vena melodica raffinata e di buon gusto.

Prophet, ma chi sono costoro? Fondati nel New Jersey nei primi anni 80 nella prima formazione stabile (Dean Fasano – lead and backing vocals ,Ken Dubman – guitars ,Joe Zujkowski – keyboards ,Scott Metaxas – bass, backing and lead vocals, acoustic guitar,Ted Poley – drums, backing and lead vocals) dettero alla luce nel 1985 all’omonimo debutto un notevole disco di cristallina melodia hard/Aor, successivamente dopo l’uscita di Fasano e Poley e l’ingresso alla batteria di Michael Sterlacci e Russell Arcara come cantante, riuscirono ad accaparrarsi un contratto con la Megaforce/Atlantic( altro mistero del music biz. visto che la Megaforce si occupava principalmente di Thrash) , che comunque li scaricò dopo Cycle of the moon ; successivamente uscì un altro discreto disco intitolato Recycled datato 1991.

Veniamo alle canzoni che compongono questo eclettico gioiello. La title track si muove intorno ad un sincopato giro di basso certamente non usuale in ambito melodico e sicuramente si resta spiazzati quando si passa alla successiva Can’t hide love, pregevole mid tempo dallo scintillante ritornello catchy e dalle ripetute punteggiature tastieristiche, alternanze e tempi dispari, cori filtrati, assoli taglienti ed intermezzi di matrice rush tutto mixato insieme. On the run invece è un pezzo che semplicemente non si può etichettare , ma solo adorare. Sound of a Breaking heart è una power ballad deliziosa e sognante a cui segue un class metal quasi dokkeniano con inserti di tastiere molto seventies intotalato Asylum.  Poi fermi tutti e giù il cappello davanti a Tomorrow Never Comes, un lento struggente che gira su un magistrale arpeggio semi acustico contrappuntata da archi e tastiere, con tanto di coretto ‘rubato’ ai Kansas, che personalmente entra nelle 50 più belle canzoni del genere in assoluto. Frontline è una canzone notturna ed urbana, molto eighties, con la sua nervosa ed ammiccante elettricità . Registro più heavy e ritornello che scuoterebbe anche i cadaveri, caratterizzano invece Hands of time, seguito poi da un pezzo che non ti aspetti e che secondo me ha ingannato parecchi all’epoca ovvero Hyperspace, quasi tre minuti di strumentale sperimentale di concezione progressiva che mostra la tecnica sopraffina dei nostri eroi che vanno  a concludere con Red Line Rider, martellante hard rock con chitarre al vetriolo.

Insomma si potrebbero scrivere parole a fiumi , ma il rischio di non rendere l’idea di cosa sia in realtà questo disco è concreto , c’è stato  un’altro disco che mi fece questo effetto, anche se le affinità di genere sono solo marginali , ed è When day and dream unite,  ovvero l’esordio dei Dream Theater , ci ho intravisto lo stesso genio e voglia di far saltare gli schemi che però  non hanno portato la stessa fortuna ai Prophet.

Viste anche le ristampe uscite successivamente alcune anche con bonus track , se non lo conoscete ascoltatelo e lo adorerete, se invece lo conoscete già è un’ottima occasione per metterlo sul piatto o nel cd e rinfrescare nuovamente il ricordo di un disco geniale.

Kiss Of The Gypsy
Kiss Of The Gypsy

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Kiss Of The Gypsy – Kiss Of The Gypsy – Gemma sepolta

20 Gennaio 2021 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1992
etichetta:
ristampe:

Ecco, questo disco potrebbe essere il perfetto prototipo della gemma sepolta, quasi una sua definizione enciclopedica, disco bellissimo (almeno per il sottoscritto) , periodo di uscita pessimo , nel 1992 anche i topi stavano abbandonando la nave hard rock che affondava, e dulcis in fundo una band inglese che voleva fare l’americana…. e tra le cose che agli yankees da fastidio beh…. diciamo che questa è una delle prime. Aggiungiamoci pure  l’inesistente supporto della casa discografica ad un progetto nel quale oramai il mercato mainstream non credeva più ed abbiamo il perfetto caso di cronaca di una morte annunciata.

Del quintetto del Lancashire l’elemento più famoso e probabilmente l’unico ancora attivo in ambito rock melodico è senza dubbio il cantante chitarrista Tony Mitchell , che tra l’altro è uscito con un disco nel 2020 che troverete nelle recensioni.

Quello che il gruppo proponeva è un hard rock di stampo blues, che più che rifarsi alla matrice di marca zeppeliniana della madre patria, va a pescare a piene mani nelle sonorità  più prettamente USA  andando anche, almeno a tratti , a sfociare sul versante southern , miscelando il tutto però con il buon gusto e la compostezza tipicamente British.

Dieci canzoni di ottima fattura intrise di feeling quali la ritmata opener Whatever It Takes e la seguente Blind For Love. Spumeggiante hard blues è Easy Does It, dal ritornello catchy e dal ritmo ballabile , passionale è invece la ballad Take This Old Heart veramente molto coinvolgente. Segue poi Infatuation con le caratteristiche tipiche del singolo che qualche anno prima avrebbe avuto tutte le caratteristiche per sfondare, grazie alla facile struttura e cori azzeccatissimi tanto di moda al tempo. From The Dirt è sempre Usa blues con andatura boogie che a tratti mi ricorda certi passaggi dei Georgia Satellite, così come la seguente tagliente ed efficace Keep Your Distance. Adorabile per la sua atmosfera polverosa e struggente è No Prize For The Loser, con tanto di coretti soul ,una vera chicca. Sì torna a scuotere le natiche con Comin’ Back, efficace mid tempo che ricorda un po’ i Cinderella più blues per chiudere poi con l’emozionante Promised Land, più di 7 minuti di viaggio sulle higway e per le mie orecchie è  una  vera goduria.

USA blues made in England…. chi lo avrebbe mai detto?…. Insomma qui non si inventa nulla , ma c’è talmente tanto buon gusto e passione che mi sento caldamente di consigliare la riscoperta di questo disco agli amanti del genere, perché nel marasma di quegli anni caotici potrebbe essere sfuggito.