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Classici

Bad Company
Here Comes Trouble

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Bad Company – Here Comes Trouble – Classico

25 Giugno 2014 10 Commenti Matteo Alidori

genere: Melodic Rock / AOR
anno: 1992
etichetta:
ristampe:

I Bad Company, gruppo inglese di hard rock con varie influenze nel loro percorso sonoro. Capitanati da un certo Paul Rodgers in un primo periodo di carriera (fondatore assieme al batterista Simon Kirke nel lontano 1974 dalle ceneri dei FREE) e poi da Brian Howe.
Ad oggi il gruppo inglese in questione ci ha regalato la bellezza di diciotto album (alcuni dei quali menzionati fra i più celebri nel panorama rock).
Dal grande esordio , ai celebri DESOLATION ANGELS, STRAIGHT SHOOTER fino ai più recenti DANGEROUS AGE, HOLY WATER e HERE COMES TROUBLE.
Ho deciso di soffermarmi su quest’ultimo in quanto lo ritengo più vicino alle sonorità AOR.
E’ il 1992, anno che sancisce (ahimè) l’ascesa del grunge from seattle e la fine di molte bands del nostro panorama. In questo anno esce HERE COMES TROUBLE che, segue l’ottimo HOLY WATER. Per la terza volta consecutiva prodotto da un certo Terry Thomas (GIANT e FOREIGNER) .

Il disco in questione ci regala 52 minuti e 44 secondi di ottima musica, destinato a tutti quei rockers dal cuore tenero. Spiccano le qualità vocali di Howe gli ottimi arrangiamenti e il lavoro del guitarman Mick Ralphs, sempre prodigo in ogni sua esibizione. Così dopo una piacevole apertura con HOW ABOUT THAT ci si immerge in una travolgente STRANGER THAN FICTION dal ritornello possente ed immediato che farà sorridere i più scettici di fronte al nuovo sound dei BC. Ottimo assolo di Ralphs nella ballad WHAT ABOUT YOUche assieme a THIS COULD BE THE ONE e alla conclusiva MY ONLY ONE sancisce il momento più sdolcinato del platter.
Altro buon motivo per acquistare questo album è la traccia numero 8; ovvero LITTLE ANGEL. Brano con tempi roccheggianti, cadenzato dall’ottima timbrica di Howe che va sempre più in crescendo per poi finire in un delizioso ritornello.
Segue una ballad dal gran gusto HOLD ON TO MY HEART, partenza in sordina ed esplosione in un accattivante chorus.

IN CONCLUSIONE

In definitiva, se siete amanti del rock e volete conoscere meglio i BAD COMPANY del secondo periodo, non può mancarvi questo disco.

 

 

China Sky
China Sky

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China Sky – China Sky – Classico

10 Aprile 2014 19 Commenti Elena Aurë

genere: Aor
anno: 1988
etichetta:
ristampe:

E’ uno di quei dischi senza tempo, una di quelle opere che coinvolge ed emoziona sin dai primissimi secondi d’ascolto, e che si presenta come il perfetto manifesto melodico per gli appassionati del genere: l’album di cui stiamo parlando è China Sky, progetto discografico di Bobby Ingram (già leader della southern rock band di culto Molly Hatchet), rilasciato sul mercato nel 1988 sotto l’etichetta discografica americana Parc, e destinato negli anni successivi ad innalzarsi (a discapito del trasversale stile musicale della band madre di Ingram) a vera e propria gemma AOR d’inestimabile valore.

La voce calda e leggermente ruvida di Ron Perry, singer dalle notevoli potenzialità interpretative, si rivela perfetta per oliare il motore della travolgente opener “Turn On The Night“, song dal classico incedere figlio del sound AOR degli eighties, ottimamente seguita a ruota dall’antemico mid-tempo di “The Glory“, perfetta per aprire la strada a quella che può essere ritenuto uno dei veri e propri hit assoluti dell’album: la meravigliosa “Some Kind Of Miracles“, manifesto AOR per eccellenza, caratterizzata da un refrain da brivido unito a maestose backing vocals d’impatto.
La straordinaria magniloquenza del cd prosegue con la travolgente “Winner Takes It All“, autentica perla di rock adulto dal piglio irresistibile, con un chorus immediato infarcito di chitarre eleganti e tastiere avvolgenti, accompagnata da un’autentica selezione di brani di alta scuola melodica come la dolce “All The Time“, la energica “Only The Young“, ed arrivando all’americanissima “Reckless Days“: tutte composizioni ottimamente prodotte, ipermelodiche, scintillanti, con riffs d’alta classe non esuli da richiami cromati (enfatizzati dal meraviglioso lavoro di produzione di Mr. Bob Marlette), perfetti per aprire la strada all’esplosione di ritornelli catchy ma mai banali.
Lost In Your Love” riporta il disco in atmosfere più soft ed intimiste, quasi ad innalzarsi a perfetta colonna sonora per una romantica serata a lume di candela, mentre il gran finale è affidato all’incantevole ballad “The Last Romantic Warrior“, che per chi scrive rappresenta il culmine emotivo di questo straordinario viaggio nella magica melodia rock della golden era, impreziosita da un magnifico assolo conclusivo degno di un posto nella “Hall Of Fame” chitarristica del rock internazionale di sempre.

IN CONCLUSIONE

Non sono presenti cali qualitativi o momenti di stanca all’interno delle dieci tracce di “China Sky”, dieci inni che solcano prepotentemente le ali del tempo per arrivare ancora sorprendentemente brillanti alle soglie del 2014 in corso, creando una motivazione imprescindibile per convincere (sempre se ce ne fosse bisogno) tutti gli amanti delle magiche sonorità AOR e hard melodiche a cercarne una propria sospiratissima copia. La caccia sarà ardua, a causa della difficoltosa reperibilità dell’album originale a dispetto dei numerosissimi bootlegs presenti oggi sul mercato (inclusa la sospetta edizione attualmente apparsa su diversi importanti mailorder del genere), ma l’impegno profuso alla ricerca non renderà vana nemmeno una sola goccia di sudore spesa di fronte ad un’opera di tale elevata caratura.
Dulcis in fundo, a rendere ancora più dolce il sapore al seguito di ogni singolo ascolto di questo meraviglioso debut album, è la sensazionale notizia divulgata pochi giorni fa dai due membri fondatori Ron Perry e Richard Smith, i quali hanno ufficializzato la reunion di parte della band in vista dell’avvenuta realizzazione di un nuovo studio album: a giudicare dalla breve anteprima del nuovo singolo ufficiale “One Life”, disponibile per l’ascolto nel video di presentazione apparso su Youtube, sembra che per i China Sky il tempo si sia fermato all’anno di grazia 1988. Un fattore che alimenta la speranza di tutti i melodic rockers che si rispettino di trovarsi ancora una volta di fronte a qualcosa di epocale, un magico angolo di arte caratterizzato dalle classiche e ariose melodie che hanno eletto l’omonimo “China Sky” ad una delle vere e proprie uscite di culto delle storiche sonorità melodiche adulte.

 

Desmond Child
Discipline

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Desmond Child – Discipline – Classico

05 Gennaio 2014 44 Commenti Matteo Alidori

genere: Pop rock/Aor
anno: 1991
etichetta:
ristampe:

Il disco che mi appresto a recensire è qualcosa di unico ed inimitabile vista la ricercatezza del suo insieme e la genialità del protagonista che “messosi in proprio” regala, grazie anche alla numerosa compagine di artisti al suo seguito, un’opera prima a tutti gli appassionati di rock melodico.
Desmond Child fa parte di una ristretta cerchia di famosi produttori e songwriter,(a mio parere il più grande di tutti nel panorama dell’hard rock). Americano di origine, proveniente dalla Florida, ha collaborato sia in veste di songwriter, sia come produttore in numerosi album di successo. Sono sue tutte le canzoni del capolavoro “Trash” di Alice Cooper, “Angel”, “What it takes” degli Aerosmith, “You give love a bad name“, ”Livin on a prayer”, “Born to be my baby” dei Bon Jovi, “How can we be lovers” di Michael Bolton, “I was made for loving you” dei Kiss solo per citare alcune fra le più famose hits.
Lo ricordiamo recentemente anche per la produzione di ottimi album, fra cui il terzo capitolo Bat out of hell di Meat Loaf al fianco di un altro mostro sacro come Jim Steinmann o in “Humanity Hour 1” degli Scorpions ritenuto a mio giudizio uno dei migliori della band tedesca.
Dopo questa parentesi eccolo qui fra le mie mani il capolavoro annunciato Discipline. Datato 1991 e distribuito dall’elektra..
Acquisto fatto in estate nel mitico negozio Disfunzioni Musicali di Roma (esiste ancora ?…spero di si).

Il potenziale di quest’opera prima si rivela elevatissimo fin dall’inizio, con una potenza che testimonia le effettive capacità del più grande songwriter del pianeta, cossicchè The price of loving you (la troviamo anche in Point Blank dei Bonfire) precede un susseguirsi di potenziali hit da classifica.
Obsession eseguita in duetto con Maria Vidal (prima dama di tre nei DESMOND CHILD AND ROUGE, gruppo che Desmond fondò alla fine degli anni 70 con due album all’attivo), la meravigliosa You’re the story of my life e Love on a rooftop sono tre ballads di altissimo livello.
Non da meno Discipline, The gift of life e Do me right, in quest’ultima son convinto vi lascerete coinvolgere dal magistrale assolo firmato Lukather.

IN CONCLUSIONE

Da avere assolutamente nella vostra collezione.

 

 

Dare
Belief

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Dare – Belief – Gemma Sepolta

12 Dicembre 2013 10 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Aor
anno: 2001
etichetta:
ristampe:

« Quest’album parla dell’avere fede in se stessi inseguendo il sogno. Credo che chiunque creda fermamente in ciò che fa possa un giorno raggiungere il suo risultato. Le canzoni di questo disco raccontano la storia delle mie esperienze, delle mie speranze e paure attraverso la mia vita, e credo che sia il mio album preferito dei Dare. » – Darren Wharton, 2005

Tra il 1998, anno di pubblicazione del mastodontico Calm Before The Storm, e il 2001, in cui esce il nuovo album intitolato Belief, avviene in realtà molto poco tra le fila dei Dare. Sono infatti anni in cui Darren Wharton, ormai sempre più consacrato leader del gruppo inglese, fa ritorno nella line-up della tribute band ufficiale dei Thin Lizzy, girando il mondo al fianco di Scott Gorham e soci. Nel tempo libero il musicista continua però a lavorare a nuovi brani, e quando nel 2000 i Lizzy decidono di prendersi una nuova pausa, la maggioranza del materiale per il nuovo disco dei Dare sarà già bella che pronta per la realizzazione in studio.

Lasciata la label MTM Music per autoprodursi sotto il proprio marchio Legend Records, Wharton decide di licenziare il bassista Martin Wilding per ingaggiare in modo definitivo ed ufficiale Richard Dews, che con la sua sola chitarra acustica riempirà in formazione il vuoto lasciato dal basso. Già questo fatto lascia presagire un nuovo e abbastanza netto cambio di rotta nel sound del gruppo che, come vedremo poi, passerà ad essere ancora più intimista, leggero, atmosferico e di impronta celtica che in passato.

Un altro anno di certosine lavorazioni e nel 2001 Belief è disponibile per l’acquisto nei negozi, autoprodotto ma distribuito nel mondo da svariati canali (SPV, MTM, Pinnacle, Playground nei rispettivi Paesi). Una copertina piuttosto semplice richiama nella grafica le antiche tradizioni, con i musicisti a nudo di fronte al pubblico. Leggendo i credits, colpisce subito la riconferma della talentuosa Sue Quinn alle backing vocals, ma soprattutto la presenza di Tricia Hutton al violino e di Tommy Martin alla cornamusa e al flauto irlandese, i quali contribuiranno (e tanto) alla creazione del nuovo elaborato sound originale dei Dare.

Pronti-via e pigiato il tasto play immediatamente abbiamo un deja-vu: il suono delle acque. Un oceano che appare calmo, con i flutti appena mossi dal vento, fa da intro all’opener Silent Thunder. La tempesta è oramai definitivamente passata, e la nuova quiete ci lascia il tempo di guardare a noi stessi, di curare il nostro animo dal turbinio di sensazioni e paure provate durante il passato e, volendo, nell’ascolto del precedente Calm Before the Storm. Il flauto irlandese di Martin è subito protagonista, squarciando le ultime nubi con il suo dolce suono, e la chitarra acustica di Dews accompagna l’insieme dando il via alla dolce e sussurrata vocalità di Darren Wharton. Il cantante ci narra di un alba che si alza dall’oceano e del suo spirito che vola tra le montagne fino a sentire il suono di un tuono (rumoroso dentro di noi, ma silenzioso fuori) che da vita a un bellissimo sogno, che brucia nel suo petto e nel cuore come un fuoco. Ogni immagine è resa perfettamente in musica da echi di chitarra elettrica, magistralmente suonati da un Moore sempre sugli scudi, e da cornamuse che fanno da toccante e puro intermezzo strumentale. How could they understand how good this feels inside? (come possono capire quanto è bello provare ciò dentro di se?) si chiede Darren, e la risposta più vera è nella sua stessa musica, in queste soavi e poetiche note.

When I was a boy, long time ago.. Inizia qui l’intimista viaggio tra memorie e ricordi di Wharton. Dreams On Fire racconta, sempre tra bellissime atmosfere celtiche e un ritmo un po’ più sostenuto rispetto alla precedente, degli sforzi e delle difficoltà che un uomo deve affrontare nel tentativo di raggiugnere un risultato, una meta che si è prefissato. La chitarra acustica detta il tempo, mentre Moore alla chitarra continua a essere libero di muoversi all’interno delle strutture accompagnando alla perfezione le emozioni di Darren.

La seguente White Horses (Lions Heart) è forse uno dei più bei pezzi scritti nell’intera discografia dei Dare, e quello che quindi più di altri merita una analisi dettagliata. Anche perchè il suo testo, diciamolo, è quanto di più toccante esista. Il brano narra di un giovane coraggioso che decide di lasciare la sua terra, la sua patria, per inseguire un sogno. Nel farlo, deve per forza di cose allontanarsi dalla sua amata, che lo saluta fiera e orgogliosa sulla costa al mattino della partenza, mentre le vele lo portano via lontano dalla terraferma. La luce che ora vede in mezzo al mare, lungo l’orizzonte, diventa il simbolo del loro amore che non cede, e attraverso le onde che si infrangono sulla nave le preghiere di lei giungono al suo cuore. Passano le stagioni e la loro promessa rimane. Toccando la catena che lei gli ha regalato la sente ancora un po’ vicina e sa in cuor suo che lei è ancora là, seduta sugli scogli, ad attenderlo. E le onde non smettono di battere sullo scafo della sua nave..
Inutile descrivere la musicalità di questo brano, le sue melodie raffinatissime e il suo refrain dolce e intimo. Chiudete gli occhi, e nel silenzio ascoltate.

Si volta in qualche modo pagina con la title track Belief, la canzone più pinkfloydiana della carriera dei Dare e una sorta di Comfortably Numb in chiave rock melodica. Ariosa, pura, la traccia si mostra come un bellissimo dialogo padre-figlio, in cui il genitore esorta il figlio a non aver paura, a vivere la sua vita al massimo delle sue possibilità, senza precludersi nulla. Valore aggiunto del pezzo è la voce di Sue Quinn, che fa da magico sottofondo sostituendo in parte gli echi della chitarra di Moore, ora leggermente defilata e più nei canoni del genere, quantomeno fino al suo brillante assolo.

E poi Run Wild Run Free, un’altra grandissima traccia che narra di una ragazza nata nel 1975 e che, stando al testo, è cresciuta al fianco di un amorevole padre, il quale ha contribuito a formare il suo bel carattere e le sue brillanti qualità. Una fanciulla che Darren incontra a 17 anni, probabilmente appena trasferitosi in Irlanda alla corte di Phil Lynott, e che da quel giorno illuminerà e cambierà per sempre la sua vita. E’ un altro brano da cui affiorano dense emozioni e la cui struttura rasenta la perfezione, con un groove caldo e un perfetto tappeto di suoni a riempire l’ascolto, fino a un toccante finale tutto da gustare.

C’era una volta un amico di cui ci fidavamo, che credevamo sincero e vero, che però si è rivelato un’altra persona alle nostre spalle. Da una situazione dolorosa come questa nasce We Were Friends, una traccia sofferta che ci parla della definitiva rottura di un’amicizia. La rabbia e la disperazione lasciano mano a mano spazio alla nostalgia, alla mancanza, alla paura per il futuro, mentre le parole di affetto mai dette tra i due amici si infrangono tra le memorie e ci si interroga, tra ripensamenti e emozioni via via sempre più contrastanti, se la scelta di rompere il rapporto sia stata giusta o meno. E’ un lento magistrale, alla Mark Knofler, dominato dalla voce di Wharton, dalla sua capacità di trasmettere ogni singola pulsazione all’ascoltatore. Arrangiamenti da urlo, e lacrime dentro il cuore.

Un altro racconto di giorni passati e nostalgie ci arriva con Falling, settimo brano di Belief e nuova ballata incandescente dal testo narrativo di una intima e incantevole poeticità. Seduto su un treno, alle prime luci del mattino, un uomo ripensa alla amata e alla lettera d’addio che le ha lasciato accanto al letto. Vorrebbe chiamarla, spiegarle tutto, ma non lo fa, non se la sente. Passano gli anni e la nostalgia si fa ancora più forte, quelli erano i suoi anni migliori e chissà, potrebbe anche provare a telefonarle e vedere come sta, se si ricorda di lui e di loro dopo così tanto tempo. Ma mentre le strade cittadine gli sembrano sempre più fredde, l’uomo realizza che il suo sogno si è infranto, e che non potrà mai più riaverla al suo fianco.. Tipica power ballad nel clima musicale di questo album, ennesimo sussulto emozionale, tutto battiti e caldo feeling.

C’è tanto di Calm Before the Storm invece in Where Will You Run To, che diversamente dalle ultime canzoni è una traccia impostata come up-tempo e tende a scorrere più ritmata e sostenuta. C’è più chitarra, batteria, voglia di movimento. Un ritorno al sound più rock e meno pop per presentare la lucida realizzazione di quanto si è sognato, vissuto e provato negli ultimi brani, e nei rispettivi sogni. Gli occhi si sono aperti, c’è davanti a noi un mondo da vivere ed esplorare: che cosa aspettiamo a ripartire all’avvenutura, lasciando alle spalle echi e ricordi?!

Take Me Away: la liberazione. Soffice e vellutata, ampiamente acustica, la canzone è un viaggio tra panorami idilliaci e paradisiaci. Riflessiva e quieta, ci fa immaginare un tramonto sulle acque, mentre nuovi pensieri vorticano nella nostra mente. Già con essa, lentamente, al fianco dei Dare torniamo a respirare l’aria di una nuova esistenza, e ci muoviamo piano su simili sonorità fino a Promised Land, altra traccia rilassata e rilassante, squisitamente atmosferica e levigata. Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo, toccato con mano la terra promessa, ora il nostro viaggio volge al termine e le nostre ossa possono finalmente riposare sul fresco arenile.

L’ultimo respiro di Belief è racchiuso in Phoenix, un brano totalmente incentrato sulle sue bellissime liriche ed emozioni. Wharton è accompagnato ora dalla chitarra acustica del solo Dews, che non a caso appare come co-autore di questo pezzo. In regalo per voi, la traduzione di tutto l’intenso testo:

Dimmi perchè cambiano le stagioni, e perchè c’è della pioggia che cade sulla mia testa. Dimmi perchè il mio amore rimane, e le promesse che mi hai fatto si sono infrante. Come una fenice mi sollverò ancora dalle fiamme, e dirò addio all’estate, dirò addio a te, e dirò ciao all’inverno, è tutto quello che posso fare. Non c’è inferno che abbia la stessa furia di una donna disprezzata, è un sentimento che colpisce come un onda sulle roccie. La fama e la gloria sono due cose differenti, che crescono con il fumo dal fuoco. Come una fenice mi sollverò ancora dalle fiamme, e dirò addio all’estate, dirò addio a te, e dirò ciao all’inverno, è tutto quello che posso fare.

IN CONCLUSIONE

Belief è a tutti gli effetti il quarto (e per molti ultimo) vero e puro capolavoro della discografia dei Dare. E’ l’album più riflessivo, intimo, privato, personale e sincero tra quelli scritti dal palmo di Darren Wharton, che proprio per questo lo nomina come uno dei suoi preferiti, se non il suo preferito, di sempre. E’ un prodotto assolutamente soft ma che non disedegna qualche cavalcata rock e qualche bella schitarrata di Moore, specie sugli assoli. Certo, è un album lontano sotto certi aspetti anni luce dai canoni del rock melodico, e a primo ascolto può sembrare un prodotto di soft rock atmosferico, ma ascoltandolo bene e nel dettaglio vederete che troverete diversi parallelismi con le precedenti uscite di questo stupendo combo inglese.

Insomma, la magia continua e questi quattro musicisti inglesi appaiono sempre più autori di un genere unico e inimitabile, originale, forse descrivibile soltanto come una sorta di alleggerimento del sound pinkfloydiano in chiave melodic rock, e quindi non più progressiva. Non lo so. Certo è che Belief appare come un rosso raggio di sole in un fresco tramonto, che tocca la nostra pelle riscaldandola di un caldo brivido. Poesia allo stato puro, tra suoni di tradizione celtica e la silenziosa furia del rock.

 

Toys of Joy
One Of These Days

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Toys of Joy – One Of These Days – Gemma Sepolta

04 Dicembre 2013 7 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Aor
anno: 1990
etichetta:
ristampe:

 

Di nazionalità danese, il progetto Toys of Joy fu una meteora di eccezionale qualità nella storia del soft AOR dei primi anni novanta.

Guidato dal genio dei musicisti Henrik Launbjerg (voce) e Hans H Egestorp (chitarre, tastiere e arrangiamenti), il gruppo pubblicò nel 1990 per una piccola label indipendete locale, la Olafsongs, l’album One Of These Days, presto finito esaurito e fuori catalogo, e quindi introvabile per ogni appassionato fino alla sua ristampa datata 2008.

A colpire di questa release è soprattutto il suo stile di impronta perfettamente americana e radio oriented, nonostante la latitudine di provenienza. Immaginaria unione tra gli stili di due realtà affermate all’epoca come Stage Dolls e Mr.Mister (grazie anche al vocalizzo di Launbjerg che tanto ricorda quello di Richard Page), il disco gode di una produzione molto curata ed avvolgente, alternando melodie ariose ad altre più sofisticate. Arrangiamenti d’incanto e un bel groove di basso accompagnano chitarre sottili ma sempre presenti, con intermezzi di tastiere davvero delicati all’ascolto e una bella coralità a supportare tutta la qualità del cantato, per un pacchetto di suoni davvero micidiale e imperdibile per tutti gli amanti del melodic rock più soffice e vellutato.

Una tracklist che parte a mille con Watching Your Moves, un brano che entrerà di diritto nelle prime posizioni delle vostre classifiche lite AOR e westcoast di sempre grazie a un ritornello da urlo e a un appeal micidiale. Un po’ più funky, specie nello stile delle chitarre, è l’altrettanto riuscita Hold On, seguita da una Bring On The Night ancora da favola e tutta ritmo e raffinatezza. Grande testo ed emozioni a correre con brividi caldi lungo la pelle con la toccante title track One Of These Days, mentre Some People risalterà al vostro orecchio come un bellissimo motivo anni’80 in puro stile Mr.Mister, prima della magia di una nuova ballad a titolo When The Rain Falls. Sarà infine la finezza degli arrangiamenti di chitarra a colpirvi in Can’t Get Nobody Else, con Make A Difference e Let It Out ad accompagnare con gusto il disco verso la sua fine, decretata dalle note di una Leaves dal refrain nuovamente raffinatissimo e a cinque stelle.

IN CONCLUSIONE

L’eccellenza di quello che l’AOR può diventare nella sua dimensione più leggera, intimista e raffinata è racchiuso all’interno delle brillanti note di One Of These Days, un album che lancia nell’Olimpo del nostro genere una formazione che purtroppo non saprà però mai più ripetersi su questi incredibili livelli negli anni a venire.

Tra le nostre mani rimane comunque uno dei migliori prodotti danesi di sempre, una hit degli anni novanta del rock melodico e un gioiello assoluto di westcoast europeo. Curato in ogni suo dettaglio, perfetto per accompagnare ogni tramonto o nottata, questo disco merita un posto tra i classici del nostro genere, incidendo il nome dei Toys of Joy nel grande marmo all’ingresso del Valhalla degli eroi immortali dell’AOR.

Dare
Calm Before the Storm

LEGGI LA RECENSIONE

Dare – Calm Before The Storm – Gemma Sepolta

08 Settembre 2012 4 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Aor
anno: 1998
etichetta:
ristampe:

Una delle fortune di essere recensore musicale è certamente la possibilità di svegliarsi il mattino, mettere su un disco della propria band preferita, scriverne decantandone le lodi, e avere poi la certezza quasi matematica che qualcuno leggerà le tue smisurate effusioni. Saranno poi elogi o stroncature, applausi o fischi, botte o carezze, ma ad ogni modo avrai calmato la tua sete di dire e ridire del tuo artista del cuore, sentendoti così straordinariamente appagato. E ora io lo sono, molto.

Sì, avevo proprio bisogno di continuare a parlarvi di Darren Wharton e dei suoi Dare, che diversi mesi fa avevamo lasciato hard rockers stile americano con il loro disco Blood From Stone del 1991 (se volete ridare una letta alla mia recensione, cliccate qui). Bene, dal 1992 al 1998 i Dare.. puf, spariscono! Si smaterializzano letteralmente e di loro non si sa più niente di niente. Che cosa può essere successo di tanto grave da disintegrare questa formazione? In realtà poco, o meglio, abbastanza poco. Vinny Burns, si dice insoddisfatto dalle vendite proprio dell’ultimo album, aveva salutato la formazione prestandosi ai Ten, Brian Cox (quasi mi viene da ridere) aveva lasciato la musica per diventare un fisico di assouto rilievo mondiale, e Darren solo soletto finì così a dare una mano all’amico Scott Gorham nella stesura del suo album con i 21 Guns, per poi unirsi a lui e ai suoi ex compagni nella tanto famigerata reunion celebrativa dei Thin Lizzy, che da li in poi farà da (noioso) spartiacque per la carriera di questa melodic rock band inglese.. Poi tac, è un attimo. Darren si stufa, lascia i Thin Lizzy e in quattro e quattr’otto nel 1998 mette su una nuova formazione dei Dare, con Andrew Moore e Richard Dews alle chitarre (il secondo non ancora in modo ufficiale). Trova una nuova label, la MTM Music, e pochi mesi dopo Calm Before the Storm è nei negozi..

“Con quest’album credo facemmo un gigantesco passo verso la realizzazione del suono autentico dei Dare. Fu il primo album che produssi e la mia prima collaborazione con Mario (Lehmann) e la MTM Music in Germania. Credo che il disco catturò al meglio l’atmosfera che cercavo. Rimane uno dei miei preferiti.” Difficile dare torto a Darren in queste affermazioni. Calm Before the Storm fu a tutti gli affetti un nuovo esordio per la band. I sound precedenti furono totalmente accantonati, e persino brani già scritti i precedenza con Burns e inseriti nella tracklist di questo disco (come la magnifica Walk On The Water) furono quasi totalmente rivisti in una chiave molto più leggera e sfumata. Nella mente di Wharton c’era ormai un nuovo disegno per quello che era diventato a tutti gli effetti il suo progetto, un piano straordinariamente originale e innovativo che avrebbe portato da qui in avanti la band ad avere un suo stile personale e riconoscilissimo che, di successo o meno, l’avrebbe comunque consegnata alla storia.

Ecco quindi motivata la scelta di sfondare ogni barriera e canone, portando il rock melodico a a farsi avvolgere da nuove vesti, lunghe, bianche, eleganti. Vedete la figura femminile in copertina? Lei è il rock melodico dei Dare. Attorno ora tutto si muove, i paesaggi cambiano e si evolvono. Il cielo rappresenta le influenze progressive (e aggiungerei quasi pinkfloydiane) che si aggiungono a questa musica, ruotando attorno ad essa in un misterioso insieme, spaventoso ma bellissimo come un cielo che si prepara alla tempesta (dark skyes, dangerous and beautiful dirà più avanti in un suo brano Darren..). Il sole, che si appresta ad essere cancellato dalle nubi, è il legame con il passato che se ne va, e il lago in cui bagna i suoi piedi non è altro che la sintesi più pura e tangibile di quelle straordinarie atmosfere che rafforzeranno l’insieme sonoro della band, e che definirei quasi ambient per come riescono a far respirare all’ascoltatore l’aria di paesaggi incontaminati, di verdi colline e di cieli straordinariamente sereni e lucenti, talvolta anche in tempesta. E attenti! Non è un caso che la seducente figura tocchi le acque, è questo infatti l’unico modo che ha per divenire in tutto per tutto parte del straordinario sistema che muove intorno a lei e che ora per capillarità risalirà il suo corpo nudo facendola per sempre sua. Non esiste il ritorno ora. Lei cammina sulle acque e si avvincina a noi, ci seduce e ci circonda, e se accettiamo il suo caldo bacio, il tocco delle sue labbra sulle nostre, per sempre a lei apparterremo. Il suo ricordo e la sua musica non lasceranno mai più i nostri cuori, è questa la magia della nuova musica dei Dare! Dal momento che entrerà nelle vostre orecchie non sarete più in grado di farne a meno, come se fosse una donna bellissima, sensuale e dal portamento elegante, che sotto la sua unica bianca veste nasconde il vostro desiderio d’amore più puro.

Non mi stancherò mai di dire come questo Calm Before the Storm riesca ad essere a tutti gli effetti il primo di una serie di quadri in musica, di ipnotici dipinti di note che il genio di Darren Wharton ha voluto dare a noi. Le singole battute diventano ora frasi di poesia, assumono un valore che mai prima d’ora avevano avuto e si sublimano alla natura e alla sua potenza. La calma prima della tempesta è quell’ultimo tacito momento di quiete che accompagna il vortice delle interperie, l’istante di apparente tranquillità che precede le ostilità celesti, e quello che sarà dopo (e che parimenti verrà al termine dell’ascolto del disco) saranno solo pioggia e lacrime, un turbine emotivo di una violenza disarmante, una calamità di sensazioni, un tornado di sentimenti.
Una tela che ottiene la sua prima pennellata con il brano Walk On The Water, il cui incipit di chitarre e voci echeggianti al cielo anticipa lo splendido ingresso vocale di Darren Whorton, dal cantato ora straordinariamente dolce, sussurrato e carismatico. La chitarra acustica di Dews accompagna con assoluta maestria le melodie, mentre Moore è libero di spaziare nell’insieme con parti e assoli elettrici di un intensità artistica unica e rara. Some Day rimane più lineare dell’opener, ma il suo ritornello urlato al cielo (I’ll meet you there in a land somewhere.. waiting) giunge a Dio ed è per tutti, e commuove e sorprende come l’ultimo grido di smisurato amore e speranza del Figlio al Padre prima dell’ultimo affannato respiro. La title track Calm Before the Storm ridipinge in musica la cover dell’album, con passaggi e accelerazioni-rallentamenti di puro soft progressive. L’intera band è sugli scudi, Darren sfoggia qui forse la sua migliore prestazione vocale di sempre, mentre la chitarra di Moore muove il cielo e addensa le sue nubi che, dopo un’ultimo istante di silenzio (splendidamente rappresentato dalla band), gettano pioggia e vento sul volto di tutti noi, lasciando il ritmo del brano ad evolversi fino a quando il sole riuscirà a farsi spazio tra i nembi, riportando la normalità tra echi di chitarre. E’ poi il turno di Rescue Me, un brano dal testo romantico e nostalgico, denso di passati ricordi e commosse sensazioni. Nuovamente più nei canoni e con un ritmo abbastanza sostenuto, il pezzo pogggia su una prestazione chitarristica da lode eccelsa e sulla profondità infinita dei suoi arrangiamenti. Silence Of Your Head apre invece con note di tastiera ed è un brano piuttosto cupo che cerca di rappresentare i dolori di spirito di un’anima perduta, disinnamorata e sola, chiusa nei silenzi della sua mente. Nonostante la vena triste che lo accompagna, il pezzo troverà la sua catarsi nell’urlo a non cedere e pieno di speranza (when you can’t carry on and the feeling is gone.. there’s so much more!) che chiude il bel refrain e che anticipa l’accellerata parte strumentale del brano, forte di un altro piacevolissimo assolo. Poi in Rising Sun l’amore e la sua dirompente forza sull’animo vengono invece descritti positivamente, facendoci provare sulla pelle il magnifico sentimento del perdono e del ritorno del sentimento dopo un addio. Dominata da un’atmosfera calda e soffusa, chiusi i nostri occhi la traccia riesce a guidarci in un intenso panorama mattutino dall’intenso rossore, una sensazione inebriante e avvolgente. Arrangiamenti che rimangono parte preponderante anche in Ashes, che esordisce lieve e leggera come la nebbia del mattino per poi poggiarci piano sulle ali del vento, mentre la bellissima Crown of Thorns torna a mostrare i Dare aggressivi e maschi, con un ritmo ben più sostenuto degli altri episodi (forse questo è l’unico e ultimo momento riconducibile al vecchio stile della formazione inglese) e con sensazioni totalmente opposte a quelle ben più arrese di Ashes. Siamo ormai in chiusura ed eccoci ad un’altra hit assoluta del repertorio Dare, ovvero Deliverance, componimento di un originalità unica, intenso ma allo stesso tempo ancora soffuso ed etereo, sotto certi versi progressivo ma anche ritmato e rock. Il testo magico accompagna splendidamente le musiche, squarciando gli orizzonti dinanzi ai nostri occhi in visioni mozzafiato che ci accarezzano, poi feriscono e rimarginano in continuazione. Conclude l’opera la bella cover di Still In Love With You, omaggio al genio dei Thin Lizzy, che qui assume caratteri sotto certi versi diametralmente opposti rispetto all’originale. Infatti, mentre la versione di Lynott cercava di essere una sorta di ultimo tentativo di riconquista dell’amata, qui Wharton da maggiore sfogo alle sensazioni nostalgiche e pare più arreso, quasi che ora la speranza fosse svanita. Un interessante modo di interpretare un capolavoro!

IN CONCLUSIONE

Se si pensa a dischi unici ed innovativi nell’ambito del rock melodico, difficilmente si ci può dimenticare di Calm Before the Storm, un’album che è stato capace di ridisegnare totalmente il genere, arricchendolo di mille altre influenze musicali e sensazioni. Una raccolta di 10 brani indimenticabili da tramandare alle generazioni, in un sogno ad occhi aperti da cui è impossibile svegliarsi. Da ascoltare, riascoltare, ascoltare e riascoltare ancora senza mai potersi annoiare e, anzi!, scoprendone sempre nuove sfumature. Un viaggio sulle ali del vento lungo le calme rive dei laghi, tra albe e tramonti mozzafiato, attraversando dense nebbie per sfiorare poi la fresca e umida erba di verdi colline, subendo le tempeste per poi riscaldarci al caldo sole di cieli sereni e raggianti. Un inno alla potenza della natura chiuso in un disco, una musica perfetta per tornare in pace con se stessi e con questo caotico mondo che ci circonda. Un lavoro calmo, tranquillo e rilassato che ci cura dentro, ma allo stesso tempo così forte e denso da farci reagire e capire tante cose di noi stessi e delle nostre vite. E come diceva qualcuno: il naufragar m’è dolce in questo mare..

 

Dare
Blood From Stone

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Dare – Blood From Stone – Classico

23 Gennaio 2012 13 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard Rock
anno: 1991
etichetta:
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Nonostante il successo dell’esordio Out of the Silence, il secondo album dei Dare, intitolato Blood From Stone e pubblicato nel 1991 sempre dalla A&M Records, rivelò ad ampi tratti un suono completamente opposto a quello del suo predecessore.

Ad ammissione dello stesso Darren Wharton, i motivi di questa scelta erano dovuti all’esplosione in quei primi anni ’90 di realtà musicali dal sound marcatamente rock, quali in particolare i Guns N’ Roses. Quindi, nel tentativo di non finire la loro carriera dopo un solo album come storicamente era accaduto a molti gruppi, i Dare cercarono di adattarsi al mercato, avvicinando maggiormente il loro stile alle sonorità made in USA che andavano per la maggiore e che sia la critica che la loro stessa etichetta discografica gli richiedevano.

Il risultato fu un album dannatamente grezzo e dal tipico mixaggio in stile stelle e strisce, dove i suoni non erano più cromati e nitidi, ma densi di chitarre calde, graffianti e assolutamente maschie. Di conseguenza, la stragrande maggioranza dei brani contenuti in Blood From Stone vide Vinny Burns, qui ispirato come non mai, quasi monopolizzare il prodotto finale con il suo strumento, attraverso riff serrati, rapidi, massicci e assoli fulminei quanto tecnici. E così lo stesso Wharton modificò sensibilmente il suo cantato, rendendolo molto più rauco e graffiato che in precedenza e abbandonando quasi interamente le parti spesso quasi sussurrate dell’esordio, gettandosi in strofe e ritornelli che davano la comunque sempre piacevole sensazione di essere urlati con rabbia al cielo.

Un tracklist molto serrata lasciò spazio a due soli lenti, ovvero il quinto brano Lies, vero e proprio sfogo verso l’amore perduto, e l’ultimo Real Love, un brillante inno alla grandezza del sentimento più cantato del rock. Le restanti otto tracce furono una dopo l’altra delle rasoiate di energia, a partire dalla splendida opener Wings of Fire, che in qualche modo ricordò lo stile dei Thin Lizzy, per proseguire con We Don’t Need A Reason, dirompente quanto un rapido di passaggio a 140 km/h in una stazione locale e dal cantato violento ma a metà tra il primo Bon Jovi e Bryan Adams, e per finire nominando ancora le atomiche Live To Fight Another Day e Cry Wolf , la cui finta calma iniziale di quest’ultima divampa in alcuni dei riff più belli dell’intero lotto.

IN CONCLUSIONE

Blood From Stone fu un disco anni luce diverso rispetto a quanto i fans dei Dare potessero aspettarsi dopo un esordio levigato come Out of the Silence. Sicuramente fu un prodotto che deluse (e forse allontanò) tutti coloro che non erano pratici delle marcate sonorità hard rock. Certamente fallì nei suoi intenti di sfondare il mercato discografico, tanto che fu a larghi tratti ignorato dai più e non riconosciuto apertamente dai critici. Ma Blood From Stone è tutt’oggi un album quasi unico per spirito di aggressività rock. Dotato di brillanti sfoggi di tecnica musicale, è un prodotto che forse non si apprezzerà al primo ascolto, che talvolta lascerà dubbi o incertezze, che non nominerete forse mai come il miglior disco dei Dare, ma che certamente resterà un tassello massimo di questo genere anche per gli anni a venire. Siano benetti i Dare, sempre.

Golden Farm
Angel's Tears

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Golden Farm – Angel’s Tears – Gemma Sepolta

29 Novembre 2011 4 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Aor
anno: 2001
etichetta:
ristampe:

 

I Golden Farm furono un progetto musicale spagnolo attivo nel 2001 con il piacevolissimo album d’esordio Angel’s Tears, pubblicato con una etichetta indipendente della loro terra, la Avispa Music. Un lavoro che fu una lucente meteora per la storia rock melodica spagnola e che ahimè non ebbe seguito a causa del decesso del chitarrista, mente e fondatore Loren, avvenuta poco tempo dopo l’uscita del disco (almeno così mi risulta, ma la informazioni in rete sono così poche che spero di essere smentito).

Ad ogni modo, Angel’s Tears è un album davvero piacevole, caratterizzato da una buona produzione ma soprattutto da un ottimo songwriting, semplice ma sempre molto intimo e ispirato, fatto di parti strumentali leggere ma forti di un ottimo conubio tra chitarra e tastiera e rivolte ad accompagnare la bella vocalità del singer Toni Menguiano, che non a caso dopo lo scioglimento del gruppo avrà modo di mostrare ancora il suo talento in altre più o meno famose realtà musicali. La prestazione della formazione tutta è molto buona e la composizione delle tracce articolata e dotata di ritornelli riusciti e di coralità. La marcia in più è però sicuamente data dall’elevato carico di emozioni che il prodotto trasmette, tanto che Lacrime d’Angelo si rivela essere un titolo davvero rivelatore per quello che è il prodotto finale, ovvero un disco angelico, elegante, intimo e profondo, dal feeling che si percepisce con brividi veri su tutta la pelle.

Tra i brani più rock, spiccano la vivace opener I Can’t Tell You, che mette in mostra l’energia del quintetto al pari del terzo componimento Fire and Ice, carico di riff di chitarra caldi e maschi, ma soprattutto Why These Years, che combina al massimo la grinta, anche corale, del gruppo con la sua dolcezza melodica. Infatti, sono certamente le mid-tempo e le ballate a dominare questo disco, partendo dalla dolcissima Time After Time e tipico brano da dedicare alla vostra amata, per citare la malinconica I Want to Know e arrivare alla finale When The Morning Sun, vero valore aggiunto dell’album e brano dotato di arrangiamenti eccezionali e di una prestazione della formazione tutta da capogiro.

IN CONCLUSIONE

Angel’s Tears è un album dimenticato tutto da riscoprire, un lavoro di alto livello che per i miei gusti deve essere citato tra le migliori uscite dal 2000 ad oggi. Certamente non è un capolavoro assoluto del genere, ma resta un ascolto piacevolissimo specie per chi apprezza i lenti e i brani dal sound dolce e leggero. Ma non mancano anche le canzoni più tirate! Dategli una possibilità, non ve ne pentirete.

 

 

Dare
Out of the Silence

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Dare – Out of the Silence – Classico

26 Novembre 2011 6 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Aor
anno: 1988
etichetta:
ristampe:

 

I Dare sono un progetto musicale fondato nel 1984 dalle menti del cantante e tastierista Darren Wharton, un ragazzoccio nord irlandese ex componente degli storici Thin Lizzy (e grande amico del loro leader Phil Lynott, che gli fece in tutti i sensi da maestro), e dal chitarrista Vinny Burns, poi membro dei Ten.

Out of the Silence è il primo capitolo della storia di questa (a tratti dimenticata) band, pubblicato dalla A&M Records nel 1988 e grande tassello di una carriera che per me, fanatico ammiratore delle gesta di Wharton, sarà via a via gloriosa in ogni sua parte ed evoluzione.

Un lavoro incredibilmente maturo e preciso per essere un esordio. L’impressione è infatti proprio quella di trovarsi di fronte a una realtà musicale navigata, che a livello di sound ha trovato la quadratura del suo cerchio in arrangiamenti avvolgenti e in una produzione (curata da Mike Shipley e Larry Klein) che rasenta la perfezione, e nel songwriting in melodie oscillanti tra una freschezza sonora dirompente (merito di tastiere e chitarre in primissimo piano) e un calore di feeling e sentimenti unico, senza dimenticare la vena poetica generale che ha nei testi (impegnati, profondi, mai banali) il suo apice.

In più, Out of the Silence è un lavoro che sa non ripetersi, evolvendosi brano dopo brano. Prima di tutto troverete al suo interno composizioni di puro rock melodico classico quali Abandon, Into the Fire, Runaway e Heartbreaker, forti di tastiere genuine e portanti che hanno pochi eguali nella storia di questo genere, di una chitarra vivace e tecnica, specie sugli ottimi e variegati assoli, che fa da grande sostegno alle melodie, e di una vocalità calda ed energica di Mr. Wharton, cantante non di certo tecnicissimo ma unico nella trasmissione di emozioni.
Troverete poi tre classiche rock ballad, la preziosa Nothing is Stronger than Love, la nostalgica Return the Heart e la gloriosa King of Spades, quest’ultima commovente e sentita dedica al maestro Phil Lynott.
E infine, con i brani Under the Sun, The Raindance e Can’t Let Go, avrete ai vostri orecchi le prime proposizioni di quell’atmosfera unica e avvolgente che sarà poi il marchio di fabbrica della seconda parte di carriera della band. L’effetto surround, la sensazione di immergersi nelle parole, nei battiti, nelle pulsazioni della canzone si rivelerà per voi un esperienza totale, quasi mistica. Da provare.

IN CONCLUSIONE

Non è un caso se la maggior parte degli ascoltatori di rock melodico citano questo disco tra le migliori uscite in assoluto del genere. E non voglio neppure nascondere che per i miei gusti personali questo album è il numero 1. Out of the Silence è un qualcosa di unico, le cui melodie e sensazioni hanno il dono di entrare sotto pelle, nella carne fino a squarciare il cuore, con un AOR solenne e raffinato, forte lo ribadisco soprattutto di un’ottima vocalità e di grandi trame di chitarra e tastiere. Darren Wharton è un grande compositore, che ha trovato in Vinny Burns il suo perfetto comprimario, e l’intesa tra i due qui sembra toccare davvero i cieli dell’apoteosi musicale, per un disco che di certo verrà tramandato nei secoli come esempio perfetto di cosa il rock melodico poteva, può e potrà creare.

 

H.e.a.t.
H.e.a.t.

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H.E.A.T – H.E.A.T – Classico

15 Gennaio 2011 18 Commenti Andrea Vizzari

genere: Melodic Rock
anno: 2008
etichetta:
ristampe:

Se dobbiamo definire i paesi o una zona del mondo che ha permesso la rinascita del melodic rock nel post 2000, sfornando un numero impressionante di band che si rifanno ai gloriosi anni 80 senza però scadere nel riciclato, allora la risposta sarà una sola: la Scandinavia (e precisamente Svezia e Finlandia). Culla di tante nuove band, tutte con i propri pregi o difetti, ma con una costante comune: gli anthem da stadio, i ritornelli grandiosi, e quel senso della melodia innata. La Svezia, dopo aver dato i natali a band di tutto rispetto nel panorama rock melodico (Europe, Treat o i Talisman sono alcuni di questi gruppi storici) si è confermata una fucina di valore immenso. Proprio dalla terra di Tempest & Co. arrivano gli H.E.A.T, che hanno preso al volo tutto quello che era stato fatto fin ora, creando un mix assolutamente esplosivo.

LE CANZONI

Apertura affidata a un intro strumentale con una voce fuoricampo, il tutto per pochi secondi prima di arrivare alla prima canzone del disco: There For You. Chitarra in primo piano che comincia a tessere già le prime melodie indimenticabili, presto seguita dalla voce cristallina di Kenny Leckremo il tutto a condire questa bella opener. Never Let Go è una midtempo che subito diverte e che rimane in testa grazie a quei cori e a quel ritornello da cantare e urlare a squarciagola. Da notare nel finale uno stacco che rallenta la canzone solo per pochi secondi prima che arrivi Leckremo a sfoderare un acuto a dir poco pauroso a prova della sua immensa estensione vocale. Le successive Late Night Lady e Keep on Dreamin’ riescono nell’impresa di dimostrare (se ancora ci fosse il bisogno) quanto questi 6 ragazzi ci diano dentro con l’anima, avendo il ritmo e il desiderio di far scatenare l’ascoltatore nel sangue con il loro ritmo incalzante, i cori sempre presenti e queste melodie vincenti che tanti gruppi si sognano di creare. Le atmosfere si rallentano con la prima ballad del disco,  Follow Me. Introdotta da Jona Tee e il suo pianoforte, da dimostrazione di quanto la band svedese sappia anche sorprendere nei lenti, con un interpretazione ancora magistrale di Leckremo. Si torna al rock con Straight For Your Heart che scommetto farà ballare chiunque e che funge da spartiacque tra Follow me ed un altra ballad, sempre di alto livello: Cry. Anche qui l’atmosfera è calda, i ritmi si abbassano e Kenny supera se stesso: interpretazione magistrale per tutta la canzone prima del finale in cui alza e tira degli acuti micidiali. Feeling Again, come le altre rock-song, parte lentamente per poi esplodere nel bridge e nel ritornello che acquista maggior spessore grazie ai cori degli altri membri della band. Anche qua dopo l’assolo, un Kenny Leckremo sugli scudi che regala alzate di tono e acuti perfetti. A seguire Straight Up col suo sapore quasi blues nulla aggiunge a quanto ascoltato precedente che però fa notare il gusto dei due chitarristi Dave Dalone ed Eric Rivers. Con Bring The Stars torna il classico suono della band, linee melodiche di chitarra mai banali e un ritornello che rimarrà impresso per molto tempo nelle menti di chi ascolta. Compito di chiudere il disco a You’re Lying e Feel The Heat che non aggiungono niente di nuovo alla miscela esplosiva della band svedese.

IN CONCLUSIONE

Melodie di facile assimilazione, ritornelli da cantare continuamente, frequenti assoli mai scontati o fini a se stessi che si intrecciano con le tastiere onnipresenti, frequenti cori e armonie vocali, il tutto impreziosito da una produzione moderna che scongiura quel senso di “vecchio” che potrebbe scaturire ascoltandoli. Se fosse uscito nel biennio 89-90 sicuramente avrebbe venduto quelle 3-4 milioni di copie che si merita di diritto. Voglio spendere una nota di merito però soprattutto al cantante, Kenny Leckremo. Questo giovane ha tutto quello che un cantante dovrebbe avere per il genere proposto: un timbro chiaro e pulito, un estensione vocale paurosa che gli permette di non risparmiarsi MAI dando veramente il massimo in ogni canzone con numerose alzate di tono vistose e acuti veramente potenti senza mai perdere punti neanche nelle parti più calme o nelle canzoni che richiedono una certa atmosfera.
Il disco comunque rimane un MUST per tutti gli amanti del rock melodico che non devono farsi scappare un disco di questa caratura.