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Classici

Le Mans
Le Mans

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Le Mans – Le Mans – Gemma Sepolta

17 Novembre 2022 4 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard Rock
anno: 1986
etichetta: 2010 - Sony music
ristampe: 2010 - Sony music

Anni fa ero assiduo frequentatore di forum (musicali e non solo), tempo prima che Facebook prendesse campo. Quando volevo fare il saccente dei capolavori nascosti, dimenticandomi per un istante che in quel contesto virtuale ero circondato da chi ne sapeva quanto me se non di più, scrivevo:” … ragazzi, cercatevi l’omonimo dei Le Mans e poi ne riparliamo” Passavo per sbruffone, senza volerlo, ma tralasciando l’opinabile ‘modus scrivendi’ del sottoscritto, fermandoci alla sostanza, che capolavoro è ‘Le Mans’?!?

Scovati da Mike Varney, dopo il debutto acerbo ma interessante (‘On The Streets’) per la sua Shrapnel datato 1983, un inevitabile assestamento della line-up, arriva il grande salto in Columbia e il disco qui ricordato nell’anno perfetto 1986. Immaginate un film ad alto tasso adrenalinico intervallato da momenti di pausa riflessiva, contestualizzati nello sviluppo della pellicola, in un insieme dove in ogni istante vorreste essere quel protagonista.

Come altro descrivere queste 10 meravigliose perle in pentagramma? La partenza inganna con una classe unica. “Love Lies” è notturna ma decisa, calzante quanto basta per attirare l’attenzione su quello che ci aspetta. Anthems quali “Love Is a Waste Time”, “Life of Rock’n Roll” o ancora “Bad Reputation” ciascuna determinata da una propria natura, rappresentano pura dinamite strutturate perfettamente in dinamica e arrangiamenti, dove la voce di Peter Marrino emerge acuta ma calda. È inutile che ci stiamo a rigirare con le parole. Canzoni di tale caratura per quanto anacronistiche oggi non se ne scrivono più. I riff di Derek Frigo, non lasciano prigionieri coadiuvato dai tasti d’avorio e dalla seconda chitarra di Johnny Johnson. E quando i toni si smorzano ci pensano “Never Wanna See You Cry” e “Misunderstanding” ad alzare l’emotività senza alzare la glicemia, complice anche un accurato uso del sax nella seconda delle due.

Purtroppo ‘Le Mans’ non esplose e a seguire la chiamata di Peter Marrino nei Cacophony, anno 1987 (nei quali transiterà anche il drummer Kenny Stavropoulos) renderà il disco qui recensito tanto unico quanto prezioso. Avremo la possibilità di riascoltare Derek Frigo (rip) nell’originale incarnazione degli Enuff Z’Nuff.
Da avere.

Quiet Riot
Metal Health

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Quiet Riot – Metal Health – Classico

14 Ottobre 2022 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard n' Heavy
anno: 1983
etichetta:
ristampe:

Il 1983 è stato per chi vi sta intrattenendo con queste righe, l’anno della definitiva consacrazione alla musica più tosta del mondo, dopo aver passato circa un anno e mezzo dal mio primo concerto degli Iron Maiden nell’Aprile 1981, a conoscere l’universo hard’n’heavy, in quell’anno ho forgiato la mia personalità, non disdegnando da subito sia il lato glam/hard, che quello speed/thrash, con tutto quello che ci stava in mezzo, arrivando così a fagocitare qualsiasi uscita di cui venissi a conoscenza, grazie soprattutto a Marco Garavelli e al suo programma radiofonico “Linea Rock”, che mi fece conoscere anche il terzo, stupendo album dei Quiet Riot, il primo ad essere pubblicato in tutto il mondo, dato che i due precedenti uscirono solo in Giappone, e quello che fece il botto, vendendo oltre sei milioni di copie e arrivando alla prima posizione di Billboard, primo album metal a riuscirci.

Ma parliamo di quello che è contenuto in questo album uscito l’11 Marzo 1983 e di come fece sì che avesse tutto questo successo, ricordo di aver ascoltato per prima “Breathless”, la cavalcata che apre la facciata B e di aver pensato di essere davanti ad un gruppo interessante che sapeva ben miscelare l’atmosfera cupa dell’arpeggione d’atmosfera con la forza del metal, ma anche con un gusto per il ritornello non indifferente, da lì all’acquisto dell’album il passo è stato breve e la soddisfazione nell’ascoltare anthem immortali come la title track, che tra l’altro è stato uno dei primi video che girava abbastanza regolarmente l’anno successivo sulla neonata Videomusic, la cover degli Slade “Cum on fell the noize”, la scanzonata “Let’s get crazy”, la glammissima “Slick black Cadillac” pezzo ripreso da “Quiet Riot II”, la stranamente introspettiva “Don’t wanna let you go”, la metallicissima “Run for cover”, la breve strumentale “Battle axe”, la semiballad “Love’s a bitch” e il lentone emozionante “Thunderbird”, è stata davvero tanta e da subito mi resi conto che questo album avrebbe sfondato e che la band, dopo le mazzate dell’abbandono di Randy Rhoads, che era il chitarrista originale dei Quiet Riot e la sua improvvisa morte, avrebbe spiccato il volo, tanto da farla partecipare allo US Metal Festival di San Bernardino, assieme a Judas Priest, Scorpions, Van Halen, Ozzy Osbourne, Triumph e Motley Crue. continua

Marillion
Misplaced Childood

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Marillion – Misplaced Childood – Classico

05 Ottobre 2022 10 Commenti Samuele Mannini

genere: Neo Prog
anno: 1985
etichetta: Emi
ristampe: Emi

Magari qualcuno potrebbe obiettare che non si tratta proprio di un classico del rock/hard rock melodico in senso stretto… però, a ben guardare, più di qualche punto di contatto c’è. Non solo per me personalmente, visto che ne sono stato immerso fin da piccolo, quando mio cugino più grande mi inondava di queste (ed altre ) sonorità fino a farmele apprezzare (beh, almeno in gran parte), ma sarà che Kayleigh è stata passata 700.000 volte per radio ed in tv (peraltro in quella orribile versione radio edit che tronca di netto un assolo meraviglioso) , sarà perché in questo disco i Marillion escono dalla denominazione di Genesis clone per dare vita a quello che poi sarà definito neo-prog e sarà infine per quel tocco pop che permea molte canzoni. Insomma, i punti di contatto ci sono e prova ne sono le numerose commistioni che tentano di fondere la raffinatezza di certi tipi di composizioni articolate tipiche del prog , con la facilità di airplay del rock melodico e del pop rock in senso lato ed a tal proposito vedasi Genesis, Yes e compagnia bella. Ecco che dunque mi sento moralmente autorizzato ad inserire questo masterpiece nella nostra sezione dei classici, certo che i numerosi amanti delle sonorità progressive apprezzeranno.

IL disco nasce esplicitamente per dare una svolta alla loro carriera dopo Fugazi che non aveva soddisfatto la Emi nel rapporto tra vendite e costi di produzione, costi che furono in parte recuperati dall’uscita di Real to Reel e per minimizzare le spese spedì la band negli Hansa studio di Berlino Ovest in modo da tener maggiormente sotto controllo gli aspetti produttivi. Tutta una serie di aneddoti circonda questo disco, a partire dal concept concepito da Fish dopo un trip con l’acido, al fatto che la Emi ignorasse che il disco è praticamente un’unica traccia senza soluzione di continuità, mentre l’etichetta aveva deciso di puntare su singoli più commercialmente fruibili, fino al video di Keyleigh dove recita colei che poi diventerà moglie di Fish proprio nella canzone che era dedicata ad un amore infranto dell’istrionico vocalist.

continua

Hurricane
Slave To The Thrill

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Hurricane – Slave To The Thrill – Gemma Sepolta

15 Settembre 2022 5 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

Se questo Slave To The Thrill sia da catalogare sotto l’egida di gemma sepolta o classico, è questione più tecnica che di sostanza. Classico è un disco, solitamente uscito su major, che ha un certo numero di copie vendute e che ha segnato uno degli apici del genere preso in considerazione, anche se a volte essere classico può toccare anche a dischi con tirature più piccole, ma con vette artistiche assolute. Ecco, dunque, la classificazione a gemma (non poi così tanto) sepolta o se preferite Classico minore per il secondo disco degli Hurricane.

Dopo un primo Ep ed il debutto su Lp Over The Edge uscito nel 1988, sempre per Enigma records, la band si ripropone due anni dopo con un cambio di formazione che probabilmente contribuisce a dare una svolta anche al sound, entra infatti Doug Aldrich alla chitarra al posto di Robert Sarzo. Se nei primi lavori, infatti, la presenza di Tony Cavazo e di Robert Sarzo faceva di loro un po’ i fratellini poveri dei Quiet Riot, in questo Slave To The Thrill si nota una maturazione nel sound ed una maggiore coerenza compositiva che dà alla band la possibilità di brillare di luce propria. Non che il predecessore sia stato un disco malvagio, anzi.. solo che ondeggiava tra sound diversi senza prendere una direzione precisa.

La direzione precisa viene invece adottata in Slave to the Thrill dove il class metal dokkeniano va ad incontrare atmosfere Lion e Whitesnake, sarà un caso che il buon vecchio Doug abbia un fil rouge con tutte queste band? Non credo proprio. La voce dell’ ottimo Kelly Hansen si trova perfettamente a suo agio nel ruolo e sforna una performance ai vertici della categoria e non è un caso che poi andrà a sostituire ( e più che degnamente ) due mostri sacri come Mark Free negli Unruly Child (dove peraltro ritroverà Jay Shellen) e Lou Gramm nei Foreigner. Il songwrting coinvolge anche una serie di autori esterni che andranno ad arricchire le già ottime capacità del gruppo, mentre la produzione resta di livello assoluto.

Esempi di killer songs qui presenti sono l’infuocata opener Reign Of Love, l’ammiccante singolo Dance Little Sister e la Tangeriana In The Fire. Naturalmente presente e di pregio la ballad Don’t Wanna Dream, mentre 10000 Years è un mid tempo passionale con sonorità ammiccanti agli Unruly Child che verranno. Tutto il disco è comunque di livello alto e scorre piacevole anche dopo numerosi ascolti risultando attuale anche a trentadue anni di distanza.

Infine una curiosità sulla copertina. La prima versione con una ragazza seminuda sdraiata su una futuribile fucking machine, venne presto sostituita da una versione senza l’ammiccante pulzella, probabilmente per le proteste delle associazioni bacchettone americane, per la precisione la PMRC di Tipper Gore, che da fine anni 80 ci ha ammorbato con tutte quelle etichette di Parental Advisory etc… Fortuna vuole che il mio vinile prima stampa abbia la copertina originale. Comunque sia, copertina censurata o no, il disco vale la pena di essere riscoperto, anche se sono sicurissimo che ai lettori di questa pagina non sarà certo sfuggito.

Danger Danger
Danger Danger

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Danger Danger – Danger Danger – Classico

12 Agosto 2022 10 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1989
etichetta: Rock Candy
ristampe: Rock Candy

Potrebbe sembrare scontato parlare di un disco così, ma altrimenti che rubrica dei classici sarebbe se non contenesse uno degli emblemi del cosiddetto hair metal?

I Danger Danger furono tra i capofila della seconda generazione di band che sul finire degli anni 80 portarono alla gloria ed alla sua completa espressione un genere che pescava e riadattava l’hard rock scatenato e caciarone della scena losangelina, mischiandolo alle melodie bongioviane, con un tocco dell’aor dei mid eighties che rendeva il tutto un po’ più sofisticato. Insieme a Tyketto, Winger, Giant etc… costituisce a tutt’oggi l’ossatura su cui poggia il sound della maggioranza dei gruppi odierni ed a più di trent’anni di distanza onestamente non mi pare poco.

Il merito va senz’altro alle abilità di songwriters di Bruno Ravel e Steve West capaci di creare un vero e proprio trademark ed alla voce di Ted Poley (proveniente dalla cult band Prophet, dove però era batterista), che ha dato una impronta inconfondibile alla band. Se a questo aggiungiamo una produzione stellare e il mixaggio di Mike Stone il gioco è fatto ed il risultato sono undici killer songs e nessun filler.

Naughty, Naughty apre il disco con un intro molto Aor per proseguire come un rullo compressore ed un ritornello da party rock de luxe. Under the Gun è già un capolavoro con la sua partenza pianistica simil ballad che invece si sviluppa in una rovente cavalcata di emozioni (una delle mie canzoni preferite di sempre). Saturday Nite è un mid tempo catchy e festaiolo, mentre Don’t Walk Away è il primo lento romantico e dall’accendino al vento facile. Bang, Bang spazza via la malinconia e ci riporta a nuovamente a battere il piedino ed a cantare a squarciagola il ritornello super catchy. Rock America è un altro pezzo di classe pura, una specie di Night Ranger che filano a 200 all’ora sulle higway americane. Ancora party rock di categoria superiore con Boys Will Be Boys più oscura e nottambula. One Step From Paradise è invece la ballad che chiunque e dico chiunque di sesso maschile ha messo nella cassettina che faceva alle tipe per fare colpo ed è inutile dire che almeno la canzone non ha mai fallito l’obbiettivo…  (l’autore della cassetta invece… beh è un’altro discorso :-)). Feels Like Love e Turn It Up sono due mid tempo, il primo più rilassato, il secondo più ritmato e ci portano al pezzo di chiusura e cioè la fiammeggiante e a tinte blues Live It Up.

Insomma un disco che già dalla notturna copertina con il losco figuro che incombe sulla città e sulla fanciulla, che in realtà non sembra poi così in pericolo, colpisce ed incuriosisce dal primo al milionesimo ascolto e si pone come una vera e propria icona di un genere al suo massimo splendore espressivo… obbligatorio!

Scorpions
Love At First Sting

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Scorpions – Love At First Sting – Classico

02 Agosto 2022 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 1984
etichetta:
ristampe:

Parlare di questo disco, per me, è molto difficile senza evitare banalità tipo “capolavoro”, “album fondamentale” e altre frasi ormai trite e ritrite, chiunque mastichi un pò la musica rock conosce gli Scorpions e l’importanza del nono album della band tedesca, che stava facendo l’ennesimo cambio di pelle, dopo aver esplorato l’hard settantiano con tanti riferimenti progressive e psichedelici nella prima parte di carriera, essersi buttati a capofitto nella nwobhm e quindi aver raggiunto uno status di band mondiale con un’approccio più easy, ma non per questo scontato. Paradossalmente “Love at first sting” è un album di transizione, assieme al successivo e un pò (tanto) meno ispirato “Savage Amusement”, durante l’album si alternano pezzi più catchy come la doppietta iniziale “Bad boys running wild” e “Rock you like a hurricane” e l’inno “Big city nights” con testi esplicitamente rivolti a sesso e vita “spericolata”, a canzoni più dirette e in your face tipicamente metalliche come “Coming home” e “The same thrill”, che parlano di rock’n’roll lifestyle, ad altre meno convenzionali come “As soon as the good times roll” più umorale e “Crossfire”dal mood oscuro, finalmente con testi un pò meno infantili (l’unica vera pecca del disco), mentre la chiusura è affidata al classico lentone, quella “Still loving you” che conoscono anche i sassi, gemma pseudometallica, quella progressione finale è tipica, oltre che da antologia, condotto da parole che ogni ragazza vorrebbe sentirsi dire da un uomo, non ho ancora parlato di “I’m leaving you”, terzo pezzo in scaletta e perché direte, semplicemente perché la ritengo più di un gradino al di sotto di tutto il resto dell’album, hard rock scontatuccio, dal testo ancora più banale e dall’andamento ridondante e non riesco a capire come potesse essere stato scelto come singolo e difatti non ottenne il successo degli altri quattro (!) singoli estratti.

Rispetto al precedente, durissimo, “Blackout”, la produzione, seppur affidata ancora a Dieter Dierks strizza l’occhio alle cose che iniziavano a diventare più bombastiche dall’altra parte dell’oceano, questa cosa unita al battage video che fece l’allora tostissima MTV, che fece girare in loop i video di “Bad boys running wild”, “Rock you like a hurricane”, “Big city nights” e “Still loving you”, consegnò il successo definitivo agli Scorpions, successo poi proseguito con i due album successivi, ma questo è un altro discorso. Anche l’accattivante copertina concepita da Kochlowski/Missmahl/Pieczulski, una società di progettazione grafica, ha contribuito alla fama del disco, lo scatto di Helmut Newton, famoso per il suo stile erotico, eseguito in bianco e nero a dare più fascino all’immagine del rocker tatuatore che bacia una ragazza mentre le fa un tatuaggio, è diventato una delle figure più iconiche di tutto il mondo della musica rock, ma ha anche creato qualche problema nell’America bigotta del PMRC, il che ha costretto l’entourage della band a pubblicare l’album negli U.S.A. con la foto dei cinque Scorpions che camminano vestiti di pelle, la stessa dll’inner sleeve del vinile originale, ma io credo proprio che questo “contrattempo” non abbia fatto altro che aumentare l’interesse per l’album e che non abbia assolutamente danneggiato le vendite, anzi, dato che “Love at first sting” è stato certificato per due volte album di platino! continua

Elektradrive
Due

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Elektradrive – Due – Gemma Sepolta

01 Luglio 2022 13 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1989
etichetta: 2012 Electromantic Music
ristampe: 2012 Electromantic Music

Premetto che la scena italiana dell’ hard n’ heavy degli anni 80 non mi ha mai entusiasmato più di tanto, ed il gap tecnico e compositivo tra le nostre bands e le altre della scena nord europea (per non parlare di Usa e Canada) è sempre stato elevato; paradossalmente trovo molta meno differenza ai giorni nostri. Ciò nonostante qualche punta di eccellenza c’era e sicuramente gli Elektradrive ne rappresentano uno degli apici più fulgidi, vuoi però per le ridotte dimensioni del nostro mercato interno, vuoi per un colpevole disinteresse delle grandi etichette dell’ epoca, tutto è purtroppo rimasto confinato ad un livello molto underground. Tutta questa premessa è doverosa e serve a dire che questo disco è nella nostra rubrica dei classici non per patriottismo o piaggeria alcuna, ma per suo assoluto merito e si è guadagnato questo diritto grazie a grandi canzoni che potevano competere con i nomi illustri di oltreoceano.

L’incontro tra me e Due, avvenne subito dopo aver letta la recensione di Beppe Riva sul numero 52 di Metal Shock, che mi impose un viaggio immediato verso il mio negozio di dischi di fiducia, per trovarmi poi tra le mani questo grande disco dalla copertina viola (che per un fiorentino doc è sempre un plus 🙂 ). continua

Winger
II In The Heart Of The Young

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Winger – II In The Heart Of The Young – Classico

14 Giugno 2022 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1990
etichetta: 2014 Rock candy
ristampe: 2014 Rock candy

Sicuramente nella nostra rubrica dei classici un disco degli Winger è un obbligo morale, già ma quale scegliere per rappresentare la band al top? Artisticamente credo che il meglio sia contenuto nei primi tre dischi e scartato Pull (anche se personalmente lo adoro),che come sound non rientra nei tipici canoni del resto della discografia, restano il debutto omonimo ( anche conosciuto come Sahara) e questo In The Heart Of The Young. Anche se personalmente preferisco di un pelo quest’ultimo, quando ho tali dubbi amletici, consulto gli iscritti del gruppo facebook di Rock Of Ages per ascoltare la vox populi, che stavolta, con una percentuale bulgara, ha dichiarato la preferenza per il secondo capitolo della band.

Fatta dunque la doverosa premessa sull’alto valore delle due proposte andiamo a vedere quali sono le peculiarità di In The Heart Of The Young che lo fanno preferire al suo pur valido ed acclamato  predecessore. Per prima cosa salta all’occhio una certa maturazione nel songwriting, che qui si stacca di più dalle tematiche sex oriented e va ad esplorare territori più ricercati ed intimisti. Secondo, la struttura dei pezzi è più variegata ed al classico hard rock rovente aggiunge ritmiche più marcatamente funkeggianti, qualche accenno ‘progressivo’ ed in Baptized By Fire si azzardano addirittura innesti rappegianti (a dire il vero non furono gli unici all’ epoca a tentare l’operazione) ed anche se questi crossover io li digerisco male , denotano comunque una certa attitudine a non giocare sul sicuro autoclonandosi all’infinito. Terzo ed ultimo punto, la presenza di tre canzoni da antologia, ovvero: l’appassionata ballad Miles Away, che trascinò il disco fino al traguardo del platino, Rainbow In The Rose con la sua struttura complessa ed un testo poetico e l’hard Aor di In The Day We’ll Never See. continua

Jimmy Barnes
Freight Train Heart

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Jimmy Barnes – Freight Train Heart – Gemma Sepolta

27 Maggio 2022 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 1987
etichetta: Liberation
ristampe: Liberation

Siamo nel 1984 in Australia.
I Cold Chisel sono una band nazionale di successo, nata una decina di anni prima, dedita a un pub rock diretto e senza troppi fronzoli la quale non sconfina in termini di successo oltre il paese natio e una parte del continente asiatico. U.S.A. ed Europa non sembrano interessate alla proposta e le classiche pressioni della casa discografica unite alle frizioni tra i membri della band portano all’inevitabile Split. Il cantante scozzese ma australiano di adozione Jimmy Barnes riparte da una carriera solista abbracciando in parte i gusti e le sonorità di quegli anni e dopo due buoni dischi, ‘Bodyswerve’ (1984) e ‘For The Working Class Man’ (1985) , prova l’all in seduto al tavolo dei big internazionali.

La Geffen, determinata a lanciarlo nel mercato americano, raduna una squadra sensazionale per agevolare il nostro a comporre ‘Freight Train Heart’; reclutati Jonathan Cain come principale coautore e dietro al mixer, Neal Schon, Randy Jackson, Huey Lewis, Joe Lynn Turner e ulteriori strumentisti fuoriclasse, con il contributo in fase di scrittura di Jim Vallance e Desmond Child, inspiegabilmente (o quasi) il disco si fermò alla posizione 104 della US Billboard Chart americana (In Australia rimase 5 settimane al primo posto, ma ciò non deve stupire, Jimmy li era ed è oggigiorno una superstar), da sempre scettica nei confronti dei prodotti stranieri derivanti da fuori confine.
Scritto ciò, ‘Freight Train Heart’ risulta ancor ora un lavoro completo, variopinto, che vede nel grintoso ma versatile timbro di Barnes e nella natura commerciale delle canzoni il perno intorno al quale disegnare tracce si di AOR di ottima fattura, ma al contempo contaminate da sfumature artistiche di varia origine.

L’opener “Driving Wheels”, dall’anima rock, ripercorre le medesime fortunate coordinate del singolo “Working Class Man” di 2 anni prima. La cover di Bob Dylan “Seven Days” gioca col boogie attorniata da un meraviglioso pianoforte rockabilly. “Too Much Ain’t Love Enough” trasuda atmosfere soffuse, regalandoci brividi rilassati e rilassanti; emozioni in musica. “Waiting For The Heartache”, scritta a 4 mani con il re mida Desmond Child, è notturna, sublime, dal refrain perfetto. Non a caso scelta tra i singoli con tanto di videoclip, in una veste differente da quella proposta nell’album, ospita alle backing Vocals Joe Lynn Turner. “Last Frontier”, Aor Hard Edge, infuocata da Neal Schon alle 6 corde, dedicata alla tribù dei natii australiani. “I’m Still on Your Side” ripropone le fortune di Journey e Foreigner impreziosite da virtuosismi Blues. A Concludere la commovente “Walk On”, super ballad in costante equilibrio tra rock e pop, che verrà riproposta oltre due decadi dopo dal suo coautore Joe Lynn Turner nel progetto Sunstorm.

A partire dal successivo ‘Two Fires’ (1990), che vedrà ancora Desmond Child al suo fianco, Barnes si allontanerà progressivamente dal genere qui proposto, continuando indistintamente ad ottenere riscontri positivi e successo nella “Sua” Australia.

Nelson
After The Rain

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Nelson – After The Rain – Classico

19 Aprile 2022 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

Il 1990 è stato forse l’ultimo anno di gloria (a livello commerciale) dell’hard rock in tutte le sue derivazioni; tutto sembrava meraviglioso ed i gruppi lanciavano dischi di successo a raffica, mentre orde di nuovi nomi venivano spinti in pompa magna verso la gloria….. chi avrebbe mai potuto lontanamente pensare che in un paio d’anni tutto sarebbe imploso? Io no di certo, infatti all’epoca accolsi questo debut dei gemelli Nelson in maniera alquanto sospettosa. Poco o nulla infatti si conosceva sul background di questi biondoni vichingo/americani, spuntati così, all’improvviso e finiti subito in heavy rotation sia su Videomusic sia su Hard!, vi ricordate questo esperimento giornalistico/televisivo made in fininvest, tutto votato al lato commerciale dell’Hard Rock? ( Mio Dio , siamo stati veramente ad un passo dal diventare un genere ‘mainstream’ e…..quasi quasi lo rimpiango). Da buon intenditore, che a quei tempi, poteva permettersi di avere la puzza sotto al naso, data la mole e qualità delle uscite, mi avvicinai a questo lp come un buon talebano di maniera, ovvero scettico e sospettoso. Invece obiettivamente parlando è innegabile che il disco sia degno di stare in mezzo ai più fulgidi esempi dell’hard melodico dell’epoca. continua