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11 Novembre 2021 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1993
etichetta:
ristampe:
02 Novembre 2021 6 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1989
etichetta: Rock Candy 2013
ristampe: Rock Candy 2013
Se mischiare un acido con una base può generare effetti spettacolari, è anche vero che di solito è un effetto di breve durata. Così fu anche per la collaborazione tra John Sykes e David Coverdale che generò un caposaldo dell’hard rock quale 1987 ( recensione QUI ), ma non durò nemmeno fino all’uscita del disco nei negozi, tant’è che gli Whitesnake andarono in tour con una formazione totalmente stravolta rispetto all’ellepì. Sia quel che sia, le cronache gossip dell’epoca sproloquiarono non poco sulle vicissitudini tra Sykes e Coverdale alimentando le voci sui dispetti reciproci tra i due, con le varie prese di posizione per l’uno o per l’altro. Quello che però pare certo, è che entrambi fossero delle discrete “teste di ferro”, con grande feeling artistico, ma zero compatibiltà caratteriale.
La storia ha però dimostrato che Sykes è sicuramente un raffinato compositore e ne darà ampia prova su questo Blue Murder. Fatta la sua gavetta in patria con i Tygers Of Pan Tang, poi con i Thin Lizzy ed infine con gli Whitesnake, riuscirà a condensare queste esperienze, arricchite con la sua classe, sfornando un album granitico, che a mio modesto parere va considerato una pietra angolare di questo genere. In questo progetto viene accompagnato dal virtuoso delle quattro corde Tony Franklin (proveniente dall’esperienza col duo Page/Rodgers nei The Firm), e dall’uomo il cui cognome è sinonimo di drumming, ovvero Carmine Appice. Dopo aver provinato diversi vocalist, tra i quali Ray Gillen (futuro Badlands), la scelta di far ricoprire allo stesso Sykes anche il ruolo di vocalist ci ha fatto apprezzare anche un notevole talento canoro davvero sorprendente.
Il risultato sono le nove storie che compongono l’album, storie noir, quasi oscure a volte struggenti in bilico tra rabbia e malinconia.
Storie dicevo che vanno ad esplorare diversi filoni narrativi. Il filone notturno e della rivolta, con la potente Riot che ci narra della fuga di un uomo accusato di un crimine che fugge attraverso una città in tumulto immersa nella notte per salvare la sua vita . Un rullo di tamburi ci introduce Blue Murder, sempre atmosfera notturna, ai limiti dell’heavy metal, qui si dà la caccia ad un vero criminale che, ferito, lotta per la sua vita. Anche in Billy c’è la notte ed una fuga del protagonista, accompagnata da un cesello di chitarra e basso di caratura superiore, fino a giungere al tragico epilogo, ovvero la morte.
Il secondo filone è quello storico . Valley of the Kings, orientaleggiante anche nella musica, narra della costruzione del monumento funerario del faraone, che costerà enormi sacrifici al suo popolo, la trasposizione anche musicale è perfetta sia per resa che per atmosfera. Altra storia orientaleggiante sia per musica che per trama è Ptolemy, dove si respira un aria mediorientale e che ci racconta la disavventura di un cacciatore di tesori….storie allegre in questo disco?… Nemmeno l’ombra.
Il terzo filone narrativo è quello dei sentimenti e parte con Sex Child, lyrics whitesnakiane su struttura zeppeliniana, praticamente il top della cultura hard rock di matrice british. Jelly Roll, parte acustica, quasi country, ma le atmosfere cambiano progressivamente seguendo la storia di un amore finito a cui il protagonista non si rassegna e di conseguenza la musica diventa più languida, trasformando la spensieratezza iniziale in un triste epilogo…… Geniale. La mega ballad di rito è Out Of Love ed è la naturale alter ego di Is This Love degli Whitesnake, nei quasi settr minuti di lunghezza si rappresenta infatti il lato triste dell’amore; inutile negare le somiglianze musicali tra le due, perché la penna di Sykes è ben presente su entrambe e quindi mi sembra cosa più che naturale. Ultima song del lotto è Black Hearted Woman, inutile tradurre il titolo è una storia che non finisce bene nemmeno in questo caso, mentre le atmosfere sono dichiaratamente quelle di Children Of The Night….beh ovvio visto che la mano è la stessa.
Insomma, qui si parla di un disco che non è semplicemente una rivalsa contro la cacciata di Sykes dagli Whitesnake, ma un completamento ed un passo avanti nella carriera di un virtuoso della chitarra , un’ottimo compositore nonché singer molto dotato. Il disco naturalmente, visti gli interpreti, è suonato divinamente e pur non essendo tra le migliori produzioni di Bob Rock la resa è comunque alta ed assolutamente imparagonabile ai miseri standard odierni. Unica pecca, una copertina in stile piratesco, veramente fuorviante rispetto alla musica proposta, oltre che di una pacchianeria inspiegabile. Inspiegabile anche il fatto che la Geffen smise ad un tratto di promuovere l’album alla soglia del disco d’oro, relegando i Blue Murder ad un ruolo di secondo piano nel rooster dell’etichetta e compromettendo in gran parte l’uscita del secondo disco che fu infatti un flop, causando la fine prematura del progetto. Uno dei tanti crimini artistici delle major dell’epoca.
22 Ottobre 2021 6 Commenti Samuele Mannini
genere: Aor
anno: 1992
etichetta: Comand Record (2007)
ristampe: Comand Record (2007)
In tutte le questioni che riguardano la magia c’è sempre una parola chiave. La famosa parola magica che attiva il processo trasformatore dell’ordinario in straordinario, dall’ Abracadabra, all’Apriti Sesàmo!…. Nella musica, che poi è senza dubbio una forma di magia, questa parola magica è Canada, terra sconfinata e ancestrale dove ogni genere musicale trova la sua sublimazione e se parliamo di AoR e rock melodico, l’eccellenza totale. Può persino trasformare un tedesco natio della ex DDR, di nome Lutz Salzwedel in Dan Lucas e sfornare un disco che è una vera gemma assoluta.
L’occasione per recuperare questo disco è venuta dalla recente uscita del nuovo lavoro di Dan Lucas ( Recensione QUI ). Devo ammettere che fin da quando ebbi occasione di leggere su Flash nel lontano 1992 la recensione di Canada , mi misi disperatamente alla ricerca del CD, ma senza riuscire a trovarlo in nessun luogo. Questo nel tempo sedimentò le mie convinzioni Che Dan Lucas fosse un semisconosciuto Canadese che incideva su una etichetta (Marlboro Music) destinata soltanto alla distribuzione locale e chiusi li la faccenda. Numerosi anni dopo grazie a Discogs ebbi modo di mettere le mani su una ristampa e scoprire anche molte verità su questo Canada. In primo luogo la magia era venuta talmente bene che in molti ignoravano la vera nazionalità del buon Dan. Secondo, la Marlboro Music in realtà era una etichetta tedesca semi illegale che sfruttava il marchio delle note sigarette senza avere minimamente licenza per farlo, temo che questo fatto ne abbia ostacolato non poco la diffusione all’epoca. Si, perché questo disco non ha nulla di europeo, è canadese fino al midollo, si respira la magia dell’incontaminato nord america dalla prima all’ultima nota e credetemi, per un’amante del rock melodico è un vero e proprio bengodi totale.
Se come si dice, il buondì si vede dal mattino, quale migliore inizio di Someone’s Girl? Melodica con irresistibile refrain e atmosfera vagamente Foreigner. Wild Wild Wild è un rock che ti fa battere il piede con la sua semplicità e le tastiere hi tech. L’apoteosi arriva con Canadian Dream,probabilmente il brano più famoso di Lucas e qui c’è veramente la summa dell’Aor, echi boltoniani si fondono con un ritornello pieno di pathos dove la voce di Dan va a toccare vette da brividi, per chi come me ha avuto la fortuna di visitare quel paese, questa canzone è un vero e proprio viaggio. Con Hold On Me si tira un po’ il fiato grazie ad un mid tempo di ispirazione John Waite periodo No Brakes. Over the edge è anthemica e ritmata e contrappunta la rilassatezza della seguente Hide In The Night. Alziamo i giri con The Fire, energetica e rinfrescante, che sarebbe perfetta per una colonna sonora anni 80. Into The Night è blueseggiante e trascinante, mentre la lenta e westcoast I’m Sailing è semplicemente deliziosa. Con Coming Home si tornano a sentire le influenze Foreigner. Poi…… e poi c’è il pezzo che ti spiazza alla grande, nove minuti e mezzo di una suite con partiture progressive/pomp che ti aspetteresti da un Mangold o un Giuffria, ma come detto l’incantesimo ha funzionato alla grande e The Movie ne è la prova, un bignami che racchiude e condensa tutta la magia del disco.
Ecco, Canada potrebbe finire anche qui e già dovremmo gridare al miracolo, ma Dan ha fatto le cose veramente in grande e ci regala una cover di Hot Stuff che avrebbe fatto ballare la stessa Donna Summer, a cui segue Heart Of America (usata pure nei commercials di McDonalds), ed una versione alternativa di Canadian Dream.
Per farvi sbrodolare ancora di più, nella ristampa sono presenti altre cinque! bonus track con partecipanti i Loverboy e Robin Beck , mio Dio che brividi su If You Need Me Tonight quando Dan e Robin duettano…..
Questo non è un consiglio per gli acquisti; è un imperativo categorico, non opponete resistenza alla magia e lasciatevi guidare in questo viaggio irripetibile.
22 Settembre 2021 7 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/Aor
anno: 1988
etichetta: Axe Killers 2000, Music On CD 2013
ristampe: Axe Killers 2000, Music On CD 2013
Se studiassimo l’epopea musicale rock come un libro di storia, gli House Of Lords sarebbero sicuramente un capitolo da approfondire con la massima attenzione, perché rappresentano la sublimazione del percorso artistico di un grande tastierista e la perfetta fusione tra la maestosità del pomp rock keyboard oriented e l’hard rock scintillante di matrice più marcatamente chitarristica che spopolava negli Usa di fine anni 80.
La genesi del gruppo arriva come evoluzione dei Giuffria che con l’album omonimo del 1984 e il successivo Silk + Steel nel 1986 stavano traghettando il pomp rock di marca Angel nei tempi moderni, la scintilla definitiva fu fornita da Gene Simmons che aveva appena fondato la sua personale etichetta discografica e cercava un gruppo a cui fare da pigmalione per lanciarlo in orbita verso il successo. Prima mossa il cambio del moniker, House Of Lords infatti garantiva una magniloquenza ed una presa senza dubbio superiore e Simmons ha sempre avuto l’occhio lungo sul marketing, inoltre furono messi a disposizione della band una serie di songwriter di qualità e venne trovato un equilibrio tra la ridondanza tastieristica di Giuffria e l’impeto da guitar hero del finora sotto utilizzato Lenny Cordola. La sezione ritmica venne affidata a Chuck Wright che già aveva collaborato con Giuffria, mentre alle pelli venne arruolato Ken Mary, una vera e propria garanzia di tecnica e performance. Ultimo colpo di teatro di Gene la rimozione per chissà quali motivi (gli annali hard & heavy di quei tempi erano più ricchi di gossip di novella 3000) di David Glen Eisely a favore dell’ emergente James Christian, tra l’altro dotato di timbrica estremamente simile al predecessore, ma con una attitudine più al gorgheggio di matrice Plant/Coverdale. Affidata la produzione ad Andy Johns i Giuffria 3.0 erano a questo punto pronti sulla rampa di lancio.
Ammirato il logo regale incastonato in pregiato marmo scuro della copertina ed appoggiato il disco (nel mio caso specifico) sul piatto, ecco che parte la magia di Pleasure Palace, intro pomp old school ed hard rock rovente arricchito da cori da urlo. Si prosegue con l’hard rock melodico di I Wanna Be Loved, catchy e anthemica per arrivare ad uno degli episodi più alti del disco ovvero Edge Of Your Life, sofferta e melodica, ma dotata di una classe quasi altezzosa. Ricordate il duetto voce chitarra di Made In Japan dei Deep Purple? Ecco solo dei ‘pazzi’ potevano pensare di mettere una cosa del genere in un disco e naturalmente gli House Of Lords lo hanno fatto in Lookin’ For Strange, pezzo che sembra una jam session di geni. Chiude il primo lotto la splendida ballad Love Don’t Lie, scritta e già edita da Stan Bush e se non vi si stringe il cuoricino qui, potrei ricorrere ad una metafora di Buffoniana memoria. Slip Of The Tongue è il classico arena rock scintillante, mentre Hearts Of The World è epica e affilata. Più ancorata alle radici pomp è Under Blue Skies, con importanti strutture tastieristiche ed un ritornello da urlare a squarciagola coi pugni levati al cielo. Gli ultimi due colpi in canna del disco sono Call My Name, hard rock melodico perfetto per le esibizioni live e la ballad Jelous Heart di pregevole fattura, se per caso conservate dei dubbi sull’eccelso buon gusto di questi musicisti, ascoltate l’arpeggio iniziale di Cordola e godetevi lo spettacolo.
Il disco pur se scarsamente supportato dall’attività live, ebbe un discreto successo e fu seguito da un’altro pezzo da novanta come Sahara e successivamente da Demons Down che formano un trittico eccezionale che ben poche band possono vantare. Il percorso successivo all’uscita di Giuffria dalla band continua fino ai giorni nostri con alti e bassi, ma mi sento di poter dire che le vette dei primi tre album restano a distanze siderali.
In estrema sintesi un caposaldo del rock da possedere assolutamente.
19 Settembre 2021 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard rock
anno: 1989
etichetta: Bad Reputation 2010
ristampe: Bad Reputation 2010
Sono passati molti anni da quando Richard Black, leader degli Shark Island, era il Re della Strip di L.A. ed a seguito della stampa del loro primo album autoprodotto S’cool Bus facevano live ogni sera. Per prima cosa scordatevi di recuperare il debutto perché esiste solo su vinile impot dagli Usa e costa un rene, secondo rimarrete forse stupiti che una band rimasta tutto sommato nell’underground avesse un seguito di un certo tipo. Ai loro concerti infatti si narra che fossero spesso presenti membri di altri act ben più celebri fra i quali i Ratt, Skid Row ed udite udite un giovane Axl Rose che, sempre secondo la leggenda, pare abbia ispirato molte delle proprie posture live proprio pescando dal buon Richard. Insomma Gli Shark Island ai tempi d’oro avevano un nome di un certo pregio nella scena losangelina che si apprestava a sferrare i suoi colpi migliori proprio in quegli anni.
Naturalmente nella storia della band non mancano di certo le varie beghe contrattuali con le major dei tempi, in primis la A&M, che voleva mettere sotto contratto Richard Black come solista, dopo varie vicissitudini si arriva quindi alla Epic, che consente a questo album di vedere la luce, salvo poi non curarsi affatto della promozione , cosa molto di moda a quei tempi (chiediamoci poi come mai pur con fior fiori di band in giro, l’hard rock sia andato incontro al declino).
Comunque sia, questo Law Of The Order, è un lavoro che si colloca perfettamente nella sua epoca, costantemente in bilico tra l’hard rock “da classifica” ed il class metal più muscolare. La partecipazione al songwriting di Jack Ponti conferisce la classica attitudine catchy al disco, anche se a mio giudizio è forse meno condizionante rispetto ad altre collaborazioni, vedi ad esempio i Baton Rouge. Probabilmente è proprio il timbro vocale del buon Black , ruvido e graffiante, ad indurire un po’ il sound e a rendere meno smielati anche i pezzi più soft; fatto sta che il disco avrebbe le caratteristiche per piacere un po’ a tutti, ma in un’epoca di schieramenti ideologici ( vi ricordate le mazzate che volavano tra thrashers e glamsters ?), forse non fu un vantaggio commerciale.
Tra i pezzi più riusciti vorrei citare la potenziale hit ( ed unico video passato anche su videomusic) Paris Calling col suo irresistibile refrain, la scatenata Shake For Me e l’azzeccato mid tempo Somebody’s Falling che vede come co autore Dave Sabo. Per le orecchie abituate a sonorità più robuste consiglio la quasi Heavy Passion To Ashes. I più romantici troveranno pane per i loro denti nella power ballad Why Should I Believe, intensa e passionale. Interessante , almeno a mio parere, il rifacimento in chiave hard del pezzo dei Fleetwood Mac The Chain.
Come ampiamente anticipato il disco non ebbe successo e dopo l’esperienza nel raffazzonato progetto Contraband il gruppo si sciolse per poi ritornare con due album rispettivamente nel 2006 e 2019 con coordinate sonore abbastanza diverse, ma a mio gusto, comunque da ascoltare. Per i nostalgici della golden era invece non resta che accaparrarsi questa chicca e crogiolarsi cantando a squarciagola l’evertiaiaiaime di Paris Calling.
28 Agosto 2021 12 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard rock
anno: 1986
etichetta:
ristampe:
In un periodo dove molte band viravano o sul lato melodico o sul lato più glamour, come ad esempio nella scena di L.A., i Tesla, che provengono da Sacramento, puntano tutto sulla riscoperta delle radici classiche dell’hard rock, privilegiando le atmosfere blues ed in alcuni casi southern, fondendole con tagli chitarristici al limite del metal, ma anteponendo a tutto la musica nella sua essenza.
Nati come City Kidd, con il nucleo originale formato da Frank Hannon e Brian Wheat ai quali presto si unì Tommy Skeoch. Quando furono provinati l’ex camionista Jeff Keith, che si rivelò essere un eccellente cantante ed il batterista Troy Luccketta (ex Eric Martin) la formazione raggiunse la sua forma definitiva. Aiutati dallo storico talent scout e producer Tom Zutaut riescono ad ottenere un contratto con la Geffen Records. Su suggerimento del management mutarono il nome in Tesla dando vita anche al concept sullo scienziato Jugoslavo che proseguirà anche nei dischi seguenti.
Mi sono sempre trovato in estrema difficoltà a scegliere il migliore disco della loro discografia perché a mio avviso i primi tre lavori della band sono a loro modo tre gioielli dell’hard rock. In particolar modo i primi due e cioè, questo Mechanical Resonance e il successivo The Great Radio Controversy, nella mia mente si disputano continuamente la palma del più bello, pur con le loro sottili differenze. Quello che è certo, è che il songwriting della band è sempre stato ben sopra la media rispetto alle rock band coeve e pur se affinato negli anni a venire, si è sempre posto su ottimi livelli. Altra cosa notevole è la freschezza che questo esordio portò sulla scena Usa dell’epoca, tale da essere considerato dalla critica uno dei migliori debut del periodo.
La sezione ritmica apre alla grande il disco e con Ez Come Ez Go si capisce quale sia la strada tracciata, ritmi serrati chitarre scintillanti e la voce graffiante di JK ad inacidire il tutto. Segue Comin’ Atcha Live intro chitarristico omaggio a Van Halen e via dritti con un drumming serrato ai limiti del Metal, unica cosa che stempera i toni sono i chorus che si mantengono catchy ed azzeccati. Seguono Gettin’ Better che inganna con la sua partenza lenta sulla quale irrompe un hard blues elettrico e scoppiettante e 2 Late 4 Love stoppata e sincopata , un dettaglio che mostra tutta la ricercatezza delle composizioni dei Tesla. It’s only rock and roll gridano Hannon e soci con Rock Me To The Top, serrata ma orecchiabile con le stimmate da pezzo live. Brano numero sei ed altro abboccamento di lento, We’re No Good Togheter a discapito di un rallentamento delle ritmiche, punta sulla intensità dell’interpretazione vocale di Jeff Keith e sul finale accelera impetuosa, ricordate gli Aerosmith più blues degli esordi? Beh la scuola è quella. Modern Day Cowboy è il brano più commerciale del lotto, echi southern elettrici e dal taglio moderno, orecchiabile ,ma non banale, il singolo perfetto. Mi ricordo che ai tempi quando partirono le note di pianoforte di Changes , tra me e me pensai, evviva ecco la ballad, ma come poi ebbi a scoprire i Tesla ballad vere e proprie non ne hanno mai scritte, ed infatti non lo è nemmeno questa. Changes è probabilmente il brano più bello del disco ed uno dei migliori della loro discografia, intenso, profondo e riflessivo senza nulla concedere ai cliché del lentone hard rock. Little Suzi è il secondo singolo estratto ed è in realtà una cover dei Ph.D completamente rivisitata e arricchita di un intro di fattura country, uno di quei casi dove la cover disintegra l’originale. Love Me è a mio avviso il pezzo più debole del lotto, un mid tempo leggero e scontatino, anche se comunque molto orecchiabile. Molto più interessanti sono invece le sperimentazioni ricercate in Cover Queen e l’onirica Before My Eyes che chiude questo maserpiece con un’altra dimostrazione della raffinatezza compositiva dei Tesla.
Termina dunque qui questo primo viaggio dei Tesla verso le radici della musica nella sua essenza, poche concessioni alla commercialità e tanta sostanza che saranno portate avanti anche in The Great Radio Controversy e Psychotic Supper , che restano a tutt’oggi pietre miliari dell’hard rock, da avere obbligatoriamente.
19 Agosto 2021 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/Aor
anno: 1991
etichetta: ristampa con copertina alternativa per USA e Giappone Savage Rec 1992//1993 , remaster AorHeaven 2011
ristampe: ristampa con copertina alternativa per USA e Giappone Savage Rec 1992//1993 , remaster AorHeaven 2011
l’Australia è una di quelle terre parsimoniose in fatto di numeri, ma di sicuro quello che arriva da laggiù raramente è di scarsa fattura, come accade anche nella scena Canadese si riesce a spaziare in ogni ambito del rock duro ed affini con qualità e buongusto.
Questi Roxus sono un eccellente esempio di questa qualità. Uscito nel 1991, quindi oramai nel periodo crepuscolare del genere , non ebbe la benché minima possibilità di fare successo su scala globale, restando confinato alla scena locale, ma nonostante ciò, questo Nightstreet, rimane a tutt’oggi un vero gioiellino del cosiddetto Hair Metal (definizione per quanto mi riguarda abbastanza odiosa). Nati dalle ceneri dei De-Arrow, nei quali militavano il chitarrista Dragan Stanic ed in una delle ultime formazioni anche il talentuoso Singer Juno Roxas, i nostri aussie ci propongono un hard rock keyboard oriented di assoluto spessore, molto Danger Danger tanto per fare un nome illustre, con brani dotati di ritornelli catchy e melodie assassine che ti prendono al primo ascolto.
Rock And Roll Nights apre le danze in perfetto Danger Danger style, intro tastieroso, chitarra roboante, ritornello catchy e voce maestosa, cosa chiedere di più? My way è un mid tempo orecchiabilissimo che incarna tutti gli stilemi del genere, così come Bad Boys ruffiana e caciarona come solo a quei tempi si faceva. Midnight Love parte invece soffusa e notturna e la voce di Roxas impera incontrastata. Where Are You Now è il primo lentone tutto zucchero che in automatico ti fa alzare l’accendino in aria anche se sei da solo come un bischero. Energia e RnR nei tre minuti della title track prima di ripiombare con This Time nel lentone che negli Usa avrebbe fatto strappare molte mutandine alle teenager del tempo. Segue a mio avviso il pezzo più bello del disco, ovvero First Break Of The Heart, un mid tempo ritmato e con un giro di chitarra veramente azzeccato, per non parlare dell’ennesimo ritornello che si stampa in mente in un secondo. Stand Back è invece un pezzo di matrice più Pop, ammantato però di molta energia ed ha il gran pregio di coinvolgere immediatamente, si chiude il disco con la pianistica ballad Jimi G, bella e malinconica.
Il disco, come dicevo , ha ottenuto un certo successo in Australia ed è stato ristampato e distribuito dalla Savage records, con una diversa copertina, in Nord America e in Giappone ed il gruppo ha fatto da spalla a tutte le grandi band che hanno fatto tour in Australia. Avevano anche già registrato quattro nuovi pezzi con la collaborazione di Jeff Paris, ma era ormai il 1993 e il mood era irrimediabilmente cambiato e non se ne fece di nulla, tanto che il gruppo si sciolse.
Se siete dunque nostalgici di queste sonorità, mentre vi rilassate sotto l’ombrellone….. mettetevi in caccia di questa gemma dei tempi che furono, ne rimarrete estasiati.
14 Luglio 2021 19 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard rock/ Aor
anno: 1989
etichetta: Bad reputation 2005, Rock Candy 2012
ristampe: Bad reputation 2005, Rock Candy 2012
Dare la definizione di capolavoro è tecnicamente molto semplice, un opera che nel suo genere non presenta alcun difetto. Possiamo quindi classificare questo secondo disco degli Fm in questa categoria. D’altra parte, in questo disco uscito a tre anni dal validissimo esordio Indesrceet, nulla è stato lasciato al caso e fu anche l’ultimo tentativo di una certa portata fatto dalla epic per far sbarcare l’Fm rock/Aor made in England al di là dell’oceano. Una produzione scintillante, curata da Neil Kernon, che oggi a 35 anni di distanza fa invidia, la presenza di songwriter tra i quali quali le sorelle Randall e Desmond Child, uniti alla naturale capacità del gruppo di sfornare arrangiamenti sopraffini e melodie sempre accattivanti, hanno dato vita sicuramente ad uno dei migliori album che la terra di albione abbia mai sfornato in questo genere.
Come detto in apertura qui siamo dinanzi ad un opera che non ha assolutamente cali dall’inizio alla fine e le intenzioni sono ben chiare fino dall’ opener e title track Tough It Out, che dopo un’intro di tastiera tipicamente ottantiano, si dipana meravigliosamente anthemica e ci ricorda ancora che quanto fatte bene, le cose semplici sono sempre efficacissime. La finissima penna di Mr Child regala il primo hit single (almeno in Uk), vale a dire Bad Luck, un crescendo guidato dalle martellate sulle pelli di Pete Jupp , che ci traghetta fino al ritornello super catchy , ma mai banale. Altro giro altra bomba atomica, ovvero Someday, una delle AoR song per antonomasia, a distanza di decenni si discute ancora su quale sia la versione più riuscita se questa o quella fatta da Mark Free nel suo album solista, questo dibattito già dovrebbe fare capire a che livelli stratosferici ci stiamo muovendo. Everytime I Think Of You è quello che più assomiglia ad una ballad , ma il piglio deciso del grande Steve Overland e l’incalzare della sezione ritmica danno quella energia e grinta che dimostrano che il rock melodico non è solo roba per mollaccioni romantici. Le capacità di arrangiamento emergono con The Dream That Died un brano fatto apposta per l’airplay radiofonico così come Can You Hear Me Calling, con i suoi coretti super accattivanti. Cito anche il mid tempo Does It Feel Like Love, impreziosito dai deliziosi tessuti di tastiere , una canzone da canticchiare al primo ascolto.
Insomma un album perfetto per avere successo , ma che per la celeberrima puzza sotto il naso degli yankee, rimase un fenomeno confinato ad una dimensione soltanto europea , costringendo il gruppo a cambiare etichetta ed a virare leggermente su sonorità più British oriented per mantenere appeal sullo zoccolo duro dei fan di casa.
Quest’anno la nostrana Frontiers ,che da anni è l’etichetta del gruppo, ha proposto una versione live di questo disco che anche a distanza di molti anni mantiene intatta la sua magia e di cui se volete, potete leggere la recensione seguendo questo LINK.
Nota conclusiva sulle due ristampe; è assolutamente vero che forniscono una pletora di bonus track, ma se volete ascoltare un mio consiglio, procuratevi la versione originale , nel mercato dell’usato si trova a cifre onestissime in qualunque formato, perché vi dico che il mio vinile super navigato a trenta e rotti anni di distanza fornisce una qualità sonora di gran lunga superiore e sopratutto non vanifica la scintillante produzione a scapito di un dannoso incremento dei volumi. Fate come vi pare quindi, le opzioni non mancano di certo, ma è un disco da possedere a tutti i costi.
21 Maggio 2021 8 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/Aor
anno: 1991
etichetta: Renaissance Records 2008
ristampe: Renaissance Records 2008
Gli Shooting Star sono un gruppo che ha sempre viaggiato sul bordo tra underground e notorietà, con una cerchia di fans che ha permesso al gruppo di rimanere attivo e produrre ad oggi nove lp, senza però riuscire mai a raggiungere la fama a tutto tondo. La storia di questo gruppo è indissolubilmente legata al suo membro fondatore nonché principale compositore Van McLain prematuramente scomparso nel 2018 all’età di 62 anni. Il debutto discografico è datato 1980 e colloca le sue sonorità in un melodic rock vagamente pomp e con i suoi successori andrà a dare forma a quelle sonorità Aor made in Usa che a noi tanto piacciono, toccando i suoi vertici nel 1985 con Silent Scream e con questo It’s Not Over nel 1991. Come in tutte le discografie di un certo pregio, ci sarà sempre chi ama di più un disco rispetto all’altro, ma ho sentito di parlare di It’s Not Over perchè, oltre ad una maggiore affinità per il suo sound, contiene almeno tre potenziali hit che negli anni immediatamente precedenti al 91, in pieno boom commerciale del genere, avrebbero potuto elevare questo disco ad un vero e proprio caposaldo del melodic rock.
In questo lavoro si vanno ad esplorare sonorità che si collocano molto vicino ai Giant e a tratti ai Damn Yankees , con tutti i crismi del genere , dalle chitarre robuste , agli inserti tastieristici e alle spettacolari armonizzazioni vocali, merito proprio del buon McLain e dell’ottimo singer Keith Mitchell.
Si parte con la title track che serve a scaldare i motori, grazie al suo incedere chitarristico e la sua semplice, ma efficace struttura. Segue la catchy e ritmata Believe In Me, che si fa subito strada nella memoria. Terza canzone e primo episodio da fuoriclasse la ballad We Can’t Wait Forever ; a quei tempi appena 18 enne stavo scoprendo il potere magico delle ballads per fare colpo sulle pischellotte dell’ epoca ed il buon Gianni (Rip) della Galleria del Disco di Firenze ,che aveva perfettamente capito l’andazzo, mi aspettava col CD già nel lettore e la traccia ‘giusta’ già selezionata, grazie mille amico mio , ovunque tu sia, mi hai fatto scoprire tanta grande musica! Chiusa parentesi, proseguiamo la disamina con il Rock’n’roll ammiccante di Rebel With A Cause e la seguente Dancing On The Edge, dove nell’intro si ripescano un po’ le atmosfere tastieristiche dei loro inizi, fino a sfociare in un hard di gran classe. Poi un uno due da KO, If You Got Love mid tempo suadente con tutti i crismi dell’hit single, seguito dalla power ballad Blame It On The Night, che a parere di chi scrive è una delle top song del suo genere. Hard rock elettrico perfetto per il live è Get Excited, mentre più immediata e con atmosfere Damn Yankees è Cold Blooded. Chiude il disco un’altra perla di intimismo compositivo ovvero Compassion e se non vi piace questa canzone, non so proprio cosa possiate avere al posto del cuore (cit.).
Insomma un disco che nel marasma di quegli anni è passato inosservato, ma che contiene tutto ciò che può fare felice un amante della melodia a tutto tondo e che vi consiglio caldamente di recuperare insieme ad altri della discografia degli Shooting Star.
14 Maggio 2021 4 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/ Blues
anno: 1991
etichetta: Wounded Bird 2008
ristampe: Wounded Bird 2008
I Tangier sono stati un gruppo della scena di Philadephia che negli anni 80 ha sfornato gruppi in quantità certamente minore ad altre scene , ma sicuramente di qualità assoluta Cinderella , Britny Fox su tutti. Autori di due dischi e “mezzo”, il primo ed autointitolato è tecnicamente un demo in versione deluxe fatto uscire dal loro produttore in musicassetta con distribuzione semiclandestina e successivamente, sull’onda della notorietà ottenuta dal gruppo, stampato anche in vinile e cd, ma la diatriba sul fatto che sia no una uscita ufficiale resta comunque aperta. Tralasciando comunque questo disco che seppur musicalmente gradevole mostra solo una impronta estremamente embrionale della band, il vero esordio può essere considerato Four Winds del 1989 seguito dopo due anni da questo Stranded. Qui si apre sempre sempre una discussione su quale sia il migliore , con chi sostiene a spada tratta Four Winds e le sue atmosfere più grezze e “polverose”e chi ostinatamente difende Stranded contrapponendo la maggiore pulizia sonora e la maggiore attitudine catchy. Personalmente la scelta è sempre stata piuttosto dura, ma dovendone scegliere uno per questa rubrica ho preferito optare di un soffio per questo Stranded in virtù di un paio di canzoni di caratura veramente superiore ed una voce a mio avviso più completa e convincente, ma sono dettagli e preferenze personali che nulla tolgono al validissimo Four Winds.
Analizzata dunque la parte storica ed inquadrato il contesto, andiamo a sviscerare le caratteristiche di questo album. La matrice come per il predecessore è ancora assolutamente blues, ma viene mitigata anche grazie all’uso delle tastiere, facendo virare il sound verso un’ hard rock più patinato e “aerosmithiano” perdendo le sfumature più southern che davano a Four Winds quel sapore vagamente nostalgico e retrò. Si parte a manetta col bluesettone Cinderella style di Down The Line che riesce a muoversi con sapiente equilibrio tra grezzo e pulito e dove LaCompte marca subito le differenze col suo predecessore. Secondo pezzo e potenziale hit, ovvero Caution To The Wind sexy e ruffiana con tanto di interpretazione vocale Coverdaliana e che dire…..si sente la penna di Jim Peterik?…Direi proprio di si. Hard blues e ritornello accattivante per You’re Not The Loving Kind che si avvale del songwriting di Eric Brittingham. Poi come per marcare ulteriormente le distanze dal predecessore arriva la ballad Since You Been Gone che pur rispettando tutti i canoni classici del genere è comunque un touch of class di un certo pregio. Takes Just A Little Time è di matrice più blues ed è uno degli episodi forse più affine a Four Winds, seguono più o meno sullo stesso canovaccio, soltanto un po’ più sostenute e R’n’R, Excited e Back In The Limelight. La title track Stranded, che fu anche singolo, è una ballad semiacustica di pregevole fattura che senza eccessive zuccherosità esplora il lato più intimista del songwriting. Si chiude con l’ ammiccante It’s Hard con i suoi arrangiamenti old style e con l’evidentissimo omaggio a Ragdoll degli Aerosmith nella finale If Ya Can’t Find Love.
Insomma gente, questo è l’ennesimo gioiellino partorito in quegli anni frenetici e meravigliosi per la nostra musica, da recuperare dall’oblio per dargli la giusta luce. A proposito, visto che ci siamo prendete anche Four Winds, così vissero tutti felici contenti e con le orecchie soddisfatte.