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Classici

Tesla
Mechanical Resonance

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Tesla – Mechanical Resonance – Classico

28 Agosto 2021 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1986
etichetta:
ristampe:

In un periodo dove molte band viravano o sul lato melodico o sul lato più glamour, come ad esempio nella scena di L.A., i Tesla, che provengono da Sacramento, puntano tutto sulla riscoperta delle radici classiche dell’hard rock, privilegiando le atmosfere blues ed in alcuni casi southern, fondendole con tagli chitarristici al limite del metal, ma anteponendo a tutto la musica nella sua essenza.

Nati come City Kidd, con il nucleo originale formato da Frank Hannon e Brian Wheat ai quali presto si unì Tommy Skeoch. Quando furono provinati l’ex camionista Jeff Keith, che si rivelò essere un eccellente cantante ed il batterista Troy Luccketta (ex Eric Martin) la formazione raggiunse la sua forma definitiva. Aiutati dallo storico talent scout e producer Tom Zutaut riescono ad ottenere un contratto con la Geffen Records. Su suggerimento del management mutarono il nome in Tesla dando vita anche al concept sullo scienziato Jugoslavo che proseguirà anche nei dischi seguenti.

Mi sono sempre trovato in estrema difficoltà a scegliere il migliore disco della loro discografia perché a mio avviso i primi tre lavori della band sono a loro modo tre gioielli dell’hard rock. In particolar modo i primi due e cioè, questo Mechanical Resonance e il successivo The Great Radio Controversy, nella mia mente si disputano continuamente la palma del più bello, pur con le loro sottili differenze. Quello che è certo, è che il songwriting della band è sempre stato ben sopra la media rispetto alle rock band coeve e pur se affinato negli anni a venire, si è sempre posto su ottimi livelli. Altra cosa notevole è la freschezza che questo esordio portò sulla scena Usa dell’epoca, tale da essere considerato dalla critica uno dei migliori debut del periodo.

La sezione ritmica apre alla grande il disco e con Ez Come Ez Go si capisce quale sia la strada tracciata, ritmi serrati chitarre scintillanti e la voce graffiante di JK ad inacidire il tutto. Segue Comin’ Atcha Live intro chitarristico omaggio a Van Halen e via dritti con un drumming serrato ai limiti del Metal, unica cosa che stempera i toni sono i chorus che si mantengono catchy ed azzeccati. Seguono Gettin’ Better che inganna con la sua partenza lenta sulla quale irrompe un hard blues elettrico e scoppiettante e 2 Late 4 Love stoppata e sincopata , un dettaglio che mostra tutta la ricercatezza delle composizioni dei Tesla. It’s only rock and roll gridano Hannon e soci con Rock Me To The Top, serrata ma orecchiabile con le stimmate da pezzo live. Brano numero sei ed altro abboccamento di lento, We’re No Good Togheter a discapito di un rallentamento delle ritmiche, punta sulla intensità dell’interpretazione vocale di Jeff Keith e sul finale accelera impetuosa, ricordate gli Aerosmith più blues degli esordi? Beh la scuola è quella. Modern Day Cowboy è il brano più commerciale del lotto, echi southern elettrici e dal taglio moderno, orecchiabile ,ma non banale, il singolo perfetto. Mi ricordo che ai tempi quando partirono le note di pianoforte di Changes , tra me e me pensai, evviva ecco la ballad, ma come poi ebbi a scoprire i Tesla ballad vere e proprie non ne hanno mai scritte, ed infatti non lo è nemmeno questa. Changes è probabilmente il brano più bello del disco ed uno dei migliori della loro discografia, intenso, profondo e riflessivo senza nulla concedere ai cliché del lentone hard rock. Little Suzi è il secondo singolo estratto ed è in realtà una cover dei Ph.D completamente rivisitata e arricchita di un intro di fattura country, uno di quei casi dove la cover disintegra l’originale. Love Me è a mio avviso il pezzo più debole del lotto, un mid tempo leggero e scontatino, anche se comunque molto orecchiabile. Molto più interessanti sono invece le sperimentazioni ricercate in Cover Queen e  l’onirica Before My Eyes che chiude questo maserpiece con un’altra dimostrazione della raffinatezza compositiva dei Tesla.

Termina dunque qui questo primo viaggio dei Tesla verso le radici della musica nella sua essenza, poche concessioni alla commercialità e tanta sostanza che saranno portate avanti anche in The Great Radio Controversy e Psychotic Supper , che restano a tutt’oggi pietre miliari dell’hard rock, da avere obbligatoriamente.

 

 

Roxus
Nightstreet

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Roxus – Nightstreet – Gemma Sepolta

19 Agosto 2021 3 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/Aor
anno: 1991
etichetta: ristampa con copertina alternativa per USA e Giappone Savage Rec 1992//1993 , remaster AorHeaven 2011
ristampe: ristampa con copertina alternativa per USA e Giappone Savage Rec 1992//1993 , remaster AorHeaven 2011

l’Australia è una di quelle terre parsimoniose in fatto di numeri, ma di sicuro quello che arriva da laggiù raramente è di scarsa fattura, come accade anche nella scena Canadese si riesce a spaziare in ogni ambito del rock duro ed affini con qualità e buongusto.

Questi Roxus sono un eccellente esempio di questa qualità. Uscito nel 1991, quindi oramai nel periodo crepuscolare del genere , non ebbe la benché minima possibilità di fare successo su scala globale, restando confinato alla scena locale, ma nonostante ciò, questo Nightstreet, rimane a tutt’oggi un vero gioiellino del cosiddetto Hair Metal (definizione per quanto mi riguarda abbastanza odiosa). Nati dalle ceneri dei De-Arrow, nei quali militavano il chitarrista Dragan Stanic ed in una delle ultime formazioni anche il talentuoso Singer Juno Roxas, i nostri aussie ci propongono un hard rock keyboard oriented di assoluto spessore, molto Danger Danger tanto per fare un nome illustre, con brani dotati di ritornelli catchy e melodie assassine che ti prendono al primo ascolto.

Rock And Roll Nights apre le danze in perfetto Danger Danger style, intro tastieroso, chitarra roboante, ritornello catchy e voce maestosa, cosa chiedere di più? My way è un mid tempo orecchiabilissimo che incarna tutti gli stilemi del genere, così come Bad Boys ruffiana e caciarona come solo a quei tempi si faceva. Midnight Love parte invece soffusa e notturna e la voce di Roxas impera incontrastata. Where Are You Now è il primo lentone tutto zucchero che in automatico ti fa alzare l’accendino in aria anche se sei da solo come un bischero. Energia e RnR nei tre minuti della title track prima di ripiombare con This Time nel lentone che negli Usa avrebbe fatto strappare molte mutandine alle teenager del tempo. Segue a mio avviso il pezzo più bello del disco, ovvero First Break Of The Heart, un mid tempo ritmato e con un giro di chitarra veramente azzeccato, per non parlare dell’ennesimo ritornello che si stampa in mente in un secondo. Stand Back è invece un pezzo di matrice più Pop, ammantato però di  molta energia ed ha il gran pregio di coinvolgere immediatamente, si chiude il disco con la pianistica ballad Jimi G, bella e malinconica.

Il disco, come dicevo , ha ottenuto un certo successo in Australia ed è stato ristampato e distribuito dalla Savage records, con una diversa copertina, in Nord America e in Giappone ed il gruppo ha fatto da spalla a tutte le grandi band che hanno fatto tour in Australia.  Avevano anche già registrato quattro nuovi pezzi con la collaborazione di Jeff Paris, ma era ormai il 1993 e il mood era irrimediabilmente  cambiato e non se ne fece di nulla, tanto che il gruppo si sciolse.

Se siete dunque nostalgici di queste sonorità, mentre vi rilassate sotto l’ombrellone….. mettetevi in caccia di questa gemma dei tempi che furono, ne rimarrete estasiati.

Fm
Tough It Out

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Fm – Tough It Out – Classico

14 Luglio 2021 19 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock/ Aor
anno: 1989
etichetta: Bad reputation 2005, Rock Candy 2012
ristampe: Bad reputation 2005, Rock Candy 2012

Dare la definizione di capolavoro è tecnicamente molto semplice, un opera che nel suo genere non presenta alcun difetto. Possiamo quindi classificare questo secondo disco degli Fm in questa categoria. D’altra parte, in questo disco uscito a tre anni dal validissimo esordio Indesrceet, nulla è stato lasciato al caso e fu anche l’ultimo tentativo di una certa portata fatto dalla epic per far sbarcare l’Fm rock/Aor made in England al di là dell’oceano. Una produzione scintillante, curata da Neil Kernon, che oggi a 35 anni di distanza fa invidia, la presenza di songwriter tra i quali quali le sorelle Randall e Desmond Child, uniti alla naturale capacità del gruppo di sfornare arrangiamenti sopraffini e melodie sempre accattivanti, hanno dato vita sicuramente ad uno dei migliori album che la terra di albione abbia mai sfornato in questo genere.

Come detto in apertura qui siamo dinanzi ad un opera che non ha assolutamente cali dall’inizio alla fine e le intenzioni sono ben chiare fino dall’ opener e title track Tough It Out, che dopo un’intro di tastiera tipicamente ottantiano, si dipana meravigliosamente anthemica e ci ricorda ancora che quanto fatte bene, le cose semplici sono sempre efficacissime. La finissima penna di Mr Child regala il primo hit single (almeno in Uk), vale a dire Bad Luck, un crescendo guidato dalle martellate sulle pelli di Pete Jupp , che ci traghetta fino al ritornello super catchy , ma mai banale. Altro giro altra bomba atomica, ovvero Someday, una delle AoR song per antonomasia, a distanza di decenni si discute ancora su quale sia la versione più riuscita se questa o quella fatta da Mark Free nel suo album solista,  questo dibattito già dovrebbe fare capire a che livelli stratosferici ci stiamo muovendo. Everytime I Think Of You è quello che più assomiglia ad una ballad , ma il piglio deciso del grande Steve Overland e l’incalzare della sezione ritmica danno quella energia e grinta che dimostrano che il rock melodico non è solo roba per mollaccioni romantici. Le capacità di arrangiamento emergono con The Dream That Died un brano fatto apposta per l’airplay radiofonico così come Can You Hear Me Calling, con i suoi coretti super accattivanti. Cito anche il mid tempo Does It Feel Like Love, impreziosito dai deliziosi tessuti di tastiere , una canzone da canticchiare al primo ascolto.

Insomma un album perfetto per avere successo , ma che per la celeberrima puzza sotto il naso degli yankee, rimase un fenomeno confinato ad una dimensione soltanto europea , costringendo il gruppo a cambiare etichetta ed a virare leggermente su sonorità più British oriented per mantenere appeal sullo zoccolo duro dei fan di casa.

Quest’anno la nostrana Frontiers ,che da anni è l’etichetta del gruppo, ha proposto una versione live di questo disco che anche a distanza di molti anni mantiene intatta la sua magia e di cui se volete, potete leggere la recensione seguendo questo LINK.

Nota conclusiva sulle due ristampe; è assolutamente vero che forniscono una pletora di bonus track, ma se volete ascoltare un mio consiglio, procuratevi la versione originale , nel mercato dell’usato si trova a cifre onestissime in qualunque formato, perché vi dico che il mio vinile super navigato a trenta e rotti anni di distanza fornisce una qualità sonora di gran lunga superiore e sopratutto non vanifica la scintillante produzione a scapito di un dannoso incremento dei volumi.  Fate come vi pare quindi, le opzioni non mancano di certo, ma è un disco da possedere a tutti i costi.

Shooting Star
It's Not Over

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Shooting Star – It’s Not Over – Gemma Sepolta

21 Maggio 2021 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/Aor
anno: 1991
etichetta: Renaissance Records 2008
ristampe: Renaissance Records 2008

Gli Shooting Star sono un gruppo che ha sempre viaggiato sul bordo tra underground e notorietà, con una cerchia di fans che ha permesso al gruppo di rimanere attivo e produrre ad oggi nove lp, senza però riuscire mai a raggiungere la fama a tutto tondo. La storia di questo gruppo è indissolubilmente legata al suo membro fondatore nonché principale compositore Van McLain prematuramente scomparso nel 2018 all’età di 62 anni. Il debutto discografico è datato 1980 e colloca le sue sonorità in un melodic rock vagamente pomp e con i suoi successori andrà a dare forma a quelle sonorità Aor made in Usa che a noi tanto piacciono, toccando i suoi vertici nel 1985 con Silent Scream e con questo It’s Not Over nel 1991. Come in tutte le discografie di un certo pregio, ci sarà sempre chi ama di più un disco rispetto all’altro, ma ho sentito di parlare di It’s Not Over perchè, oltre ad una maggiore affinità per il suo sound, contiene almeno tre potenziali hit che negli anni immediatamente precedenti al 91, in pieno boom commerciale del genere, avrebbero potuto elevare questo disco ad un vero e proprio caposaldo del melodic rock.

In questo lavoro si vanno ad esplorare sonorità che si collocano molto vicino ai Giant e a tratti ai Damn Yankees , con tutti i crismi del genere , dalle chitarre robuste , agli inserti tastieristici e alle spettacolari armonizzazioni vocali, merito proprio del buon McLain e dell’ottimo singer Keith Mitchell.

Si parte con la title track che serve a scaldare i motori, grazie al suo incedere chitarristico e la sua semplice, ma efficace struttura. Segue la catchy e ritmata Believe In Me, che si fa subito strada nella memoria. Terza canzone e primo episodio da fuoriclasse la ballad We Can’t Wait Forever ; a quei tempi appena 18 enne stavo scoprendo il potere magico delle ballads per fare colpo sulle pischellotte dell’ epoca ed il buon Gianni (Rip) della Galleria del Disco di Firenze ,che aveva perfettamente capito l’andazzo, mi aspettava col CD già nel lettore e la traccia ‘giusta’ già selezionata, grazie mille amico mio , ovunque tu sia, mi hai fatto scoprire tanta grande musica! Chiusa parentesi, proseguiamo la disamina con il Rock’n’roll ammiccante di Rebel With A Cause e la seguente Dancing On The Edge, dove nell’intro si ripescano un po’ le atmosfere tastieristiche dei loro inizi, fino a sfociare in un hard di gran classe. Poi un uno due da KO, If You Got Love mid tempo suadente con tutti i crismi dell’hit single, seguito dalla power ballad Blame It On The Night, che a parere di chi scrive è una delle top song del suo genere. Hard rock elettrico perfetto per il live è Get Excited, mentre più immediata e con atmosfere Damn Yankees è Cold Blooded. Chiude il disco un’altra perla di intimismo compositivo ovvero Compassion e se non vi piace questa canzone, non so proprio cosa possiate avere al posto del cuore (cit.).

Insomma un disco che nel marasma di quegli anni è passato inosservato, ma che contiene tutto ciò che può fare felice un amante della melodia a tutto tondo e che vi consiglio caldamente di recuperare insieme ad altri della discografia degli Shooting Star.

 

Tangier
Stranded

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Tangier – Stranded – Gemma Sepolta

14 Maggio 2021 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/ Blues
anno: 1991
etichetta: Wounded Bird 2008
ristampe: Wounded Bird 2008

I Tangier sono stati un gruppo della scena di Philadephia che negli anni 80 ha sfornato gruppi in quantità certamente minore ad altre scene , ma sicuramente di qualità assoluta Cinderella , Britny Fox su tutti. Autori di due dischi e “mezzo”, il primo ed autointitolato è tecnicamente un demo in versione deluxe fatto uscire dal loro produttore in musicassetta con distribuzione semiclandestina e successivamente, sull’onda della notorietà ottenuta dal gruppo, stampato anche in vinile e cd, ma la diatriba sul fatto che sia  no una uscita ufficiale resta comunque aperta. Tralasciando comunque questo disco che seppur musicalmente gradevole mostra solo una impronta estremamente embrionale della band, il vero esordio può essere considerato Four Winds del 1989 seguito dopo due anni da questo Stranded. Qui si apre sempre sempre una discussione su quale sia il migliore , con chi sostiene a spada tratta Four Winds e le sue atmosfere più grezze e “polverose”e chi ostinatamente difende Stranded contrapponendo la maggiore pulizia sonora e la maggiore attitudine catchy. Personalmente la scelta è sempre stata piuttosto dura, ma dovendone scegliere uno per questa rubrica ho preferito optare di un soffio per questo Stranded in virtù di un paio di canzoni di caratura veramente superiore ed una voce a mio avviso più completa e convincente, ma sono dettagli e preferenze personali che nulla tolgono al validissimo Four Winds.

Analizzata dunque la parte storica ed inquadrato il contesto, andiamo a sviscerare le caratteristiche di questo album. La matrice come per il predecessore è ancora assolutamente blues, ma viene mitigata anche grazie all’uso delle tastiere, facendo virare il sound verso un’ hard rock più patinato e “aerosmithiano” perdendo le sfumature più southern che davano a Four Winds quel sapore vagamente nostalgico e retrò. Si parte a manetta col bluesettone Cinderella style di Down The Line che riesce a muoversi con sapiente equilibrio tra grezzo e pulito e dove LaCompte marca subito le differenze col suo predecessore. Secondo pezzo e potenziale hit, ovvero Caution To The Wind sexy e ruffiana con tanto di interpretazione vocale Coverdaliana e che dire…..si sente la penna di Jim Peterik?…Direi proprio di si. Hard blues e ritornello accattivante per You’re Not The Loving Kind che si avvale del songwriting di Eric Brittingham. Poi come per marcare ulteriormente le distanze dal predecessore arriva la ballad Since You Been Gone che pur rispettando tutti i canoni classici del genere è comunque un touch of class di un certo pregio. Takes Just A Little Time è di matrice più blues ed è uno degli episodi forse più affine a Four Winds, seguono più o meno sullo stesso canovaccio, soltanto un po’ più sostenute e R’n’R, Excited e Back In The Limelight. La title track Stranded, che fu anche singolo, è una ballad semiacustica di pregevole fattura che senza eccessive zuccherosità esplora il lato più intimista del songwriting. Si chiude con l’ ammiccante It’s Hard con i suoi arrangiamenti old style e con l’evidentissimo omaggio a Ragdoll degli Aerosmith nella finale If Ya Can’t Find Love.

Insomma gente, questo è l’ennesimo gioiellino partorito in quegli anni frenetici e meravigliosi per la nostra musica, da recuperare dall’oblio per dargli la giusta luce. A proposito, visto che ci siamo prendete anche Four Winds, così vissero tutti felici contenti e con le orecchie soddisfatte.

Shadow King
Shadow King

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Shadow King – Shadow King – Gemma Sepolta

02 Maggio 2021 13 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 1991
etichetta: Rock Candy 2018
ristampe: Rock Candy 2018

In ambito di rock melodico il 1989 è forse stato l’anno aureo per eccellenza sia per qualità che per quantità, ma se andiamo a controllare i nostri archivi discografici, vedrete che il 1991 non è stato sicuramente da meno, solo che le orecchie e le attenzioni delle etichette discografiche erano già volte altrove e si stava già pianificando una virata verso altri lidi che sarebbero diventati mainstream di lì a breve. Ci fu quindi quasi una corsa a ” svuotare il catalogo” per fare uscire dischi ormai contrattualizzati senza poi starci dietro più di tanto, una sorta di sottocosto volto a liberare i magazzini.
In questo contesto esce questo supergruppo dove Lou Gramm si contrappone ai suoi ex Foreigner che usciranno anche loro quell’anno con il mezzo flop commerciale Unusual heat.
Supergruppo dicevo, costruito a tavolino e pilotato dal polistrumentista e co autore Bruce Turgon che dirige il lavoro completato da un Vivian Campbel, che pur svolgendo il compitino stretto a lui assegnato, contribuisce al sound  con i suoi tocchi di classe per niente scontati; dietro le pelli  troviamo infine l’esperto ed affidabile  Kevin Valentine.
Il disco è magistralmente prodotto da Keith Olsen e propone dieci gemme assolute di Rock melodico , tanta melodia viene però mitigata dal lavoro chitarristico più hard che fa da contrappunto alle inevitabili sortite in stile Foreigner di Gramm , splendidi esempi sono: What Would It Take , This Heart Of Stone , Once Upon A Time e Boy.
La parte più  Rockeggiante viene fuori in  Danger In The Dance Of Love dove la chitarra di Campbell ruggisce di più. Splendida inoltre la supermega ballad da lacrimuccia, Don’t even know i’m alive (Foreigner allo stato puro), ma il disco non ha cali di tensione emotiva e tutte le canzoni sono di qualità sopraffina.
L’ultimo pezzo, l’unico tra l’altro dove mette la penna Vivian Campbell, è la meravigliosa ballad semiacustica Russia dove i sussurri e la voce di Gramm si appoggiano, con una magia evocativa unica, sulle note della chitarra , una canzone che da annoverare nei must assoluti del genere.

Ora io spero che lo abbiate tutti nella vostra discografia e che quindi questa sia solo un’occasione per togliere un po’ di polvere e rimetterlo nel lettore cd, perché nel caso non lo aveste, sappiate che non vi verrà riservato il posto nel paradiso dei melodic rockers.
Credo inoltre che sarebbe il caso di dedicare una esaustiva retrospettiva ai primi tre anni dei “maledetti ” anni 90 che meriterebbero di essere raccontati in tutta la loro meravigliosa agonia.

Nuclear Valdez
I Am I

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Nuclear Valdez – I Am I – Gemma Sepolta

13 Aprile 2021 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Pop Rock/Melodic Rock
anno: 1989
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Che bellissimi anni quelli dall’ 87 al 92,  dove un teenager che come me si stava innamorando dell’hard melodico, ha potuto vivere in diretta uscite spettacolari ed altre, che seppur con minore riscontro commerciale, degne comunque di nota , tutte comunque figlie di un periodo florido dove le majors si scannavano per proporre gruppi e nuovi talenti a tutto spiano.
Proposta infatti abbastanza originale quella di questi Nuclear Valdez, che al contrario del nome, propongono un disco molto melodico anche se di non facile etichettatura….. si potrebbe definirli un Melodic rock chitarristico con connotazioni vagamente folkeggianti , a volte ricordano un po’ Tom Petty in salsa ispanica dalle venature malinconiche, altre volte non si disdegna rivolgere l’occhio al sound di Santana con tocchi di blues.
Il quartetto di Miami di chiara discendenza cubana e dominicana, non si avvale di un tastierista di ruolo e il suono che viene proposto è un melange di melodia, grinta ed introspezione,  mostra sempre una certo piglio rock anche nei suoi passaggi più compassati ed il merito è certamente anche della voce accattivante e caliente di Froilan Sosa che fornisce una prova veramente di buon livello.
Canzoni degne di nota ce ne sono diverse a cominciare dall’ opener Summer col suo ritmo sostenuto , il  ritornello catchy e le ottime linee vocali, che al tempo valsero anche l’ingresso in classifica. La successiva Hope che paga pegno a Santana rendendogli omaggio. If I Knew Then è un bluesettone passionale e malinconico, mentre Eve è un hard pop semiacustico di gran presa , sarà poi riproposta riarrangiata in chiave più elettrica ( e secondo me più efficace) nell’ album successivo. Si fa notare per le sue qualità anche Apache, dal ritmo tribale e l’incedere veloce, e molto bella, con i suoi tratti folk è la successiva Run Through The Fields.

Insomma un disco non ordinario , ma senza dubbio gradevole,  per i timpani fini e tutti gli amanti della melodia ad ampio spettro. La produzione è eccellente e pienamente negli standard elevati dell’epoca, i testi non sono mai banali, e gli interpreti offrono una prova veramente di livello per un esordio discografico.
Vi fosse sfuggito…..

A proposito, molto valido è anche il seguente Dream Another Dream uscito nel 1991 sempre per epic , quindi se questo disco vi ha stuzzicato suggerisco di procurarsi anche l’altro.

Journey
Escape

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Journey – Escape – Classico

25 Marzo 2021 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1981
etichetta:
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Come quando la polvere cosmica comincia a radunarsi intorno ad un centro di gravità, fino a raggiungere la massa critica che innesca i processi nucleari al suo interno dando vita ad una stella, tutto quello che è derivato da Escape ha dato vita al movimento melodico, dando origine a ciò che chiamiamo AOR ed a quello che fino ad oggi ne è seguito. Almeno per quanto riguarda l’aspetto commerciale è proprio nel 1981 con Escape che ha origine l’AOR, musicalmente infatti qualche atmosfera era cominciata a virare verso queste sonorità e per esempio, i Reo Speedwagon di Hi Infidelity ed il primo Loverboy sono dei prototipi che troveranno la sublimazione definitiva proprio con la genesi di Escape. La perfetta quadratura del cerchio, tra melodie irresistibili, suoni scintillanti e produzioni sopraffine. Per me , che causa anagrafe, il nome Journey è stata una scoperta fatta tra l’89 e il 91 per via delle uscite di Bad English e The Storm, ripercorrerne la storia è stato come un magico viaggio nel tempo fino alla sorgente primigenia di queste sonorità.

La loro avventura inizia infatti nel 73 quando la band si formò attorno all’allievo di Santana Neal Schon come chitarrista e Gregg Rolie alle tastiere e alla voce. La formazione si completò con il bassista Ross Valory e il chitarrista ritmico George Tickner e con il batterista Prairie Prince. E’ però alla fine degli anni 70 che con l’ingresso di Steve Perry alla voce che si comincerà a migrare verso un sostanziale cambio di sound e cominciare un vero e proprio percorso che terminerà con la genesi dell’ Aor. Altra spinta sicuramente cruciale in questa storia è venuta dalla Columbia, che già nel 1977 cominciò a fare pressioni sul gruppo  affinché commercializzasse di più il proprio sound, virando verso il rock radio friendly che cominciava in quegli anni ad appassionare il pubblico. Piccola parentesi sui corsi e ricorsi storici, il potere delle case discografiche nell’indirizzare le volte artistico commerciali ed orientare i gusti del pubblico, si ripeterà pari pari una decina di anni più tardi con la discesa delle camice flanellate che, per qualche anno, detteranno le nuove coordinate sonore mainstream. Chiusa la parentesi filosofica, torniamo a parlare delle pressioni che portarono nel 78 all’ingresso di Perry ed al nuovo corso sonoro che ebbe in Infinity, il suo primo embrione .Con l’aumento delle vendite ed il successo che comincia ad arridergli, i nostri eroi continuano nella maturazione del nuovo sound facendo uscire dischi con sempre maggiore appeal , Evolution e Departure proseguono la virata verso il rock da classifica, con produzioni via via sempre più centrate. L’ultimo cambio di formazione , ovvero l’ingresso dell’ ex Babys Johnathan Cain (proprio su suggerimento dell’uscente Greg Rolie), fornirà la definitiva scintilla che porterà alla nascita di Escape ed al  conseguente boom commerciale che fisserà i canoni di tutto il melodic rock per il decennio seguente dall’alto dei suoi 9 dischi di platino. Con ben tre singoli numero uno per settimane e la strada del successo spalancata davanti, le canzoni dei Journey finirono ovunque, spot pubblicitari , film e serie tv cominciarono a diffondere quel tipo di sound ovunque , orientando i molteplici gruppi che seguiranno a pescare a piene mani dal repertorio di idee dei Journey,  nasceranno come funghi miriadi di Steve Perry clones, creando un vero e proprio fenomeno di costume collettivo.

Parlando delle canzoni ,  praticamente non c’è niente fuori posto ed il trittico di compositori Cain , Schon, Perry non sbaglia un colpo, sia quando si cimenta nei pezzi più ritmati e duri quali Lay It Down e Keep On Running, sia quando si vanno a toccare atmosfere piu’ bluesegianti come in Dead Or Alive. I mid Tempo come Stone In Love e le ballad sognanti come Still They Ride saranno esempi iconici del sound Journey ed anche la ricercatezza di pezzi come la title track e Mother Father sono avanti anni luce rispetto alla media del periodo. Poi il trittico Don’t Stop Believin, Who’s Crying Now e Open Arms, canzoni che a quarant’anni di distanza sono cantate a squarciagola da milioni di fans e che rappresentano un vero e proprio simbolo di classe e melodia. Non facciamoci dunque ingannare dall’appeal commerciale, qui c’è tanto hard rock pieno sì di melodia , ma anche di feeling ed energia a fiumi, che anche grazie alla iperproduzione di Kevin Elson e Mike Stone si mischiano in un melange maestoso mai udito prima.

Insomma mi rendo conto che qui si rischia di esagerare con i superlativi, ma c’è poco da fare, il melodic rock resterà per sempre legato al nome di questo gruppo. Basti pensare che Escape e Frontiers sono anche i nomi di due case discografiche che dai travagliati anni novanta fino ad oggi ,  contribuiranno in modo determinante a tenere viva la fiamma della melodia.  A proposito, ci potrebbero essere discussioni tra chi preferisce Frontiers ad Escape , ma sinceramente siamo su livelli talmente eccelsi che la considero pura filosofia, ho semplicemente scelto Escape perché è con questo disco che avviene la trasformazione vera e propria del sound e nasce il mito Journey.

Della reperibilità nemmeno parlerò , esistono talmente tante versioni e tra remaster , bonus track, cofanetti , vinili, cd e chi più ne ha più ne metta. Il Disco è da avere ad ogni costo la versione ed il supporto sono l’ultimo dei problemi. Quaranta anni di storia cominciano qui, dovete solo aprire il libro.

Coverdale Page
Coverdale Page

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Coverdale Page – Coverdale Page – Gemma Sepolta

15 Marzo 2021 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1993
etichetta:
ristampe:

Quello che è utile nei matrimoni d’interesse è che svolgano la funzione per cui sono stati celebrati e questo disco ne è la plastica dimostrazione. Il connubio tra questi due mostri sacri dell’ hard rock nasce infatti dagli interessi coincidenti dei due protagonisti e saranno portati a completa realizzazione proprio grazie a quest’opera. Jimmy Page non è mai riuscito a digerire completamente la fine dei Led Zeppelin e nonostante i progetti solisti e i due album dei The Firm ( con Paul Rodgers) l’astinenza da dirigibile era sempre pressante, non riuscendo a convincere Plant, che nel frattempo se ne era fatta ben più di una ragione, ha tentato la carta della gelosia, ovvero fare un disco con quello che tutti consideravano l’emulo più credibile e famoso di Mr. Plant. Coverdale dal canto suo dopo i polveroni commerciali di 1987 e Slip Of The Tongue aveva ancora una volta smontato gli Whitesnake e dopo gli ennesimi problemi di salute era in attesa di qualcosa che non rischiasse di essere un buco nell’acqua, dopotutto il vento degli anni 90 aveva cambiato direzione e il pericolo di finire in disgrazia era concreto. Quindi quando il boss della Geffen ( distributrice per gli usa degli Whitesnake) iniziò a tramare per un progetto comune per i due artisti trovò il terreno super fertile ed in men che non si dica i due cominciarono a produrre musica. Il disco fu registrato in quattro differenti sessioni ed altrettanti studios ( tra i quali gli Abbey Road di Londra) , nelle canzoni infatti si percepiscono anche i vari stadi di miglioramento della voce di Coverdale.

Il frutto di questi sforzi si espleta in undici solide canzoni che partendo dalla comune matrice blues, si sviluppano ora più nella direzione classica degli Zeppelin ora più verso la matrice Hard Rock più chart oriented degli Whitesnake 2.0. Infatti il disco pur essendo uscito nel 1993, vende abbastanza bene, i problemi saranno più durante i tour, che non adeguatamente supportati segneranno un mezzo flop, decretando così la fine del progetto. Nonostante tutto però gli obbiettivi dei due deus ex machina saranno raggiunti. Coverdale mostrerà di essere ancora in palla e dopo un album blues e un live acustico ( assolutamente splendido) riprenderà in mano gli Whitesnake fino ai giorni nostri, l’operazione gelosia infine riporterà Page e Plant (che nel frattempo ebbe a definire David il “Cover…Version”) insieme sul palco e collaborare ancora…. e vissero tutti felici e contenti.

Questo disco non va però ripescato solo per la sua funzione storica o per il gossip che generò; qui ci sono pezzi di alta scuola , Shake My Tree con il suo riffettone blues e le spiccate tematiche sex oriented tanto cari ai Whitesnake prima maniera, il lento Take Me For A Little While ovvero una sorta di Sailing Ship ancor più emozionale, Pride And Joy zeppeliniana nel suo intimo profondo ed Over Now che innesta parti molto Hard Rock in una atmosfera Khasmiriana originale e familiare allo stesso tempo. Altre menzioni meritano Absolution Blues che inizia  con il chitarrone di Page, su cui Coverdale offre una prestazione notevole ed infine la grandiosa Whisper A Prayer For The Dying, un pezzo etereo e mistico con un’altra grande prova offertaci da Mr. Page.

Insomma il disco è di livello assoluto e addirittura  David Coverdale ha dichiarato che siccome erano già pronti sei brani per l’eventuale sequel, si starebbe accordando con Page per una edizione remasterizzata con queste track in aggiunta, questo significa che probabilmente toccherà preparare i nostri portafogli, con la speranza che la remasterizzazione possa correggere un po’ di difetti della produzione originale che sicuramente non era a livelli  eccelsi……..Preghiamo fratelli e sorelle, preghiamo.

Van Stephenson
Suspicious Heart

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Van Stephenson – Suspicious Heart – gemma sepolta

10 Marzo 2021 6 Commenti Yuri Picasso

genere: AOR
anno: 1986
etichetta:
ristampe:

L’8 aprile di quest’anno saranno 20 anni che Van Wesley Stephenson, più semplicemente Van Stephenson, ci ha lasciato, prematuramente, a causa di un melanoma col quale combatteva da oltre un anno.
Il primo pensiero che mi viene alla mente se penso a questo Artista Vero proveniente dall’Ohio, Hamilton, oltre le innumerevoli collaborazioni avute con Signal e Giant tra gli altri, è una ristampa di Suspicious Heart a cura della tedesca High Vaultage edita nel 1996 che riporta sul libretto dei testi un pensiero dello stesso Van Stephenson rilasciato nello stesso 1996 in occasione della doppia ristampa (SH e Righteous Anger del 1984, rispettivamente terzo e secondo album da solista dopo il debutto “China Girl”del 1981):
credeva nella ristampa di entrambe gli album perché anche se erano passati 10 anni e poco più dalla nascita di quei brani, li reputava ancora ottime canzoni in grado di dispensare emozioni.
Ora da quel lontano 1996 sono passati altri 25 anni (!!!) e quelle canzoni continuano a essere una fonte inesauribile di emozioni, argomento di discussione tra i fans e punto di riferimento nonché influenza per gli artisti che si intraprendono la difficile strada(almeno per bontà e quantità di riscontri) dell’AOR.

Confermata una backing band di primissima fascia (la medesima di Righteous Anger) tra i quali Dan Huff alla chitarra e Alan Pasqua ai tasti d’avorio che da li a poco troveremo nei Giant, Mike Baird (Michael Bolton, Joe Cocker e altri innumerevoli collaborazioni) alla batteria.

Perennemente sospeso tra romanticismo e malinconia, rispetto al suo predecessore le scelte virano sulla ricerca di arrangiamenti notturni e scintillanti, caratterizzati da una scelta di suoni mai banali, enfatizzati da una produzione stellare.
E’ un disco dannatamente completo e meravigliosamente immediato condito dal timbro di Van Stephenson, l’anello ben presente per elevare il disco allo status di Masterpiece.

Apre le danze “We’re doing alright”, arriviamo al primo bridge ed è chiaro sin da subito il sentiero che l’intero disco percorrerà.
Rimarremo meravigliati dai colori e dalle emozioni che proveremo durante il cammino.
La ricerca della speranza in musica continua con “We Should Be Togheter Tonight”,
colori notturni disegnati dalle keys di Alan Pasqua
E’ malinconia allo stadio musicale la title track, condita da un arrangiamento ricercato ed immediato e fa coppia con “Desperate Hours”.
Semplice Romantica e Diretta la ballad “Never Enough Night”, la quale profuma del primo Bryan Adams.
Sul finale del disco l’anima Rock del nostro torna con “Fist Full of Heat”, ripresa dai Sunstorm di Joe Lee Turner nel primo capitolo. La chitarra di Dan Huff fino ad ora utilizzata per avvolgere, accarezzare i brani con inserti mai banali e arricchire il bagaglio emotivo di ogni singolo brano, alza il wattaggio, diventa lo strumento principe, si prende la scena e accompagna i ritornelli di “Glamourous” e apre le danze nella conclusiva “No Secrets”.

Un capolavoro musicale che mancherà la classifica di Billboard e che porterà il nostro, dopo aver registrato una serie di demo di bellezza incommensurabile (andatevi ad ascoltare sul tubo le demo di “Never in a Milion Years ” e di “Grand Illusion”, pensatele registrate e prodotte a puntino e lasciatevi travolgere dai brividi), alla musica country e a formare nel 1993 i BlackHawk, riscuotendo finalmente e meritatamente un ottimo successo negli States.

Van Stephenson ha perso la sua battaglia per la sopravvivenza terrena molto presto a soli 47 anni; tutti noi, chi prima chi poi, perderemo questa battaglia, ma la sua musica, la sua arte ha ampiamente superato la prova del tempo.