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Classici

Tigertailz
Bezerk

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Tigertailz – Bezerk – Classico

17 Dicembre 2020 0 Commenti Yuri Picasso

genere: Hard rock/ Glam
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

I Motley Crue Gallesi, da Cardiff per essere pignoli. Parliamo di glam rock multicolor, di musica graffiante ma divertente, dei Poison del paese dei castelli . La ricerca del coro vincente mediante l’abuso di più voci per fare uscire dalle casse l’effetto chewing gum caratterizzava la loro proposta, unita a riff taglienti e immediati suonati dall’ottimo chitarrista John Pepper, nonché fondatore assieme al bassista Pepsi Tate (1965 – 2007 R.I.P).

Dopo aver pubblicato con quel matto di Steevi Jaimz alla voce “Young and Crazy” nel 1987 (alcol e guai con la legge erano all’ordine del giorno), viene reclutato al microfono il talentuoso Kim Hooker per dare vita a quello che è il loro piccolo capolavoro,“Bezerk”; era il 1990, e nonostante il genere avesse iniziato a vivere la sua eclissi, con band che negavano il loro passato e studiavano sul come sopravvivere alla decade “nera” cambiando pelle, i nostri riuscirono ad ottenere ottimi riscontri non solo nel Sol Levante, ancora di salvezza per molte band nate sul finire degli anni 80, ma pure nella vicina Inghilterra dove l’album raggiunse la posizione 36 delle official charts.

Trascinato da singoli quali la ballad “Heaven”, le divertenti e magnetiche “Love Bomb Baby” e “Noise Level Critical”, ma non solo.

La carne al fuoco qua non manca, anzi. In ogni pezzo troviamo l’insana pazzia e la tipica sfrontatezza proprie del sunset strip riviste in chiave anglosassone; l’ispirazione, il coinvolgimento/sconvolgimento sessuale (e su questo l’opener “Sick Sex” potrebbe essere un manifesto dell’epoca).

Cori trascinanti come in “Squeeze It Dry”, scanzonata a partire dalla strofa o l’altrettanto spericolata “I Can Fight Dirty Too”, una corsa sfrenata in 4/4.

Bezerk si conclude con il funky sleaze di “Call of The Wild”.

Dopo lo scioglimento avvenuto l’indomani di Wazbones (1995, solo per il mercato giapponese vedendo i nostri abbracciare una strada maggiormente metal) ci furono un paio di reunion:

Jaimz formerà la sua versione dei Tigertailz nel 2003 senza pubblicare alcun disco di studio e perdendo la causa contro Hooker Tate Pepper, i quali non si limitarono all’attività live ma daranno in pasto ai fan ottimi lavori (Bezerk 2.0 è un ottimo disco), senza snaturare la propria natura artistica

Ricordo molto bene l’esibizione nel primo pomeriggio in quel dell’Idroscalo al Gods of Metal del 2007, trascinante sebbene aiutata da cori preregistrati.

Dopo la morte di Tate a causa di un tumore al pancreas, il nucleo storico si sciolse, seguito da ulteriori ma in questo caso vani tentativi di riportare il nome Tigertailz al culto di un tempo.

Dischi come Bezerk rimangono ottimi dipinti oramai sbiaditi dal tempo ma dall’ immutato impatto emotivo.

 

 

Skagarack
Hungry For a Game

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Skagarack – Hungry For a Game – Gemma Sepolta

17 Dicembre 2020 2 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic rock/AoR
anno: 1988
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Ricordo come se fosse ieri quando una quindicina di anni fa mi ritrovai tra le mani una first press usata al mercatino di dischi e vinili di Genova che si teneva due volte l’anno fino a poco tempo fa di “Hungry For A Game”. Giornate passate a esaminare cosa mi interessava e cosa mi mancava nella mia crescente collezione. Avevo un’altra età.

Il mio essere pseudo musicista, l’essermi innamorato da pochi anni di un genere musicale tanto poco commerciale in quel momento quanto ricco di realtà e diramazioni, la mia crescente curiosità artistica, alimentavano la fame di conoscere, documentarmi, leggere riviste ed enciclopedie dedicate. E fu proprio in uno di questi adorati “mattoni” che si parlava dei danesi Skagarack come una realtà di assoluto valore musicale nel vasto panorama AOR – Melodic Rock che troppo poco aveva raccolto in termini successo al di fuori della Scandinavia. Senza guardare il prezzo comprai in quell’occasione “Hungry for a Game” (uscito ai tempi per la Polydor) e nel giro di poco tempo mi accaparrai l’intera discografia.

C’è chi preferirà il puro Aor dell’esordio, c’è chi preferirà il taglio hardeggiante di “A Slice of Heaven“ del 1990 e c’è chi preferirà il perfetto connubio tra AOR e Melodic Rock presente nel disco in oggetto.Siamo nel 1988 e ascoltando il platter gli Europe di “Out of This World” sono il primo riferimento che ci torna in mente, e il più conosciuto. Cascate di armonie dominate da tonnellate di tastiere, spruzzate di sintetizzatori e una chitarra che sia in fase ritmica che in quella solista regala arpeggi riff ghost notes tutto amalgamato da una produzione scintillante, perfetta. Non c’è uno strumento che prevale su un altro, tutto lavora stupendamente in funziona di un songwriting davvero ispirato.

Ad ogni ascolto veniamo attirati da particolari diversi e non si ha MAI la sensazione di pesantezza o lungo il playing per arrivare alla fine del disco, emozione che nei lavori odierni proviamo troppo spesso.

Difficile fare una review track by track non inciampando sugli stessi aggettivi, difficile scegliere i pezzi migliori di questo platter.

Impossibile non parlare di “She’s a Liar” divisa tra Aor tipico della scuola scandinava e inserti pre-chorus maggiormente Heavy dominata da un ritornello pronto a stamparsi in testa e a non uscirne più. Nell’americana “Joanna” troviamo un ottimo mix di Journey e Survivor. Nel ricettario dei chorus vincenti e mai scontati inseriamo volentieri “Somewhere in France”, ricordo di una notte passata in compagnia di una misteriosa donzella, chissà se frutto di fantasia oppure suggestioni di un episodio reale. Un riff vagamente Survivor ala “Eye Of The Tiger” accompagna la strofa del capolavoro “Always in a Line”, per poi sfociare in un ritornello tutto tastiere e Europe. I gruppi scandinavi odierni pagherebbero per tirar fuori dalla loro penna un brano cosi vario e avvincente. Echi class metal nella riuscita “Outrageus” dominata da uno spirito californiano sbarazzino e positivo.

Capitolo ballads: cadenzate e pienamente riuscite entrambe; se “This World” è una riflessione notturna sui tempi e sul valore dei sentimenti che cambiano, straordinariamente attuale, “Facing The truth” affronta la difficoltà nell’ affrontare e ammettere la fine di un Amore. Straordinari i ricami strumentali lungo entrambe i brani.

A essere onesti l’intero disco, all’interno di ogni singolo brano, presenta inserti e assoli guidati da strumentisti (Jan Petersen alla chiatarra, Tommy Thiel Rasmussen ai tasti d’avorio) straordinariamente ispirati che trasformano buone canzoni in ottime canzoni.

Il loro successo si limitò in gran parte nei paesi del nord Europa e nella natia Danimarca. Dopo il successivo “A Slice of Heaven” la band nella sua line up classica si scioglierà. Sotto il moniker Skagarack, accompagnato da una line-up diversa, il vocalist Torben Schmidt pubblicherà nel 1993 “Big Time” ma i tempi erano cambiati e le possibilità di fare il grande salto nulle. Nel 2008 la band si è riunita nella sua line up originale per show e festival in giro tra Danimarca e Nord Euorpa con la promessa non mantenuta di pubblicare un nuovo album. Solo a gennaio di quest’anno è stato pubblicato “Be With You Forever” un singolo che vede coinvolti i soli Schmidt e Petersen seguito da un altro singolo ad Aprile , “Changing”. Pezzi discreti che provano a riesumare parte di quella magia indelebile presente nei primi 3 dischi di questa band.

 

Bonfire
Fireworks

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Bonfire – Fire Works- Gemma Sepolta

17 Dicembre 2020 5 Commenti Giulio B.

genere: Hard rock
anno: 1987
etichetta:
ristampe:

Nella mia breve carriera da recensore (amatoriale), ho riscontrato una falla nel mio sistema di scrittura; senza un reale motivo di fondo, sono sempre stato un po’ allergico all’hard rock di matrice teutonica. Per carità, ci sono alcuni album degli Scorpions e alcuni degli Helloween presenti nella mia discografia, ma sono come granelli di sabbia in una spiaggia, rispetto alla vastità di proposte che arrivano dal centro Europa.

Per lenire a questa falla, devo fare marcia indietro sino al lontano 1987, quando, per pura casualità, decisi di acquistare la musicassetta di una band, a me sconosciuta, chiamata Bonfire.

“Fire works” è l’album che esce da quei miei “ottusi” schemi e che considero una gemma dell’hard rock di stampo tedesco e mondiale.

Uscito tramite la prestigiosa BMG, prodotto da uno dei Diego Maradona (RIP) della produzione, Michael Wagener, registrato negli studi americani di Hollywood , supportato al songwriting dai grandi Desmond Child e Jack Ponti, “Fire works” è il secondo album della band capitanata, ancora oggi, dal chitarrista Hans Ziller, unico “superstite” di quella prodigiosa formazione.

Al suo fianco la voce di Claus Lessmann (di recente nei Phantom V), storico e emblematico frontman nella loro discografia, il session-man Ken Mary alla batteria, il bassista Joerg Deisinger, l’altro chitarrista Horst Maier-Thorn (RIP) e Martin Ernst in supporto alle tastiere.

La qualità delle canzoni rende impossibile una descrizione track by track. Non ci sono cali di tensione o filler ma c’è una tracklist così roboante da reggere il confronto con album storici nel settore. Da “Ready 4 reaction” a “Cold days” è un trionfo di potenza e melodia; le venature teutoniche sono plasmate da forti richiami a stelle e strisce che resero l’album molto appetibile anche oltre oceano. Al tempo, riuscì a vendere più di 100.000 copie, destando un grande interesse e successo.

Oggi, canzoni come “Never Mind”, “Champion”, “Sleeping all alone”, “Fantasy” e la power ballad “Give it a Try” sono alcuni dei fiori all’occhiello dei Bonfire.

Semplicemente da avere, semplicemente “fuochi d’artificio” musicali.

 

Michael Bolton
The Hunger

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Michael Bolton – The Hunger – Classico

17 Dicembre 2020 2 Commenti Yuri Picasso

genere: Aor
anno: 1987
etichetta:
ristampe:

4 milioni di copie vendute dovrebbero rendere orgoglioso e fiero qualunque Artista o prodotto di talent Show uscito dai vari Amici – Xfactor – The Voice.

Scrivere e suonare un disco con musicisti quali Bruce Kulick, Eric Martin, Joe Lynn Turner, Martin Briley, Bob Halligan Jr, Diane Warren, Neal Schon, Jonathan Cain (e tanti altri ancora) dovrebbe farti capire che hai raggiunto un apice, superabile certo, ma rimarrà ai posteri un’alta vetta della tua carriera. Se non commerciale, meramente artistica.

Un obiettivo compiuto in grado di lasciare un segno, che verrà preso come ispirazione e visto come un punto di arrivo da colleghi e addetti ai lavori.

Nessuno spazio per rinnegazioni, nemmeno se il materiale scritto e cantato non ti aggrada.

Eppure…Eppure Michael Bolotin (di famiglia d’origine russo-ebraica rinominato Bolton ai tempi del disco “Michael Bolton” del 1983 dopo la non fortunata esperienza come frontman dei Blackjack e due dischi solisti a nome Bolotin passati inosservati) finchè ha potuto si è opposto alle ristampe dei suoi dischi Aor, e se andiamo a vedere le tracklist dei suoi concerti non canta pezzi tratti dai suoi album degli anni 80 da decadi, eccezione fatta per i singoli/cover che hanno spopolato nelle charts.

Eppure.. Eppure sono dei dischi meravigliosi, spaziano dall hard rock al puro Aor coinvolgendo come scritto sopra artisti di primissimo livello. E lo stesso Bolton è un artista con la A maiuscola. Come Voce, come songwriter.

Ho scelto di scrivere su questo The Hunger, anno di grazia 1987, perché rappresenta un perfetto mix di cio che la musica ancora oggi sarebbe in grado di offrire.

“The Hunger” è un equilibrio perfetto di generi musicali, una veduta panoramica dalla quale non staccherei mai gli occhi.

Una scacchiera di grandi musicisti dove il Re rimane interpretato dalla sua ugola, accerchiato da regine alfieri torri e pedoni di primo livello artistico che strutturano e consolidano l’immensità di queste 9 tracce, la varietà della proposta musicale e le proprie qualità.

“Hot Love”, mid tempo hard edge semplice e curato in ogni dettaglio, entra in testa e farebbe sfracelli dal vivo ancora oggi. “Gina” dal refrain anthemico, coadiuvato da synths sempre presenti ma mai invasivi, “The Hunger” mix magistrale di piano voce sax e ancora tanta melodia.

Masterpiece after Masterpiece, come non citare “Wait On Love”, incastro scintillante di armonie tutte costruite per far brillare le prodezze vocali di The Bolt, sempre protagonista.

“Walk Away”, malinconica ballad a la Journey, alla quale fu preferita come singolo “That’s What Love is All About”.

Il tutto trascinato dalla cover di “(Sittin’ on) The Dock of the Bay “di Otis Redding, magistralmente reinterpretata da The Voice.

Un Bignami di Rock Fm che i natii del nuovo millennio non sarebbero/sono in grado di apprezzare.

Il tempo ci dirà che Michael Bolton, dopo aver rifiutato l’ingresso nei Journey, abbraccerà sonorità maggiormente soul (Soul Provider è del 1989), propriamente pop, per donne alla soglia della menopausa, con ottimi riscontri commerciali, allontanandosi disco dopo disco dal suo passato AOR. Dotato di un registro vocale e un timbro da fare invidia a qualunque cantante, non poteva andare a finire male insomma.

Rispetto la scelta commerciale, meno la sua preoccupazione nel ridare in pasto al pubblico capolavori come “The Hunger”, pietra miliare di una ricerca melodica certosina e antemica, preziosa, dotata di una produzione e di un fascino che il tempo non è stato in grado di arrugginire.

 

 

Bad Moon Rising
Blood

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Bad Moon Rising – Blood – Classico

14 Dicembre 2020 19 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1993
etichetta: Frontiers cofanetto Full Moon Collection 2005
ristampe: Frontiers cofanetto Full Moon Collection 2005

DISCLAIMER doveroso : in questa recensione non sarà presente nessuna traccia di obiettività se non vi troverete d’accordo con le opinioni di chi scrive smettete subito di leggere e amici come prima.

Per me questo disco rientra di diritto nei migliori 50 album hard rock di sempre quindi non riesco a trovargli difetti di sorta e poi voglio proprio vedere che difetti si possano trovare qui…. se non vi piace l’ hard rock ok , ma se state ancora leggendo allora vi dico che questo è uno dei dischi hard rock per antonomasia.
C’è il blues roccioso dagli echi Whitesnake e Led Zeppelin, c’è la chitarra che disegna tutte le atmosfere possibili tra luce e oscurità , c’è l’interpretazione passionale di un’ anima straziata e piena di speranze spesso tradite, c’è insomma il rock nella sua incarnazione primigenia e genuina che fa ribollire il sangue di coloro che hanno vissuto questa musica e non si limitavano ad ascoltarla.

La mia venerazione per questa Band nasce già dal suo embrione primordiale ovvero i Lion che vedevano già Dough Aldrich e Kal Swan autori di un paio di ottimi album passati sottotraccia dalle nostre parti mentre in Giappone fortunatamente ebbero un discreto successo , così come il primo parto dei Bad Moon Rising che praticamente in Europa era introvabile e poi anche il successore di questo Blood ovvero il monumentale Opium For The Masses che magari tratteró in futuro.

Aldrich in quegli anni, trasformava in oro tutto ciò che componeva ed infatti è stato poi ricompensato dalle numerose collaborazioni fino all’approdo agli Whitesnake,  Swan è un ottimo compositore nonché vocalist magistrale dalla voce potente e versatile ed una espressività sorprendente ,una sorta di Coverdale 2.0 da me infinitamente invidiato e vanamente imitato quando mi sono cimentato nelle mie avventure canore.
Aggiungiamo una sezione ritmica collaudata e chirurgica forgiatasi in mille collaborazioni con altrettante band Hericane Alice e Bangalore choir su tutte anche se sembra Mayo e Ramos si siano alternati nella registrazione ad un’altra coppia ritmica assoluta quale Ken Mary e Chuck Wright quindi la sostanza cambia poco. continua

Boulevard
Blvd

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Boulevard – Blvd – Gemma Sepolta

11 Dicembre 2020 7 Commenti Samuele Mannini

genere: Aor
anno: 1988
etichetta: Metal Mind 2010
ristampe: Metal Mind 2010

A volte le storie d’amore più belle nascono così per caso senza ce minimamente te lo aspetti, ed è così che è successo tra me i Boulevard, un cd forato a 3900 lire da Sweet Music per fare numero ed ammortizzare le spese di spedizione. Che tempi magnifici quando con due soldi potevi rischiare un acquisto, e in quello sterminato catalogo devo dire di aver pescato ottime cose ed anche quelle più così così hanno comunque contribuito ad arricchire il mio bagaglio culturale a modico prezzo…. nostalgia canaglia.

i Boulevard ad oggi hanno rilasciato tre dischi in studio l’ultimo e bellissimo Luminescence è stato trattato nella sezione recensioni, il secondo Into The Street è dai più considerato un classico e per tanto verrà trattato nella sezione apposita al più presto, questo primo Blvd. invece è stato secondo me ingiustamente sottovalutato ai suoi tempi e siccome, a mio parere non ha niente da invidiare ai dischi capisaldi del genere, ho deciso di proporne la trattazione nelle gemme sepolte per dare la possibilità a chi eventualmente non lo conoscesse di poterlo finalmente scoprire.

Le parole classe ed atmosfera pervadono questo disco dall’inizio alla fine , in ogni traccia possiamo infatti trovare quella melodia che forse solo i canadesi sanno rielaborare in maniera così scintillante , riuscendo a galleggiare in quel labile confine tra il pop più impegnato ed il rock Usa da classifica riuscendo a miscelarne le qualità in qualcosa di unico e magico, la perfetta sintesi della definizione Aor.

Prendiamo l’ opener Dream On , ovvero la perfetta Aor anthem song melodica e passionale , ma con un ottimo tiro perfetta nel suo genere.  La seguente eterea Far From Over col suo intermezzo di sax è una deliziosa dimostrazione di come camminare sul sottile confine rock/pop,  mentre la seguente Western Skies è più canonica nella sua impostazione tastieristica, segue un’altro gioiellino stilistico Never Give Up canzone danzereccia con altro delizioso contrappunto di sax. In The Twilight è una ballata che cresce di pathos anche grazie al suo arrangiamento simil orchestrale del finale, When The Lights Go Down è una ottima ed incalzante hi tech Aor song in stile Tim Feehan e il piedino batte il ritmo che è una meraviglia. Under The Moonlight è un’allegra canzone di matrice pop che grazie a sapienti arrangiamenti riesce a suonare assolutamente leggiadra e non scontata così come la seguente You And I nella quale sento qualche richiamo al Jeff Cannata meno sperimentale, a seguire il gioiellino Missing Persons con marcati accenti  Yes dovuti anche alla performance vocale di David Forbes che va a sfidare (con ottimi risultati)  Jon Anderson direttamente sul suo territorio, si chiude in bellezza con la ritmata e swingegiante You’re For Me una canzone che fa scuotere il culetto anche dopo averla ascoltata 1500 volte.

A volte mi chiedo come sia possibile 35 e rotti anni dopo cercare di ricreare certe atmosfere tipiche di quegli anni magici, ed infatti a parte casi sporadici spesso si finisce nel grottesco,  la musica è anche evoluzione e certe atmosfere sono semplicemente figlie uniche ed irripetibili di quei tempi e poi ci sono talmente tante cose da scoprire o riscoprire che anche ad ascoltatori compulsivi richiederebbero anni, quindi recupero obbligatorio per chi se lo fosse perso (si trova anche a prezzi ragionevoli ) e occasione di riscoperta per chi ai tempi lo prese un po’ troppo sottogamba.

 

 

Unruly Child
Unruly Child

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Unruly Child – Unruly Child – Classico

07 Dicembre 2020 20 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/Aor
anno: 1992
etichetta:
ristampe:

Non c’è due senza tre…. ed il quarto verrà da se. Se infatti in queste recensioni dedicate al recupero di album fondamentali per il Genere ci siamo già occupati dei Signal e del solista di Mark Free tocca adesso agli Unruly Child con la promessa di scrivere presto anche dei King Kobra in modo da poter calare definitivamente il poker che Free ha regalato a tutti noi appassionati di rock melodico.

Un gruppo nato per fare il botto, purtroppo uscito fuori tempo massimo perché nel 1992 la festa era sostanzialmente già finita e le label facevano uscire tutto ciò che oramai avevano in cantiere con l’unica intenzione di svuotare i magazzini e riassorbire un po’ le spese avendo già provveduto ad investire altrove le loro risorse, benché dunque fosse ormai tardi il 1992 è stato comunque un anno che ha regalato meraviglie, una sorta di ultima raffica di fuochi d’artificio prima del buio.

Il Gruppo era formato oltre che da un Mark Free ancora sfavillante , dal duo Bruce Gowdy e Guy Allison di provenienza World Trade dal batterista Jay Shellen ,  anche lui ha suonato su Euphoria dei World Trade e dal bassista Larry Antonino un session man di lungo corso impegnato anche nella scena jazz, e anche coadiuvato dalla eccelsa produzione( non rifarò l’ennesimo pippone sulla importanza dei produttori) di Beau Hill da vita ad un platter di 12 canzoni che per anni è stato oggetto di culto tra gli appassionati, ecco, penso sia finalmente ora di poterlo definire classico a tutti gli effetti perché presenta al suo interno diverse pietre miliari dell’ Hard/Aor a stelle e strisce.

In questo disco è difficile trovare un filler forse solo Take Me Down Nasty è un po’ più debole, ma diciamo che la collocazione in scaletta non la favorisce proprio in mezzo all’ opener On The Rise  scintillante hard rock con arrangiamenti sicuramente non comuni dove la voce di Mark free si avventa come un falco sulla preda e la seguente Who Cries Now un Aor di potente fattura e con un pathos leggendario. Che faccio vado avanti? To Be Your Everithing è una power ballad che va a strizzare l’occhio ai Giant, e Tunnel Of Love è un mid tempo super catchy , ma assolutamente non banale e basta ascoltare le ritmiche per capirlo e poi Booom! un’altra pietra miliare assoluta When Love Is Gone,  dove Free si trova a meraviglia interpretando questi testi che trattano di storie d’amore sofferte. Il brutto di scrivere di questi dischi è che si rischia di sprecare parole inutili quando ne basterebbe una sola…. Capolavoro, ma ormai finiamo la lista delle canzoni, sia mai che qualcuna sia evaporata dalla memoria e sarebbe un peccato perché Lay Down Your Arms è un bell’ hard rock potente di matrice Winger (altro disco da ripescare….) , e  non crediate di potere sfuggire dal super lento sventola accendini perché Is It Over è li che aspetta per fare lacrimare i nostri cuori melodici,  niente paura però, Wind Me Up rialza subito i giri del motore, mentre Let’s Talk About Love è un lento semiacustico semplice, efficace ed orecchiabile con quegli arrangiamenti di Tangeriana memoria, e si chiude il match per KO con un uno-due micidiale l’ anathemic rock Criminal e la zeppeliniana Long Hair Woman e giù al tappeto…

Dopo questo disco il gruppo si scioglierà e dopo l’operazione che porterà Mark a diventare Marcie uscirà nel 1995 Tormented che idealmente è la prosecuzione di questo disco , nel 1998 invece uscirà Waiting For The Sun ( bellissimo a mio parere) con Kelly Hansen alla voce e poi via via fino alla reunion e con Marcie nuovamente alla voce la storia è arrivata fino ai giorni nostri.

Se non esiste la perfezione , qui siamo talmente  vicini da poterla quasi toccare, un disco segnante da avere assolutamente.

 

Hericane Alice
Tear The House Down

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Hericane Alice – Tear The House Down – Classico

04 Dicembre 2020 4 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1990
etichetta: Wounded Bird 2008 / Bad Reputation 2020
ristampe: Wounded Bird 2008 / Bad Reputation 2020

In una giornata un po’ così…. per tirare un po’ su i giri, poso la puntina sul vinile  e con la copertina in mano i ricordi , ormai trentennali , di quando lo cantavo a squarciagola alla fermata mentre aspettavo l’ autobus per andare a scuola, tornano impetuosi.

Questo per molti è stato un disco di un gruppo usa e getta uscito in un anno dove dopo le magie del 1989 si faceva ciccia , ci sarebbero stati un altro paio di anni prima del buio
dell’hard rock ed i gruppi si bruciavano come le falene su un falò estivo.

Un po’ di storia ; il gruppo nasce in Minnesota avrebbe dovuto chiamarsi Hurricane Alice ma per problemi di similarità con gli Hurricane di Kelly Hansen venne adottato questo nome e,  si narra….. che la prima scelta per le vocals fosse David Reece che poi ironia della sorte si ritroverà la sezione ritmica degli Alice nei Bangalore choir.  In seguito al rifiuto fu provinato e successivamente assunto Bruce Neumann, che adesso è l’unico membro superstite, del membro fondatore nonché chitarrista Danny Gill si sono perse le tracce in ambito music biz e pare invece molto attivo nella didattica musicale , mentre la sezione ritmica composta da Ian Mayo e Jackie Ramos girerà mezzo mondo militando nei sopra citati Bangalore choir nei Bad Moon Rising ed altri che momentaneamente mi sfuggono.

Un disco si diceva passato in sordina e in gran parte sottovalutato , ma che secondo me è una gemma grezza del genere hard / sleaze / hair metal o come cavolo lo vogliamo
definire…. chitarre taglienti, ritmiche potenti, voce acuta a tratti miagolante ( non alla salty dog , ma insomma in questi casi ci stà )  pezzi tirati che live avrebbero tirato giù il palco ed infine un paio di ballatone sofferte e magistralmente interpretate.

Il solco musicale è quello dove si muovono gli Slaughter i Bullet Boys e molti altri in quello specifico filone e se qualcuno noterà similarità tra i modi di cantare , beh mi trova abbastanza concorde. Tracce quali Wild young and Crazy, la glameggiante Bad to love , Tear the house down e Shake shake shout, propongono tutti i classici stilemi del genere senza però peccare di plagio , semplicemente questo genere si suona così e le canzoni sono così , se non vi piace dito medio e passare oltre.
I pezzi lenti sono la romantica e dall’interpretazione commovente Dream girl che cattura con un ritornello semplice, ma efficacissimo, Too late non è da meno guidata com’è da un giro di chitarra magistrale e la conclusiva Walk alone si basa su un giro di basso leggermente funkeggiante per poi esplodere in pathos nel ritornello.

Sì nota che adoro questo disco? Beh magari ascoltato senza pregiudizio lo adorerete anche voi.

Se ….e dico se…. non lo possedeste, la recentissima ristampa della Bad Reputation potrebbe essere una ottima occasione per farlo finalmente vostro.

P.s se vi piacevano all’epoca state lontani dal come back che pare stia per uscire, dai due pezzi ascoltati su YouTube…. sarebbe un peccato intaccare un così bel ricordo.

Thunder
Back Street Symphony

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Thunder – Back Street Symphony – Classico

01 Dicembre 2020 6 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard rock
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

English Do It Better?

Dal 1987 al 1990 c’è stato forse l’ultimo e più grande tentativo di invasione degli Usa da parte dell’ hard and heavy proveniente dalla perfida Albione , gruppi come : Fm , Strangeways, Little Angels , Thunder , Dare e molti altri . Risultato? Respinti con perdite, solo gli Whitesnake del secondo ciclo riuscirono a passare perché oramai erano più americani degli americani stessi . Tutto ciò non dipende certamente dalla qualità delle proposte inglesi , ma semmai dalla atavica puzza sotto il naso della audience di allora che spesso dimenticava che nel campo rock tutto ciò che veniva proposto negli Usa era stato partorito anni prima in Inghilterra…. dal progressive , all’ hard rock fino al metal. Il merito degli americani è stato quello di prendere ciò che veniva da oltreoceano rielaborarlo e proporlo poi su vasta scala, sia ben chiaro questo non vuol certo sminuire il panorama americano , serve solo per dare alla Regina ciò che è della Regina. Gli inglesi lo fanno dunque meglio? Non necessariamente , ma spesso lo fanno prima e con un tocco tutto loro che è inimitabile per gli altri popoli.

Tutta questa pappardella per giustificare il fatto che questo disco sia sicuramente annoverabile tra i classici, ci troviamo di fronte infatti al primo disco di quella che , tra numerosi stop and go, sarà comunque una carriera di tutto rispetto e seppur relegata ad una popolarità principalmente  europea, ha comunque dato alla luce numerosi dischi tra cui il prossimo in uscita a marzo 2021.

Ma il disco com’è ? Bello e dannatamente British , si riconosce a miglia di distanza, sarà per la pronuncia, sarà per il sound , ma anche ad un ascolto distratto si percepisce. Prendiamo l’opener She’s So Fine 20 secondi e siamo già nella City di fronte al Big Ben a battere il piede pensando ai Bad Company, la matrice è la stessa anche per Dirty Love solo accelerata di qualche battuta e con un ritornello super catchy, poi arriva la blues ballad Don’t Wait For Me sofferta , mai melensa e poi cantata con quel vocione un po’ roco e sensuale…..beh 10 e lode. Higher Ground è il classico brano d’impatto che live fa battere le mani ed attizzare il pubblico, Until My Dying Day ha invece una partenza acustica Zeppelin per poi articolarsi in chiave più elettrica in crescendo. La title track è invece un solido RnR che poi però a mio avviso si perde un attimo in se stessa con una struttura un po’ confusionaria, ma niente paura la seguente Love Walked In vi farà tirar fuori l’accendino per aumentare l’atmosfera romantica , ma attenzione non c’è solo sdolcinatezza dopotutto…. sono inglesi. Infatti la seguente Englishman On Holiday è sfacciatamente seventies e parla delle abitudini vacanziere degli hooligans una sorta di lato oscuro della Englishman in New York di Sting…. Girl’s Going Out Of Her Head è un hard rock bello tirato a cui segue l’ennesima versione di Gimme Some Loving resa celebre dai Blues Brothers che è si fatta bene, ma in fin dei conti se ne poteva fare a meno. Si chiude con la bonus track solo per la versione cd intitolata Distant Thunder , traccia ritmata ed easy listening , ma comunque gradevole.

La produzione di Andy Taylor (si…. proprio l’ex Duran Duran) e Mike Fraser è ancora molto attuale e ben curata e il disco sparato a manetta sull’ hi fi anche a distanza di trenta anni fa ancora la sua porca figura, Insomma un disco che non deve assolutamente mancare nella discografia di un vero amante del genere , accattatevillo.

 

World Trade
World Trade

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World Trade – World Trade – Gemma Sepolta

30 Novembre 2020 7 Commenti Samuele Mannini

genere: Prog. Rock
anno: 1989
etichetta:
ristampe:

Questa volta l’invito a scoprire o ri-scoprire ha come obbiettivo un genere di confine al rock melodico che viene abitualmente trattato su queste pagine e che tante volte ha visto tentativi più o meno riusciti di fusione o di sconfinamento reciproco. Essendo di formazione neo prog. diciamo che nel 1985 e cioè a dodici anni mi cantavo allegramente Kayleigh, Lavender e Bitter Suite, ho sempre visto con favore i tentativi di unione dei miei due amori musicali in una sorta di best of both worlds. Intendiamoci subito; qui di Aor c’è pochino, giusto qualche arrangiamento e qualche smussatura di buon gusto che la coppia Gowdy/Allison (che non a caso troveremo negli Unruly Child)  attua ad un sound di preminente matrice Yes con qualche contrappunto di Rush. Oddio con una voce come quella di Billy Sherwood le somiglianze vengono spontanee e mi son sempre chiesto se non ci fosse qualche gene condiviso con Jon Anderson perchè le similitudini sono impressionanti, e se lo deve essere chiesto anche Chris Squire che lo contattò per sostituire proprio Anderson nella sua reincarnazione degli Yes, ma qui si rischia di finire nel racconto della telenovela che ha caratterizzato quella band, quindi torniamo in rotta.

In questa recensione rischierò il plagio perchè ho ancora in mente la descrizione che ne fece Beppe Riva su Metal shock e che mi indusse a mettermi alla ricerca di questo disco e cito a memoria: ” Custodite questo disco con cura e riservatene l’ ascolto ai vostri momenti più riflessivi”, mai consiglio fu più azzeccato , ma d’altra parte il Maestro sbaglia di rado.

continua