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Classici

Scorpions
Love At First Sting

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Scorpions – Love At First Sting – Classico

02 Agosto 2022 0 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock
anno: 1984
etichetta:
ristampe:

Parlare di questo disco, per me, è molto difficile senza evitare banalità tipo “capolavoro”, “album fondamentale” e altre frasi ormai trite e ritrite, chiunque mastichi un pò la musica rock conosce gli Scorpions e l’importanza del nono album della band tedesca, che stava facendo l’ennesimo cambio di pelle, dopo aver esplorato l’hard settantiano con tanti riferimenti progressive e psichedelici nella prima parte di carriera, essersi buttati a capofitto nella nwobhm e quindi aver raggiunto uno status di band mondiale con un’approccio più easy, ma non per questo scontato. Paradossalmente “Love at first sting” è un album di transizione, assieme al successivo e un pò (tanto) meno ispirato “Savage Amusement”, durante l’album si alternano pezzi più catchy come la doppietta iniziale “Bad boys running wild” e “Rock you like a hurricane” e l’inno “Big city nights” con testi esplicitamente rivolti a sesso e vita “spericolata”, a canzoni più dirette e in your face tipicamente metalliche come “Coming home” e “The same thrill”, che parlano di rock’n’roll lifestyle, ad altre meno convenzionali come “As soon as the good times roll” più umorale e “Crossfire”dal mood oscuro, finalmente con testi un pò meno infantili (l’unica vera pecca del disco), mentre la chiusura è affidata al classico lentone, quella “Still loving you” che conoscono anche i sassi, gemma pseudometallica, quella progressione finale è tipica, oltre che da antologia, condotto da parole che ogni ragazza vorrebbe sentirsi dire da un uomo, non ho ancora parlato di “I’m leaving you”, terzo pezzo in scaletta e perché direte, semplicemente perché la ritengo più di un gradino al di sotto di tutto il resto dell’album, hard rock scontatuccio, dal testo ancora più banale e dall’andamento ridondante e non riesco a capire come potesse essere stato scelto come singolo e difatti non ottenne il successo degli altri quattro (!) singoli estratti.

Rispetto al precedente, durissimo, “Blackout”, la produzione, seppur affidata ancora a Dieter Dierks strizza l’occhio alle cose che iniziavano a diventare più bombastiche dall’altra parte dell’oceano, questa cosa unita al battage video che fece l’allora tostissima MTV, che fece girare in loop i video di “Bad boys running wild”, “Rock you like a hurricane”, “Big city nights” e “Still loving you”, consegnò il successo definitivo agli Scorpions, successo poi proseguito con i due album successivi, ma questo è un altro discorso. Anche l’accattivante copertina concepita da Kochlowski/Missmahl/Pieczulski, una società di progettazione grafica, ha contribuito alla fama del disco, lo scatto di Helmut Newton, famoso per il suo stile erotico, eseguito in bianco e nero a dare più fascino all’immagine del rocker tatuatore che bacia una ragazza mentre le fa un tatuaggio, è diventato una delle figure più iconiche di tutto il mondo della musica rock, ma ha anche creato qualche problema nell’America bigotta del PMRC, il che ha costretto l’entourage della band a pubblicare l’album negli U.S.A. con la foto dei cinque Scorpions che camminano vestiti di pelle, la stessa dll’inner sleeve del vinile originale, ma io credo proprio che questo “contrattempo” non abbia fatto altro che aumentare l’interesse per l’album e che non abbia assolutamente danneggiato le vendite, anzi, dato che “Love at first sting” è stato certificato per due volte album di platino! continua

Elektradrive
Due

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Elektradrive – Due – Gemma Sepolta

01 Luglio 2022 13 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1989
etichetta: 2012 Electromantic Music
ristampe: 2012 Electromantic Music

Premetto che la scena italiana dell’ hard n’ heavy degli anni 80 non mi ha mai entusiasmato più di tanto, ed il gap tecnico e compositivo tra le nostre bands e le altre della scena nord europea (per non parlare di Usa e Canada) è sempre stato elevato; paradossalmente trovo molta meno differenza ai giorni nostri. Ciò nonostante qualche punta di eccellenza c’era e sicuramente gli Elektradrive ne rappresentano uno degli apici più fulgidi, vuoi però per le ridotte dimensioni del nostro mercato interno, vuoi per un colpevole disinteresse delle grandi etichette dell’ epoca, tutto è purtroppo rimasto confinato ad un livello molto underground. Tutta questa premessa è doverosa e serve a dire che questo disco è nella nostra rubrica dei classici non per patriottismo o piaggeria alcuna, ma per suo assoluto merito e si è guadagnato questo diritto grazie a grandi canzoni che potevano competere con i nomi illustri di oltreoceano.

L’incontro tra me e Due, avvenne subito dopo aver letta la recensione di Beppe Riva sul numero 52 di Metal Shock, che mi impose un viaggio immediato verso il mio negozio di dischi di fiducia, per trovarmi poi tra le mani questo grande disco dalla copertina viola (che per un fiorentino doc è sempre un plus 🙂 ). continua

Winger
II In The Heart Of The Young

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Winger – II In The Heart Of The Young – Classico

14 Giugno 2022 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1990
etichetta: 2014 Rock candy
ristampe: 2014 Rock candy

Sicuramente nella nostra rubrica dei classici un disco degli Winger è un obbligo morale, già ma quale scegliere per rappresentare la band al top? Artisticamente credo che il meglio sia contenuto nei primi tre dischi e scartato Pull (anche se personalmente lo adoro),che come sound non rientra nei tipici canoni del resto della discografia, restano il debutto omonimo ( anche conosciuto come Sahara) e questo In The Heart Of The Young. Anche se personalmente preferisco di un pelo quest’ultimo, quando ho tali dubbi amletici, consulto gli iscritti del gruppo facebook di Rock Of Ages per ascoltare la vox populi, che stavolta, con una percentuale bulgara, ha dichiarato la preferenza per il secondo capitolo della band.

Fatta dunque la doverosa premessa sull’alto valore delle due proposte andiamo a vedere quali sono le peculiarità di In The Heart Of The Young che lo fanno preferire al suo pur valido ed acclamato  predecessore. Per prima cosa salta all’occhio una certa maturazione nel songwriting, che qui si stacca di più dalle tematiche sex oriented e va ad esplorare territori più ricercati ed intimisti. Secondo, la struttura dei pezzi è più variegata ed al classico hard rock rovente aggiunge ritmiche più marcatamente funkeggianti, qualche accenno ‘progressivo’ ed in Baptized By Fire si azzardano addirittura innesti rappegianti (a dire il vero non furono gli unici all’ epoca a tentare l’operazione) ed anche se questi crossover io li digerisco male , denotano comunque una certa attitudine a non giocare sul sicuro autoclonandosi all’infinito. Terzo ed ultimo punto, la presenza di tre canzoni da antologia, ovvero: l’appassionata ballad Miles Away, che trascinò il disco fino al traguardo del platino, Rainbow In The Rose con la sua struttura complessa ed un testo poetico e l’hard Aor di In The Day We’ll Never See. continua

Jimmy Barnes
Freight Train Heart

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Jimmy Barnes – Freight Train Heart – Gemma Sepolta

27 Maggio 2022 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 1987
etichetta: Liberation
ristampe: Liberation

Siamo nel 1984 in Australia.
I Cold Chisel sono una band nazionale di successo, nata una decina di anni prima, dedita a un pub rock diretto e senza troppi fronzoli la quale non sconfina in termini di successo oltre il paese natio e una parte del continente asiatico. U.S.A. ed Europa non sembrano interessate alla proposta e le classiche pressioni della casa discografica unite alle frizioni tra i membri della band portano all’inevitabile Split. Il cantante scozzese ma australiano di adozione Jimmy Barnes riparte da una carriera solista abbracciando in parte i gusti e le sonorità di quegli anni e dopo due buoni dischi, ‘Bodyswerve’ (1984) e ‘For The Working Class Man’ (1985) , prova l’all in seduto al tavolo dei big internazionali.

La Geffen, determinata a lanciarlo nel mercato americano, raduna una squadra sensazionale per agevolare il nostro a comporre ‘Freight Train Heart’; reclutati Jonathan Cain come principale coautore e dietro al mixer, Neal Schon, Randy Jackson, Huey Lewis, Joe Lynn Turner e ulteriori strumentisti fuoriclasse, con il contributo in fase di scrittura di Jim Vallance e Desmond Child, inspiegabilmente (o quasi) il disco si fermò alla posizione 104 della US Billboard Chart americana (In Australia rimase 5 settimane al primo posto, ma ciò non deve stupire, Jimmy li era ed è oggigiorno una superstar), da sempre scettica nei confronti dei prodotti stranieri derivanti da fuori confine.
Scritto ciò, ‘Freight Train Heart’ risulta ancor ora un lavoro completo, variopinto, che vede nel grintoso ma versatile timbro di Barnes e nella natura commerciale delle canzoni il perno intorno al quale disegnare tracce si di AOR di ottima fattura, ma al contempo contaminate da sfumature artistiche di varia origine.

L’opener “Driving Wheels”, dall’anima rock, ripercorre le medesime fortunate coordinate del singolo “Working Class Man” di 2 anni prima. La cover di Bob Dylan “Seven Days” gioca col boogie attorniata da un meraviglioso pianoforte rockabilly. “Too Much Ain’t Love Enough” trasuda atmosfere soffuse, regalandoci brividi rilassati e rilassanti; emozioni in musica. “Waiting For The Heartache”, scritta a 4 mani con il re mida Desmond Child, è notturna, sublime, dal refrain perfetto. Non a caso scelta tra i singoli con tanto di videoclip, in una veste differente da quella proposta nell’album, ospita alle backing Vocals Joe Lynn Turner. “Last Frontier”, Aor Hard Edge, infuocata da Neal Schon alle 6 corde, dedicata alla tribù dei natii australiani. “I’m Still on Your Side” ripropone le fortune di Journey e Foreigner impreziosite da virtuosismi Blues. A Concludere la commovente “Walk On”, super ballad in costante equilibrio tra rock e pop, che verrà riproposta oltre due decadi dopo dal suo coautore Joe Lynn Turner nel progetto Sunstorm.

A partire dal successivo ‘Two Fires’ (1990), che vedrà ancora Desmond Child al suo fianco, Barnes si allontanerà progressivamente dal genere qui proposto, continuando indistintamente ad ottenere riscontri positivi e successo nella “Sua” Australia.

Nelson
After The Rain

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Nelson – After The Rain – Classico

19 Aprile 2022 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Aor
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

Il 1990 è stato forse l’ultimo anno di gloria (a livello commerciale) dell’hard rock in tutte le sue derivazioni; tutto sembrava meraviglioso ed i gruppi lanciavano dischi di successo a raffica, mentre orde di nuovi nomi venivano spinti in pompa magna verso la gloria….. chi avrebbe mai potuto lontanamente pensare che in un paio d’anni tutto sarebbe imploso? Io no di certo, infatti all’epoca accolsi questo debut dei gemelli Nelson in maniera alquanto sospettosa. Poco o nulla infatti si conosceva sul background di questi biondoni vichingo/americani, spuntati così, all’improvviso e finiti subito in heavy rotation sia su Videomusic sia su Hard!, vi ricordate questo esperimento giornalistico/televisivo made in fininvest, tutto votato al lato commerciale dell’Hard Rock? ( Mio Dio , siamo stati veramente ad un passo dal diventare un genere ‘mainstream’ e…..quasi quasi lo rimpiango). Da buon intenditore, che a quei tempi, poteva permettersi di avere la puzza sotto al naso, data la mole e qualità delle uscite, mi avvicinai a questo lp come un buon talebano di maniera, ovvero scettico e sospettoso. Invece obiettivamente parlando è innegabile che il disco sia degno di stare in mezzo ai più fulgidi esempi dell’hard melodico dell’epoca. continua

Jim Jidhed
Full Circle

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Jim Jidhed – Full Circle – Gemma Sepolta

15 Aprile 2022 13 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 2003
etichetta:
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Qualunque reale estimatore di Musica, assapora ogni fase di acquisto di un disco. L’ordine, l’attesa, l’averlo tra le mani, studiarne la copertina, aprirlo e finalmente lasciarsi andare alle sensazioni pure tratte durante l’ascolto. È una sensazione che ho provato più volte nella mia vita, come chiunque stia leggendo queste righe; qualche anno fa la collezione fisica del sottoscritto contava più di 1400 pezzi, fino a che mi sono arreso e mi sono dato all’ascolto della musica in digitale, scelta dovuta anche alla carenza di spazio fisico rimastomi.

Perché dico ciò ? Perché, se da una parte il collezionista non ha difficoltà a trovare lavori superflui, artisticamente insufficienti, dall’altra talvolta dovrebbe pensare a puntare meno sulla quantità e più sulla qualità, andando magari a spendere qualche euro in più per un lavoro difficilmente reperibile e in attesa di ristampa. Non è stato semplice per anni trovare una copia di ‘Full Circle’, non lo è tutt’ora, tra le poche nuove rimaste in commercio (quotate oltre i 100,00 €) e usate per le quali devi capitare col timing giusto (al momento in cui scrivo si trovano buone seconde mani a 25/30 €).

Dopo aver abbandonato gli Alien a fine anni 80 e un buon esordio solista datato 1990, Jim Jidhed decise di provare la strada del cantato in lingua madre (‘Snart Kommer Natten’, traducibile come ‘La Notte Sta Arrivando’ – 1991). E poi…il silenzio. Fino a che la sfortunata etichetta svedese Atenzia Records (101 South, Mark Spiro, Diving For Pearls), nata nel 2001 e defunta nel 2005, chiese Jim di mettere a disposizione il suo talento artistico circondandolo di musicisti di prim’ordine (Marcel Jacob, Tommy Denander, Bruce Gaitsch e molti altri) per dare vita a questa gemma sepolta dell’AOR. Siamo nel 2003 e Jim non ne veniva da un periodo personale liscio, era in corso un riavvicinamento con la moglie a cui molte canzoni presenti in scaletta sono dedicate. Coordinate artistiche similari a quelle tipiche dei Journey, con qualche puntata in territorio Giant e Bad English. Il tutto per sfruttare al massimo il suo timbro similare a tratti a quello di Steve Perry e a tutti i suoi successori, Kevin Chalfant, Steve Augeri etc…. continua

Tall Stories
Tall Stories

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Tall Stories – Tall Stories – Gemma Sepolta

08 Aprile 2022 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1991
etichetta:
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Tall Stories, ovvero come sarebbe potuto essere l’hard rock melodico negli anni 90, ma purtroppo non fu….

Sarà perché venivano da New York, sarà che oramai il top era già stato raggiunto alla fine degli anni 80, ma quando usci questo disco io ebbi subito una impressione di freschezza ed originalità. Intendiamoci, non è certo un disco di avanguardia che pretende di inventare nulla, c’è però la voglia di non intraprendere un sentiero musicale troppo inquadrato in specifici cliché oramai abusati, quali ad esempio l’anthem furioso e la ballad ‘strappamutanda’ a tutti i costi . Certo sono presenti riferimenti agli Zeppelin ed anche ai Journey (soprattutto nella impostazione vocale di Augeri), ma non sono mai forzati, anzi i vari accenni a sonorità anche distanti tra loro, una produzione ottima, ma essenziale e minimal nei suoni ( moda che si stava affermando anche in altri generi), uniti ad un uso parsimonioso delle tastiere, contribuiscono a forgiare un sound pressoché unico nel panorama di quegli anni.

Prendiamo Wild On The Run per esempio, ascoltate come entra la voce di Augeri dopo l’intro urbano e il giro di chitarra minimal. Un ingresso alla Plant fatto con sfacciata naturalezza, ma senza la forzatura di chi vuole dimostrare a tutti i costi qualcosa e senza ostentare (chi ha detto Greta Van Fleet ? :-)) , Il tutto in uno svolgimento della canzone naturale e vario. Rilassata e melodiosa con accenni funkegianti, valorizzata dai preziosi e mai invadenti inserti di chitarra di Jack Morer è la successiva Chains Of Love. Crawling Back è l’esempio di come assomigliare agli Zeppelin, senza assomigliare agli Zeppelin, ovvero inserire in una atmosfera seventies suoni attuali e moderni ( almeno per l’epoca) con una appassionata interpretazione. Ritmata bluesy e rocciosa è Sister Of Mercy, ovvero feeling allo stato puro. Stay With Me è forse più canonica nella sua struttura e guarda forse più ai Giant, senza però mai cadere nella esplicita citazione. Somewhere She Waits è una boccata di aria fresca, un lento che non è una ballad, ma trastulla con la  sua rilassatezza e le atmosfere Journey. World Inside You arroventa l’atmosfera col suo svolgimento funky e sexy. Restless One è un altro lento dalle atmosfere blues e southern, un po’ Tangier?….si ma solo un po’. Intro tribale ed incedere ‘sculettante’, caratterizzano Never Enough. Close Your Eyes chiude il disco col botto, graffiante ed ammiccante.

Insomma la scena melodica non era, forse, così morta come sembrava e questo disco potrebbe essere la prova che era possibile essere minimali e creativi pur non sfociando nella depressione. Con i se e con i ma non si fa la storia e le grandi major discografiche preferirono cavalcare l’ onda che gia stava montando, piuttosto che coltivare molteplici alternative e tutto finì (almeno per i Tall Stories) con questo disco; il successivo Skyscraper uscito nel 2009 pur essendo un disco gradevole non è infatti assolutamente accostabile a questo.

Tall Stories in inglese significa frottola o storiella, quindi non raccontatemi che non lo avete perché non ci credo. Questo è uno degli obbligatori assoluti del genere e bisogna averlo.

 

Asia
Alpha

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Asia – Alpha – Classico

18 Marzo 2022 15 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1983
etichetta:
ristampe:

C’è chi dice che questo disco sia magnifico……e chi mente sapendo di mentire.

Un po’ di storia. La fine degli anni 70 e l’inizio degli 80 sono stati un periodo di svolta musicale; l’ondata progressive mostrava segni di stanchezza artistica e commerciale, ecco dunque la cura valida per ogni epoca, il supergruppo! Si prende il meglio di ciò che offre il periodo a livello musicale e lo si mette insieme, sperando così di raccogliere i consensi dei fans dei vari gruppi di appartenenza, a volte funziona, a volte un po’ meno. Il primo omonimo disco degli Asia funzionò alla grande, almeno a livello commerciale anche se, come spesso succede, i fan dei gruppi di appartenenza ebbero a mugugnare non poco.  Carl Palmer, Steve Howe, Geoff Downes e John Wetton rappresentavano infatti una sorta di gotha del prog, mentre Asia di prog aveva solo qualche accenno quà e là, puntando tutto sulla melodia di facile assimilazione e classe in quantità industriale. Inevitabilmente pezzi come Heat Of The Moment e Only Time Will Tell trascinarono il gruppo nelle classifiche, ma scavarono un solco con i fan di vecchia data. Figurarsi quando l’anno successivo uscì questo Alpha, che di prog aveva soltanto qualche sfumatura negli arrangiamenti (però… ahimè, quante volte un arrangiamento fatto a modo cambia il destino di una canzone non se lo ricorda mai nessuno), molti li dettero per bolliti e commerciali ignorando le incredibili melodie contenute in questo disco. Probabilmente il mio è un caso anomalo, Alpha è stato infatti il mio primo disco Aor (se Aor vogliamo definirlo, perché ci sarebbe da discutere, ma vabbè, semplifichiamo) ed ha marcato il mio imprinting sonoro. Evidentemente il mio approccio senza retropensieri e totalmente ingenuo mi ha aiutato ad apprezzare al massimo le canzoni contenute in Alpha, portandomi in seguito ad appassionarmi sia all’Aor, sia al progressive, adorando in particolar modo le commistioni tra questi due generi, come ho già avuto modo di scrivere in altre recensioni. Posso dire tranquillamente che Alpha è stato un titolo profetico per me, in senso letterale.

Insomma, ma cosa deve avere un disco per essere definito un grande disco? Non basta l’impatto di Don’t Cry, con il suo ritmo e la sua grande melodia? No? E non basta nemmeno la sublime e sognante The Smile  Has Left Your Eyes? No problem, perché segue subito la magnifica e quasi pomp Never In A Million Years. Che vi devo dire, qui ci sono solo potenziali hit a raffica, un disco così uscisse oggi dovremmo andare tutti in pellegrinaggio a Fatima…. e a piedi. My Own Time (I’ll Do What I Want), ci trasporta con le sue note delicate verso un’altra canzone leggendaria ovvero The Heat Goes On, sono più di trent’anni che quando l’ascolto sbrodolo senza ritegno. Eye To Eye, ha il gusto pop sviscerato con piglio rock, The Last To Know è un’altro lento dalle atmosfere impareggiabili. True Colors è forse la canzone che rimanda più alle origini prog adattate all’epoca dell’airplay radiofonico. Chiudono Midnight Sun e Open Your Eyes altri due gioielli crossover Aor/Prog.

Io non so da quanto tempo non lo riascoltate, ma questo disco non soffre per nulla lo scorrere del tempo ed anzi, come un buon vino, si fa apprezzare sempre di più negli anni ed io non posso assolutamente esimermi dal periodico rituale del riascolto. Se poi per caso non lo aveste mai sentito per intero dovete porre subito rimedio: poltrona, vinile o cd posizionato nel lettore e via col sogno, a cominciare dalla copertina.

Silent Rage
Don't Touch Me There

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Silent Rage – Don’t Touch Me There – Classico

12 Marzo 2022 16 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1989
etichetta: Z Records (2001) / Rock Candy (2021)
ristampe: Z Records (2001) / Rock Candy (2021)

Ecco un altro di quei gruppi con cui Gene Simmons tentò di accreditarsi come producer discografico con la sua etichetta omonima, in maniera simile a quanto fatto con i Giuffria, ricostruiti ad hoc per farli diventare gli House Of Lords.

Il lavoro precedente dei Silent Rage intitolato Shattered Hearts, era infatti un buon disco di hard rock abbastanza ruffiano e melodico, con all’interno canzoni potenzialmente di ottima qualità, grazie alla partecipazione di Paul Sabu sia in fase di songwriting sia alla produzione. Il disco che era però uscito su una etichetta (Chamaleon) alquanto underground , soffrì proprio nella produzione di una evidente scarsità di mezzi, con il risultato che i suoni erano cupi e smorti, lontani quindi anni luce dagli standard dell’epoca. L’immagine della band era oltretutto anonima e orientata ad un look quasi glam che stava già mostrando i segni del tempo.

Siccome il buon vecchio Gene non è un bischero e nel marketing sa il fatto suo, ha proposto una ricetta molto simile a quella usata con gli House Of Lords e cioè canzoni  hard rock con suoni scintillanti e patinati, look della band attualizzato e reso più macho, con una copertina che ai tempi fece ingolosire diverse donzelle e…. last but not least una produzione top budget firmata nuovamente da Paul Sabu.

Il sound di questo Don’t Touch Me There, va a collocarsi vicino ai riferimenti migliori del class metal dell’epoca, quali: Dokken, Hurricane SteelHeart e compagnia bella. La voce di Jesse Damon è un incrocio quasi ideale tra il Coverdale versione 1987 e il Paul Sabu degli Only Child e risulta perfettamente calata sia nell’epoca, sia nel contesto musicale. Runnin’ On Love è il perfetto esempio di questo connubio musicale e sfreccia in bilico tra la melodia trascinante e suoni taglienti. La seguente I Wanna Feel It Again, parte molto Whitesnake per sfociare in un ritornello Kiss style, mentre Tonight You’re Mine è suadente ed ammiccante come solo le canzoni di quell’epoca sapevano essere. Rebel With A Cause, è l’anthem da cantare a squarciagola già uscito sul primo disco, se avete la possibilità di ascoltare entrambe le versioni, risulta evidente cosa vuol dire poter usufruire di mezzi economici superiori. Touch Me, Tear Up The Night e Shake me Up ripercorrono nelle tematiche sex oriented e nel sound le orme delle serpente bianco in maniera più che evidente. La title track si orienta su uno stile melodico alla Foreigner, ma rivestito di elettricità. Can’t Get Her Out Of My Head è invece una cover degli Electric Light Orchestra riproposta in versione più hard. All Night Long è un mid tempo dove la penna di Bruce Kulick si sente ed indirizza il brano in chiave Kiss. Chiude il disco I’m On Fire, hard rock pestato e lineare come si faceva una volta, pochi fronzoli e tanta energia.

Insomma un disco tutto d’un pezzo per un gruppo che è arrivato alle soglie del successo senza però varcarlo definitivamente. Grazie alle due recenti ristampe, sono sicuro che non vi saranno difficoltà nel reperirlo qualora a suo tempo vi fosse sfuggito.

 

Randy Jackson's China Rain
Bed Of Nails

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Randy Jackson’s China Rain – Bed Of Nails – Gemma Sepolta

18 Febbraio 2022 16 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock / Aor
anno: 1991 - 1993
etichetta:
ristampe:

Storia di un disco che doveva uscire per una major, fu cancellato ed uscì due anni dopo per una etichetta italiana specializzata in pop e disco dance. I misteri del music biz delle major americane di quegli anni sono avvolti dalle nebbie del mito e della leggenda e trascendono la logica umana. Quale sia il senso di spendere vagonate di soldi in songwriters, studi di registrazione e promozione per cancellare l’uscita di un disco alla sua vigilia resta infatti un mistero.

Essendo stato assiduo lettore dei vari magazine dell’epoca, ricordo qualche articolo che parlò di questa uscita tentando di ricostruire il fatto. Vi riporterò allora quella che è la ‘leggenda’ più plausibile. Il disco era fatto e finito, era stato anche già girato un video, la copertina ed i promo in cassetta (che cosa romantica il promo in cassetta), erano già stati fatti circolare alla stampa specializzata, ricordo che su Metal Shock c’era trepidante attesa. Ecco che allora, qualche capoccione alla Atlantic, decise di posporre l’uscita a tempo indefinito per lasciare spazio ad altri dischi quali, Mane Attraction e Slave to the Grind, che erano in rampa di lancio così da non ingolfarne le vendite. Dato poi il carattere mutevole del mercato e di chi a quei tempi gestiva queste cose, alla fine il disco finì nel dimenticatoio. Cosa abbia spinto la nostrana Dig it ad acquisirne i diritti, stipulando poi accordi con altre etichette per la distribuzione in Nord america e in Giappone, è forse un mistero ancor più grande. Il core business dell’ etichetta era infatti rivolta a ben altri lidi e forse, si voleva tentare di esplorare altri mercati, chissà… Ad ogni modo bisogna solo ringraziare, perché altrimenti questo piccolo gioiello non avrebbe mai visto la luce.

Il personaggio su cui ruota il gruppo è ovviamente Randy Jackson, protagonista con gli Zebra, band hard rock sempre in bilico tra culto e notorietà. Coadiuvato in sede di songwriting da Mark Slaughter, Dave Sabo e soprattutto dal magico duo Jack Ponti e Vic Pepe, il buon Randy da alla luce un disco di Hard Rock molto accattivante e vicino a sonorità radio friendly che, nel recente passato, furoreggiava nelle classifiche. Il Ponti sound è un trademark per gli amanti del genere e mediato dalla sensibilità più sofisticata di Jackson, da vita ad un disco orecchiabile e ruffiano, ma sicuramente non scontato.

L’opener You’re Only Lonely Today e la successiva Bang On The Wall si muovono in territori zeppeliniani con feeling ed energia. Mentre il marchio di Ponti si sente nella struttura di Psychedelic Sex Reaction (che sarà successivamente riproposta anche dai Babylon AD) e nella produzione della ballad Last Forever, suadente ed acchiappante. Light Of My Love è energica e potente, mentre Bed Of Nails è anthemica e piena dei cori che fecero la fortuna del sound Baton Rouge. Non c’è da stupirsi che Before It’s Too Late sia più elettrica e tirata in quanto la penna di Mark Slaughter si fa sentire anche nella struttura dei cori. I Loved You Lied è la ballatona da accendino al vento e in quegli anni erano maestri nello sfornarne a raffica. Valerine offre ancora la ricetta pontiana per il successo: chitarre taglienti, giri iper melodici e ritornelli catchy allo stato puro. Love Calls è ritmata e robusta, ma si scioglie malinconica nel ritornello e nell’assolo di chitarra, veramente una canzone sofisticata e raffinata.

Insomma, se proprio vogliamo trovare un difettuccio, potrebbe essere che l’alternanza delle varie penne dia una sensazione poco omogenea al disco; però di canzoni così al giorno d’oggi se ne scrivono poche e visto i soldi che hanno speso per mettere su il progetto, sarebbe delittuoso non mettersi alla ricerca di questa chicca venuta alla luce quasi per caso. Buona caccia.