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28 Agosto 2023 5 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 1987
etichetta:
ristampe:
Ho un rapporto di amore/odio con “Future world”, secondo album dei danesi Pretty Maids, uscito ad Aprile 1987 nel momento in cui molte metal bands cercavano di sfondare negli USA e vi spiego il perchè. Amore perchè, come si fa a non amare un disco così ben composto, suonato, prodotto ed eseguito? Dopo la cruda irruenza dell’esordio su lunga durata “Red hot and heavy” uscito tre anni prima, i Pretty Maids riuscivano finalmente ad unire alla perfezione le due anime che convivevano in loro fin da quando erano solo una cover band dei Thin Lizzy, con una ricerca spasmodica del suono lucido, cromato, perfetto per il pubblico statunitense che stava dichiarando la vittoria di gruppi come Ratt, Motley Crue, Dokken e Wasp. Odio perché, una potenziale band di nuovi metal gods, nel mio universo di imberbe metallaro capellone e casinista, stava sprecando tempo con canzonette zuccherose che stridevano con la vigoria dimostrata dai cinque danesi anche in sede live, dove supportarono nientemeno che i Deep Purple della riformata Mark II.
Ora, è palese che questo secondo sentimento nei confronti di “Future world”, visto con gli occhi di oggi fa un po’ ridere, ma quel senso di appiccicosa mielosità è rimasto in me e credo che non se ne andrà mai, ma è sicuramente relegato in secondo piano rispetto alla sfavillante bellezza di questo disco, mai più eguagliata a mio parere, da Atkins e soci, che pur negli anni a seguire, hanno saputo tenere la barra dritta anche nei vituperati (non da me, sia chiaro) anni 90, ma le vette compositive di questo album sono solo state sfiorate qua e là negli album successivi. Qui la CBS, che già aveva intuito le potenzialità dei nostri dopo l’uscita dell’ep d’esordio auto intitolato, mette a disposizione una pletora di collaboratori di prim’ordine, a cominciare da Eddie Kramer, produttore di fama mondiale, uno che ha lavorato con Jimi Hendrix, Beatles, Rolling Stones, David Bowie, Carlos Santana, Eric Clapton, Kiss, Led Zeppelin, ma anche con Anthrax, Raven, Icon, Loudness, Twisted Sister e i grandissimi quanto misconosciuti Sir Lord Baltimore, licenziato però in corso d’opera per incomprensioni con la band (c’è chi dice che si è addirittura addormentato sulla console), il suo lavoro venne completato da Chris Isca, meno conosciuto sicuramente, ma autore di un ottimo lavoro. Dicevamo dei collaboratori famosi e difatti troviamo due addetti al mixaggio di prim’ordine come Flemming Rasmussen, ricordato soprattutto per il suo lavoro con i Metallica di “Ride the lightning” e “Master of puppets”, ma lo troviamo dietro alla console anche con Blind Guardian, Rainbow e in territori più estremi con Morbid Angel e Saturnus, e Kevin Elson, di certo più addentro al materiale trattato su queste pagine, avendo lavorato con Journey, Europe, Mr.Big e Lynyrd Skynyrd e non dimentichiamoci infine dello stupendo disegno in copertina ad opera di Joe Petagno, autore di art covers per Led Zeppelin, Nazareth e soprattutto ideatore dello Snaggletooth, il simbolo dei Motorhead, apparso nelle copertine della band di Lemmy fino al 2006, insomma c’era tutto pronto, apparecchiato affinchè si potesse servire un lauto pranzo e così è stato. continua
10 Luglio 2023 9 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1992
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Era il 1992 quando il biondissimo e lungocrinito Mitch Malloy dava alle stampe il suo omonimo debutto e vista la potenza di fuoco messa a disposizione dalla rca/bmg, nessuno si sarebbe immaginato che, da li a poco, questo genere sarebbe finito in un sottobosco dedicato agli aficionados duri e puri. Basta comunque dare una occhiata alla lista dei credits per capire che le cose non erano certamente fatte a risparmio ed a quei tempi, quando le etichette schieravano personaggi quali: Michael Thompson, Jeffery (C.J.) Vanston ed il produttore Arthur Payson, difficilmente sbagliavano il colpo.
Infatti, questo disco è tecnicamente perfetto e sforna potenziali hit a raffica. Anything At All per esempio, è una opener coi fiocchi e qualcuno seppur più blasonato avrebbe fatto carte false per una canzone così ariosa e spensierata. Mission Of Love prosegue con una sezione fiati blueseggiante e con piglio rock alla quale fa seguito una power ballad con i controfiocchi quale Nobody Wins In This War e non mi dite che non l’avete cantata a squarciagola a finestrino aperto ed autoradio a palla. Ancora venature bluesy con Over The Water, mentre l’acustica Problem Child ci traghetta verso la potenziale hit Stranded In The Middle Of Nowhere, un hard rock sofisticato ma con un ritornello super catchy da gridare a più non posso. In Cowboy And The Ballerina fa la sua comparsa come autore Mr Desmond Child, mentre Our Love Never Die è una megaballad da accendino al vento come solo a quei tempi sapevano fare. Chiudono la rockeggiante Forever e la intima e delicata Mirror,Mirror.
Purtroppo l’epoca d’oro del genere era al tramonto e così non ci siamo potuti godere appieno un artista e songwriter che avrebbe potuto fare sfracelli di vendite e popolarità, ma che fortunatamente ha proseguito una lunga carriera, continuando a sfornare ottimi dischi fino ai giorni nostri. Vista la facile reperibilità, chi per caso non lo conoscesse, può rimediare facilmente.
26 Maggio 2023 8 Commenti Vittorio Mortara
genere: AOR
anno: 1987
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Spesso quando si citano i classici dell’AOR si fanno i nomi di Journey, Foreigner, Survivor… dimenticandoci delle (degli) Heart. Sarà per l’idiosincrasia del pubblico hard nei confronti delle band con voce femminile, sarà perché, in effetti, la maggior parte dei tantissimi album delle sorelle Wilson non è affatto AOR. Fatto sta, però, che le Heart (a me piace usare il femminile, non me ne vogliano i maschietti della band) alla fine degli anni 80 hanno sfornato tre capolavori mostruosi del genere: “Heart” del 1985, questo “Bad animals” nel 1987 e “Brigade” nel 1990. Iniziamo col ricordare che il lavoro qui recensito fu uno dei primi ad uscire in formato CD con la stampigliatura DDD, cioè registrato, mixato e trasposto completamente in digitale: una rarità assoluta all’epoca per un disco di (hard)rock! La produzione multiplatino ad opera del gettonatissimo Ron Nevison è scintillante ed ancora oggi allo stato dell’arte! Ogni parte strumentale risulta perfettamente intelligibile, le voci delle Wilson sisters escono dalle casse dello stereo come se fossero li davanti a noi a cantare dal vivo! La gamma dinamica è straordinaria! Una goduria assoluta, specialmente se paragonata alle produzioni low cost ultracompresse dei nostri giorni… La chitarra di Howard Leese taglia e cesella con precisione ogni riff, ogni arpeggio, ogni assolo…La sezione ritmica Andes/Carmassi è uno strumento meccanico di precisione che non sbaglia mai un colpo, neanche il più difficile. Il songwriting è quasi tutto ad opera Wilson/Wilson/Leese, con varie collaborazioni a nome Diane Warren, Jim Steinman, Tom Kelly, Holly Knight… E scusate se è poco! Insomma, forze dispiegate in campo ce ne sono parecchie! continua
23 Marzo 2023 3 Commenti Giorgio Barbieri
genere: Glam / Class Metal
anno: 1985
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Parlare del secondo album dei Ratt, terza uscita ufficiale considerando il mini Lp autointitolato, è molto difficile, ma nello stesso tempo è enormemente gratificante per me, che ho adorato questo album anche di più del pluridecorato predecessore; devo ammettere che l’interesse era scaturito dalla partecipazione della band di Stephen Pearcy allo storico primo volume di Metal Massacre, compilation della Metal Blade, uscito nel 1982, con “Tell the world” che poi sarebbe stata inserita nel già citato mini lp del 1983; in quella compilation i Ratt erano in compagnia di Metallica, Malice, Cirith Ungol, Steeler, Bitch e fu praticamente automatico il mio interesse verso i cinque losangeleni, autori sì di un brano sicuramente più radio friendly, ma dal tiro decisamente tosto, cosa che poi grazie anche alla produzione di Beau Hill, diventò il loro trademark, ma nonostante questo, come vedremo in seguito, l’album fu un successo planetario.
Forti appunto di una solida base costruita dall’enorme consenso ricevuto da “Out of the cellar”, primo full lenght del 1984, che solo negli USA vendette 3 milioni di copie, i Ratt continuarono con la stessa formula, ossia il produttore Beau Hill, due singoloni trainanti, “You’re in love” e “Lay it down”, corredati dai rispettivi video e una copertina con tanto di supermodella, in questo caso si trattava di Marianne Gravatte, anche coniglietta di Playboy, la quale appare anche nel video di “Lay it down”, dove interpreta la promessa sposa del cantante Stephen Pearcy; anche se il successo fu enorme, con gli oltre 2 milioni di copie vendute negli USA, l’album non raggiunse i riscontri del precedente, ma a mio parere risulta più completo, con un suono ancora più “monstre” e con un’interpretazione di tutti i componenti al top della loro forma. continua
08 Marzo 2023 11 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR
anno: 1999
etichetta:
ristampe:
Giunto fuori tempo massimo per poter anche lontanamente aspirare a diventare un successo discografico, l’unico album della carriera artistica dei Metropolis vide la luce il 20 ottobre del 1999 grazie al solito grande lavoro della MTM Music, un’etichetta attentissima – in quegli anni – nel dare spazio ai tanti validissimi artisti melodic rock sparsi ai margini del mercato musicale.
Questo platter, dimenticato in un cassetto dal 1987, vide collaborare il noto cantautore canadese Stan Meissner (di cui si ricordano alcuni validissimi prodotti solisti di successo, oltre che la penna su diversi brani di realtà note quali Celine Dion, Alias, Triumph, Lee Aaron, Eddie Money, etc) con il semi-sconosciuto cantante Peter Fredette, conosciuto ed apprezzato anni prima grazie alla sua parte solista nel bel singolo All We Ae di Kim Mitchell (1984).
continua
04 Marzo 2023 5 Commenti Iacopo Mezzano
genere: AOR / Westcoast
anno: 1983
etichetta: 2000 / 2009
ristampe: 2000 / 2009
Like a Virgin di Madonna (1984), True Colors di Cyndi Lauper (1986), Alone degli Heart (1987), Eternal Flame dei the Bangles (1989), So Emotional di Whitney Houston (1987), I Drove All Night di Roy Orbison (1987) (ma poi anche di Cyndi Lauper nel 1989), I Touch Myself dei Divinyls (1990) e I’ll Stand by You dei The Pretenders (1994).
Perchè ho citato tutte queste hits, gran parte delle quali #1 in classifica? Beh, semplicemente perchè sono tutte state scritte dalla coppia di autori Tom Kelly e Billy Steinberg, gli stessi musicisti e songwriter che, sotto il moniker i-TEN (ovvero interstate 10, ndr), diedero vita a un classico tra i classici della storia della musica rock melodica: il sensazionale album Taking A Cold Look.
Imperdibile per tutti gli appassionati dello stile westcoast (ma non privo di saccenti tocchi hi-tech e power pop), questa perla discografica vide la luce nel 1983 sotto l’effige storica della major Epic Records. Dietro il banco di registrazione, sito presso i leggendari Goodnight L.A. Studios di Van Nuys in California, nientemeno che Keith Olsen e Steve Lukather (poi anche ospite alla chitarra), con un team di musicisti guest e di supporto del calibro di Alan Pasqua, Mike Baird, Dennis Belfield, David Paich e Richard Page. Non credo serva aggiungere altro.
Radio-friendly, squisito, pomp al punto giusto, ricamato, ed elegante in ogni sua melodia, fortemente influenzato (come ovvio visti gli ospiti e visto l’anno) da band come Toto, Foreigner, Styx, etc., il disco presentò al pubblico dieci tracce una più bella dell’altra, per 38 minuti circa di musica essenziale, iconica e senza tempo, perfettamente cantata, suonata e interpretata da Kelly, Steinberg e i loro svariati guest.
La title track e opener Taking A Cold Look, peraltro risuonata nel 1988 dagli Honeymoon Suite nel loro disco “Racing After Midnight”, è un inno al melodic rock anni’80 più corale, grazie alle sue belle vocalità perfettamente combinate alle tastiere e a una chitarra il ampio risalto, e la accattivante Quicksand toglie il fiato grazie alla sua setosità mista a un groove di forte impatto, e a un breve assolo di chitarra che vale anche da solo il prezzo del disco.
Avete presente la canzone Alone delle Heart? Bene, vi sconvolgerà forse sapere che questa storica ballad è in realtà opera degli i-TEN e che figura per la prima volta in tutta la sua bellezza proprio in questo album. Ascoltatela qui nella sua forma embrionale, apprezzandone la raffinatezza e la morbidezza, e la sua calda vocalità.
Seguono poi Workin’ For A Lovin’, spensierata e leggera, con un bel conubio ancora tra voce, chitarra e tastiere, e Lonely In Each Other’s Arms, ricca di tastiere e sintetizzatori (non a caso è stata scritta con il contributo di Alan Pasqua) e forte di un’atmosfera decisamente avvolgente, che rilascia scariche elettriche di pregievole fattura.
Iniziamo poi la side B con I Don’t Want To Lose You, ripresa dai REO Speedwagon nel 1988 come singolo per la loro raccolta The Hits, una canzone di immediato impatto, delicata ma vigorosa, sormontata da uno dei migliori ritornelli di tutto il lotto. Time To Say Goodbye, che ricorda moltissimo i Toto di quegli anni, lascia a bocca aperta per la sua ricercatezza sonora, mentre The Easy Way Out (ben coverizzata da Juice Newton nel 1984) è un brano rock più diretto, un anthem radiofonico che suona dritto in faccia all’ascoltatore, con qualche rimando ai Cheap Trick, a Rick Springfield, e a John O’ Banion.
Infine, la toccante e generosa ballad I’ve Been Crying (nuovamente scritta con il contributo di Alan Pasqua) ci avvolge e coccola tra le sue note ariose ma dense di nostalgie, lasciando spazio alla conclusiva Pressing My Luck, che ha lo sguardo nuovamente fisso sullo stile dei Toto, e che poteva essere usata per una qualsivoglia serie tv dell’epoca viste le sue sensazionali ma peculiari melodie. Siglando così, in un perfetto commiato, i fasti di questo album a dir poco imperdibile, e fondamentale per ogni collezione che si rispetti. Magari in vinile first-press, per assaporarne ogni sfumatura!
15 Febbraio 2023 7 Commenti Vittorio Mortara
genere: AOR
anno: 1993
etichetta: Aor Heaven 2012
ristampe: Aor Heaven 2012
Ndr. Sembrerebbe esistere una versione precedente di questo disco datata 1991 e con una copertina totalmente diversa, non essendo però riusciti a capire se fosse un bootleg oppure una specie di uscita promozionale o semiufficiale, ci atteniamo sia alla copertina, sia all’edizione del 1993; come del resto ha fatto Aor Heaven per la sua ristampa nella collana classici.
Vogliamo parlare di supergruppi? Bene, facciamolo seriamente! Proiettatevi nel lontano 1993. Prendete cantante e batterista degli immensi Loverboy, aggiungete il bassista dei grandi Streetheart e, come ciliegina sulla torta, piazzateci mister Neal Schon a suonare la chitarra. Date in pasto il risultato ad un manipolo di tecnici del suono e produttori abituati a lavorare con le majors ed avrete per le mani “All one people”, un disco che , quando lo comprai, mi lasciò letteralmente a bocca aperta e che, ancora oggi, mi emoziona non poco. Interessante osservare che, ai tempi, quando gli artisti si lanciavano in progetti collaterali, non riproponevano la loro solita musica con colleghi diversi. Di solito sperimentavano generi differenti da quello delle band madri. E infatti i Just-If-I non sono i Loverboy in salsa Schon. I ragazzi qui si cimentano in un AOR più westcoastiano, infarcito di melodie pop e spruzzato qua e là di qualche sperimentazione vagamente progressiva.
E l’album, cosa assolutamente inusuale, si apre con una ballad. Anzi, una signora ballad! Le note di un dolcissimo pianoforte e la voce inconfondibile di Reno aprono “Cindy’s song”, toccante nelle melodie e nelle parole, travolgente nel suo crescendo emozionale. Tempo di riprendersi dal sussulto emotivo dell’inizio, che il ritmo incalzante della sei corde di Schon ed i fiati sintetici della title track ci fanno battere il piedino a tutta velocità. Avete messo via i fazzoletti? Male! Perché il lento “Anywhere anytime” torna ad emozionare: struttura da classica ballad tardo ottantiana ed un refrain indimenticabile! “Go ahead and cry” è westcoast punteggiata da tastiere springsteeniane, pilotata ottimamente dalle corde vocali di un Mike Reno in forma smagliante. Ed è la volta della melodrammatica “Carpe diem”, musicalmente simile ad alcune cose dei Bad English, inframmezzata da un coro di bambini alla Pink Floyd e punteggiata dagli struggenti solos dell’axeman dei Journey.
Si parte seduti al teatro dell’opera all’inizio di “After the storm”, una splendida canzone di AOR, forse la più Loverboy del lotto, nel finale della quale torna il coro di voci bianche a sottolineare l’impegno sociale del testo. Stupenda. Spuntano Franke & the Knockouts fra le note pop oriented di “For your love”, superlativa nelle melodie vocali. Il ritmo zoppo delle prime battute di “My turn” fa presagire qualcosa di diverso. Ed infatti il pezzo si articola in diversi cambi di tempo e tonalità, ricordando l’hard/prog dei seminali Crack the Sky. Il concitato finale sfocia in un altro splendido slow, “If it feels right”, con ancora il frontman canadese a sfoderare una prestazione maiuscola! Armonica, riffaccio sporco, piano honky tonk, America a pieni polmoni: questa è “For those in favour”. La chiusura è affidata ai 13 minuti di “Reprise”, lunghissima suite progressiva nella quale voce e pianoforte la fanno da padroni accompagnandoci alla conclusione di questo straordinario disco.
Ascoltare album come questo nel 2023 suscita una serie di emozioni, il rimpianto per i tempi che furono su tutte. La capacità per gli artisti del tempo di creare capolavori di questo calibro, purtroppo, è andata perduta. Per fortuna possiamo cullarci ogni tanto con le note dei nostri dischetti preferiti. Tra i quali il vostro fedele redattore consiglia di infilare una copia di questo All one people. Non ve ne pentirete sicuramente.
20 Gennaio 2023 8 Commenti Samuele Mannini
genere: Prog. Rock
anno: 1989
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Il disco degli Yes che non potevano chiamarsi Yes? Oppure un progetto di Jon Anderson che coinvolge membri degli Yes per andare oltre gli Yes? Queste furono le domande principali che all’ epoca turbarono le menti degli ascoltatori e dei critici. Secondo me è un po’ tutte e due le cose. Dopo la svolta commerciale di 90125 e Big Generator dettata dal chitarrista Trevor Rabin, Jon anderson sentiva l’esigenza di tornare al classico sound progressive marchio di fabbrica degli storici Yes e così dette vita all’ennesimo scisma della band (in effetti, la storia degli Yes è quasi una soap opera fino a culminare in Union dove tutte le anime della band tentarono di coesistere, ma non è questa la sede appropriata per parlarne). Reclutati dunque i vecchi compagni di Close To the Edge, tranne ovviamente Squire che però deteneva legalmente il nome Yes, Jon decise di dare vita al progetto ABWH ed il posto di Squire venne preso da Tony Levin che a quei tempi militava con Bruford in una delle incarnazioni dei King Crimson.
Narrata a sommi capi la storia della nascita del progetto veniamo ora alla musica. Si comincia con Themes che spazza via subito l’idea del pop/aor di Big Generator con una mini suite di 5 minuti e sopra l’eclettismo strumentale si staglia la voce di un Anderson in forma smagliante. Fist Of Fire ha un incedere epico e maestoso (quasi pomp) ed un muro di tastiere si erge intorno alla melodia facilmente orecchiabile. Brother Of Mine trasla il prog degli Yes negli anni ottanta, suite da 10 minuti passaggi intricati, ma senza esagerare, ritornelli easy ed accessibili, liriche non banali ed un sound completamente calato nell’epoca, se non è il brano perfetto, ditemi voi cosa c’è di meglio in circolazione. Una chitarra acustica con un sottofondo oscuro di tastiere ci introducono a Birthright dove l’angelica ugola di Anderson ci narra la storia dei test nucleari svolti dagli inglesi a Maralinga negli anni 50, dove gli aborigeni non furono avvisati per tempo e lasciati così esposti alla nuvola radioattiva, una canzone densa di sentimento oltre che tecnicamente ineccepibile e coinvolgente. The Meeting è un duetto tra Anderson e Wakeman tra la voce eterea e il piano delicato, una canzone fiabesca e sognante, quasi una preghiera in musica, delicata e deliziosa. The Quartet è un’altra suite in pieno Yes prog style, ricercata ed ispirata con arrangiamenti al limite del maniacale, anche qui la tematica religiosa la fa da padrona e caratterizza i quattro movimenti della canzone con sfumature delicate ed idilliache. Teakbois è un pezzo che spiazza, l’intro caraibico e l’atmosfera da villaggio vacanze sinceramente sconvolgono abbastanza in mezzo al resto del disco, ma anche qui è possibile apprezzare l’ecletticità dei musicisti, anche se a parer mio è il pezzo più trascurabile del disco, va solo lasciato scorrere via senza pensarci troppo. Order Of The Universe è l’ultima suite in quattro movimenti e comincia con il folle intro pure progressive Order Theme per poi andare a navigare in territori molto vicini al pop con un hook veramente azzeccato, ennesimo esempio di come si possa trasportare il prog negli eighties. Chiude il disco la ballad acustica Let’s Pretend che poi è la canzone scritta con Vangelis, probabilmente la scintilla che ha dato la voglia ad Anderson di creare questo progetto musicale, una chiusura delicata e degna.
Ma insomma è un disco degli Yes o no? Secondo me si è un disco degli Yes in piena regola ( e se mi consentite il migliore dagli anni 80 in su), ma non solo, è un disco degli Yes che supera il sound originale attualizzandolo all’epoca pur ritornando alle origini e dimenticando la parentesi puramente da classifica. Un disco che non solo piacerà agli amanti del progressive, ma anche a chi adora il sound inconfonndibile degli anni 80. Must Have.
05 Gennaio 2023 5 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/ Street
anno: 1991
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Conobbi questo disco nel 1995, ben 4 anni dopo che era uscito, perché ne trovai una copia nel reparto delle offertone in un negozio di dischi di Firenze allora molto ben fornito, una sorta di bomboniera stracolma di ogni qualsivoglia delizia rock, dall’aor più molliccio al black più estremo e dove passare pomeriggi a dilapidare patrimoni era il più delizioso dei passatempi. Sinceramente non sono mai stato un gran fan della scene street, sleaze, glam ed affini, ma ricordavo di aver letto anni prima una recensione entusiasta su Metal Shock del loro esordio Psycho Cafè e quindi a 5000 Lire mi dissi… beh proviamo! La prima cosa che stonò ai miei occhi fu la copertina, tanto da mettere in dubbio il fatto che fossero gli stessi Bang Tango di cui conoscevo il genere. Per carità la copertina è bella, ma la trovai, e la trovo tutt’ora assolutamente fuori contesto. Altra cosa che poi scoprì essere stonata, era la voce del cantante e non nego che ci vollero ben più di un paio di ascolti per digerirla.
Qualcuno potrebbe chiedermi allora perché sto inserendo questo disco nei classici, semplice perché ritengo che musicalmente sia un eccellente mix di generi raramente ascoltato prima, una sorta di evoluzione dello street e il funk metal fusi insieme a formare qualcosa di potenzialmente nuovo. Eppoi alla fin fine si scopre che la voce, una volta assimilata, risulta abbastanza funzionale al sound, cosa che all’inizio non pareva per nulla scontata.
Ora ditemi se Soul To Soul non è un pezzone… La ritmica funkeggiante è inondata da sax e fiati ed il giro di basso è assolutamente irresistibile, un vero e proprio pugno nello stomaco nel segno della sperimentazione. E che dire dei controcori? Una vera e propria figata. Segua a ruota la più canonica e notturna United And True ed anche se la voce è un po’ troppo miagolante, ma se non battete il piede qui, vuol dire che ci sono seri problemi alle articolazioni. Difficilmente inquadrabile è Emotions In Gear in bilico tra la melodia e il nervosismo, io ho riconosciuto qualcosa di simile successivamente nei Saigon Kick. I’m In Love presenta un basso slappato a go go, sempre su una struttura funk inframezzata da aperture crepuscolari. Più lineare è Big Line martellante e serrata, a seguire l’immancabile ed obbligatoria per l’epoca ballad ovvero Midnight Struck e qui il buon Joe LeSté mostra tutti i suoi limiti vocali non riuscendo a caratterizzare correttamente un brano con ben altre potenzialità. Dancin’ On Coals è invece la song perfetta (anche per la tonalità vocale di LeSté) il riff è irresistibile, la canzone è assolutamente da cantare a squarciagola e chissenefrega se sei stonato a canna, è talmente liberatoria da sfiorare il terapeutico. Altro pezzone funk è la variegata My Saltine, mentre Dressed Up Vamp è un rilassante e notturno mid tempo. Last Kiss è più blueseggiante e forse paga un po’ pegno ai Cinderella, a chiudere la nervosa, trascinante e serratissima Cactus Juice.
Insomma viene da chiedermi cosa sarebbe potuto succedere se il music business di allora avesse deciso di investire in questa tipologia di sperimentazioni sonore invece che cedere il passo alle solite ondate modaiole che periodicamente solcano i mari dell’industria discografica e che in breve tempo portano alla fatale omologazione per essere poi spazzate via dall’onda successiva, è proprio vero che l’arte e gli affari vanno d’accordo solo per periodi, ahinoi, molto brevi.
Da scoprire o riscoprire assolutamente!
03 Gennaio 2023 7 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock
anno: 1986
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E su, alzi la mano chi alla fine di questo anno non si è sentito propinare il famigerato final cowntdown ( e se non è successo quest’anno….ci siamo capiti…), diventato un vero e proprio tormentone nell’arco dei decenni e conosciuto da chiunque sul globo terracqueo. Ed effettivamente trattasi di una delle canzoni più inflazionate della storia e ciò è stato un po’ croce e un po’ delizia per la band. Brano che ha consentito al gruppo di ricevere la fama mondiale e contemporaneamente ha fatto venire i brividi ai duri e puri (tra i quali il sottoscritto, ai tempi), quando li videro esibirsi in playback a Sanremo et simila…
Questo preambolo per parlare di uno dei dischi probabilmente più importanti della storia dell’ hard rock ed in particolare il disco che ha aperto la via alla scena scandinava che soprattutto al giorno d’oggi è la vera e propria spina dorsale di tutto l’ hard rock melodico ed affini. Un disco che ha traghettato diverse generazioni alla scoperta della melodia legata all’hard rock e che a dispetto della sua enorme commerciabilità è pieno zeppo di grandi canzoni.
Ed infatti dopo l’anthem che dà il titolo al disco eccone subito un altro ovvero Rock The Night forse la canzone che ha inventato gli Ohhhh Oh Oh Oh che tanto inflazionano lo scandì rock moderno. A seguire il lento strappamutanda quasi per antonomasia ovvero Carrie , che mi fregio di aver cantato praticamente per intero quando a Firenze il buon Joey Tempest mi calò il microfono dal palco evidentemente ammorbato dai miei latrati durati per tutto il concerto 🙂 . Danger on the Track e Ninja sono due mid tempo di spessore che portano ad un altro brano da arena, ovvero la cantabilissima Cherokee, seguono la semi ballad Time Has Come e la rocciosa e classy Heart of Stone. Chiudono On The Loose, altro brano da Live e la potente Love Chaser che ci ricorda che agli esordi gli Europe facevano Metal.
Insomma un disco che forse non sarà l’apice compositivo della band, ma che grazie anche all’immagine da superfighi ( che pur tanta noia dava a noi maschietti competitivi all’epoca tanto da spingere parecchi di noi a diventare capelloni) ha contribuito ad indirizzare torme di adolescenti verso l’hard rock e questo è sicuramente un merito che va attribuito a questa band ed a questo disco in particolare, che lo rende dunque un classico in tutti i suoi aspetti.