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04 Marzo 2025 5 Commenti Samuele Mannini
genere: Pop Prog Electronic Rock......
anno: 1982
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Probabilmente, per un disco del genere, dovremmo aprire la rubrica dei Super Classici, in quanto questo è un disco che travalica assolutamente ogni genere musicale ed è stato ascoltato e apprezzato dagli amanti di qualsivoglia estrazione musicale, oltre che da milioni di ‘casual listener’, in ogni più improbabile occasione, nell’arco dei suoi oltre 40 anni di vita.
Che sia o no il disco più bello a nome The Alan Parsons Project è una questione senz’altro opinabile, mentre l’unico fatto assolutamente certo è che è stato l’album più venduto, trasmesso e popolare di questo gruppo sui generis.
Era il 1975 quando due menti brillanti si incontrarono negli studi leggendari di Abbey Road. Da un lato c’era Alan Parsons, un giovane ingegnere del suono che aveva già avuto il merito di lavorare su un capolavoro come “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Un uomo abituato a stare dietro le quinte, ma con un grande sogno: quello di dar vita a un progetto che andasse oltre la semplice ingegneria del suono. Dall’altro, c’era Eric Woolfson, un cantautore e manager che aveva già esperienze nell’industria musicale. A differenza di Parsons, Woolfson voleva essere al centro della scena, con una visione artistica chiara, ma sentiva che qualcosa gli mancava per raggiungere il suo obiettivo. Fu così che i due si trovarono a condividere la stessa ambizione: quella di creare qualcosa di nuovo, di fuori dal comune. Non volevano fondare una band tradizionale, ma un ‘progetto’ musicale che unisse talenti diversi per ogni album, con tematiche profonde e ricercate. E così nacque The Alan Parsons Project.
Mentre i primi album erano più votati al progressive rock, sia come stile che ambientazioni tematiche, “Tales of Mystery and Imagination”, fu un viaggio affascinante attraverso l’opera di Edgar Allan Poe, un concept album che mescolava rock progressivo e atmosfere sinfoniche, mentre per esempio “I Robot“, si ispirava alla celebre saga fantascientifica di Asimov, in “Eye In The Sky” si prova a distaccarsi da un concept predefinito lasciando sullo sfondo una vaga tematica Orwelliana, ma affrontando l’opera come un insieme di canzoni a se stanti.
L’album fonde elementi del progressive con le sofisticate atmosfere art pop, dove pennellate rock si uniscono ad elementi tipici della musica elettronica, che al tempo cominciava ad essere in gran voga, tutto naturalmente poggiato su una qualità del suono impeccabile. I sintetizzatori e le programmazioni di Parsons creano ambientazioni suggestive e dettagliatissime, senza mai risultare eccessivi. Gli arrangiamenti orchestrali di Andrew Powell contribuiscono ad arricchire ulteriormente il suono, tanto è vero che nel 2019, per la sua edizione del 35º anniversario, ha ricevuto un Grammy Award nella categoria Surround Sound-Best Immersive Audio Album.
Potrebbe sembrare persino assurdo dover scrivere di un album del genere, ma tutte le volte che la puntina si posa su quei solchi, non posso fare a meno di pensare che questo disco debba essere presente sulla rubrica del nostro sito.
Con perle del calibro di “Sirius” e “Eye in the Sky”, dove la strumentale funge da introduzione sinfonica all’album, mentre l’emblematica title track esplora il tema della sorveglianza, con possibili interpretazioni che spaziano dalle telecamere di sicurezza nei casinò (cosa che dette a Woolfson l’idea per il titolo) alla visione onnisciente di un amante o addirittura di un governo. “Children of the Moon”, pezzo più pop/rock con influenze progressive, arricchito dagli arrangiamenti orchestrali di Andrew Powell. “Silence and I”, brano più orientato al prog dell’album: si apre e si chiude come una ballata, ma nella parte centrale offre una energica sequenza orchestrale. “Mammagamma” dove si vira su uno strumentale etereo, suonato quasi interamente con tastiere programmate al computer, richiamando lo stile di artisti di musica elettronica come Vangelis o Tangerine Dream. Infine, la conclusiva e soave “Old and Wise” crea un’atmosfera melanconica, dove la voce di Colin Blunstone e il solo di sassofono di Mel Collins aggiungono enorme profondità emotiva all’ascolto.
Insomma, un disco che non può assolutamente mancare in ogni bacheca di un amante della musica degno di questo titolo. In tutte le sue versioni ed edizioni, uscite in tutti i formati possibili, offre una produzione e un dettaglio sonoro unici, ponendosi come riferimento assoluto e facendo impallidire miseramente le cose che, ahimè, siamo costretti ad ascoltare al giorno d’oggi. Universale.
01 Marzo 2025 10 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1987
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Prima di tutto, facciamo un paio di dovute premesse: 1) considero quest’uomo una delle cinque migliori voci che il mondo del rock abbia mai regalato al pianeta, e ammetto che, anche se incidesse un album di pernacchie, probabilmente mi piacerebbe comunque; 2) lo scioglimento dei Bad English è una ferita ancora aperta dopo più di trent’anni, e se al posto dell’ennesimo album dei sempre più inguaiati Journey ci fosse una reunion dei pessimi inglesi, finirei probabilmente arrestato per atti osceni in luogo pubblico mentre faccio l’elicottero nudo in piazza del Duomo.
La voglia di scrivere di questo disco è nata un paio di giorni fa, quando mi sono procurato una copia in vinile per la modica somma di 5 euro. Eh già, perché mentre il più noto “No Brakes” è presente da innumerevoli anni nella mia collezione, di “Rover’s Return” possedevo solo la copia della copia di una cassetta, registrata da un vinile, copiata su un cassettone pseudo hi-fi anni ’80 prestato da un amico… che al mercato mio padre comprò. E, sebbene all’epoca lo conoscessi praticamente a memoria, non mi ero mai preoccupato di procurarmi una copia fisica degna di tal nome. Ecco, mai affidarsi alla memoria e, soprattutto, agli ascolti fatti un milione di anni fa su supporti di qualità infima. Finalmente, dopo un’era, seduto in poltrona su un impianto hi-fi degno di questo nome e grazie a un vinile silenzioso e senza fruscii, ecco che ho visto la luce, e questa non è nient’altro che l’ennesima riprova di quello che ho sempre sostenuto: che un conto è sentire la musica, ben altro è ascoltarla. È stato come guardare la Gioconda dopo il restauro, con i suoi colori dell’epoca vivi e naturali, e non oppressi dal grigiore e dal deterioramento del tempo che passa.
Quello che ho notato è come questo disco sia il più vicino ai Bad English tra quelli prodotti dal vocalist britannico, tanto che ad occhi chiusi due o tre pezzi potrebbero persino sembrare degli outtakes del primo album della band.
“These Times Are Hard For Lovers”, co-scritta da Child, si rivela un brano super accattivante. “Don’t Lose Any Sleep”, firmata da Diane Warren, offre momenti di ispirazione melodica e forse pecca solo di un arrangiamento indeciso. Probabilmente, il problema del relativo insuccesso commerciale di questo disco è stato proprio il fatto che ha cercato di anticipare i tempi, cercando di mixare l’AOR con il piglio più energico dell’hard rock a stelle e strisce, finendo per restare un po’ in una terra di mezzo. L’operazione riuscirà perfettamente un paio di anni dopo ai Bad English, anche grazie al piglio più rock della chitarra di Neal Schon, ma questa è un’altra storia.
Tra le pieghe del disco si celano comunque gemme preziose, brani che mettono in mostra il talento di Waite e la sua abilità nel fondere rock e melodia. “Encircled” si distingue per il suo sound più grintoso e aggressivo, mentre “Woman’s Touch” ci culla con le sue linee di chitarra bluesy. “Sometimes” è una ballata intensa e toccante, tipicamente eighties, e “She’s The One” rappresenta un perfetto equilibrio tra aggressività rock e sensibilità pop, un brano che avrebbe meritato di scalare le classifiche radiofoniche.
In definitiva, “Rover’s Return” è un album che paga lo scotto di essere arrivato troppo presto, ma con i ‘se’ e i ‘ma’ la storia non si fa e probabilmente, anche grazie all’insuccesso commerciale, si è poi avuta l’unione tra Schon, Castronovo, Phillips, Jonathan e John che ha prodotto i due capolavori a nome Bad English. Invece, Rover’s Return resta un gioiello nascosto nella discografia di John Waite, un lavoro che merita di essere riscoperto e rivalutato in tutto il suo valore e potenziale.
25 Febbraio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock
anno: 1990
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I Baton Rouge furono un quintetto originario di Pearl River, Louisiana, fecero il loro ingresso nel panorama musicale nel 1990 con “Shake Your Soul”, un album che, pur senza ottenere subito un grande successo commerciale, è diventato nel tempo un vero oggetto di culto per gli appassionati dell’hard rock melodico. Pubblicato sotto l’etichetta Atlantic Records, il disco propone un hard rock potente e accattivante, in perfetto stile americano, sulla scia di band come Danger Danger, Firehouse e Winger.
Ma cosa distingueva questo ennesimo gruppo di belle speranze dalle decine, se non centinaia, di band che in quegli anni cercavano di farsi strada in una scena hard rock statunitense ormai ipersatura? La risposta ha un nome: Giacomo Pontoriero. Forse così non vi dirà molto, ma il suo pseudonimo, Jack Ponti, probabilmente vi accenderà qualche lampadina, riempiendo la vostra mente di motivetti super catchy.
Il recentemente scomparso Jack Ponti, deus ex machina dei Surgin e noto per le sue innumerevoli collaborazioni con artisti del calibro di Bon Jovi, Alice Cooper, Keel, Trixter, Nelson, Kane Roberts, Joe Lynn Turner e chi più ne ha più ne metta, ha saputo sublimare in questo album l’essenza di quello che io chiamo il ‘Sound Pontiano’, un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile. Insieme al suo fidato collaboratore Vic Pepe, Ponti si è qui occupato della co-scrittura, degli arrangiamenti e della produzione del disco, lasciando inevitabilmente la sua indelebile impronta.
Altro segno distintivo del disco è la voce di Kelly Keeling, un cantante che, pur non essendo un nome di primissimo piano, ha in seguito collaborato con artisti di rilievo come Blue Murder, Alice Cooper, MSG e Dokken. Keeling dimostra appieno il suo valore in brani di grande spessore come “Doctor”, “Big Trouble” e “Spread Like Fire”, dove si esprime senza riserve ed esplode come un vulcano di emozioni, fremendo e scalpitando, trascinando l’ascoltatore con una performance intensa, assolutamente all’altezza dei frontman delle band più blasonate dell’epoca. Inoltre, le sue interpretazioni nelle tracce dal romanticismo più acceso sono perfette per i cuori infranti e feriti dall’amore. La sua voce è vellutata nelle ballad, viscerale e graffiante nei brani più energici, evocativa e sprezzante, ma sempre perfettamente controllata e in linea con i canoni estetici dell’hard rock melodico più raffinato.
Brani come “Doctor”, “Walks Like a Woman” e “It’s About Time” possono considerarsi dei punti di forza dell’album, rappresentando pienamente l’anima del melodic rock degli anni ’80. “Walks Like a Woman”, in particolare, può essere considerata l’emblema del disco, grazie alle sue chitarre incisive, l’atmosfera ammiccante creata dalle tastiere e alla potente interpretazione vocale di Keeling. “Bad Time Comin’ Down” e “Baby’s So Cool” evocano l’energia tipica del Party Rock degli anni ’80, con un’atmosfera vivace e festosa che richiama la spensieratezza di quegli anni. “Melanie” e “Spread Like Fire”, invece, rivelano una sottile raffinatezza che mette in luce anche altre doti della band, lasciando intravedere un potenziale che rimasto parzialmente inespresso, anche se poi approfondito nel disco successivo. Le ballate come “It’s About Time” e “There Was a Time (The Storm)”, come già detto, mettono in risalto il lato più emotivo e romantico della band, con le melodie delle tastiere che si fondono perfettamente con la voce di Keeling, creando un’atmosfera intensa ed ammiccante.
“Shake Your Soul”, in sintesi, è un disco che cattura appieno la positività e l’energia dell’hard rock melodico. Anche nelle ballate più malinconiche, emerge sempre una luce in fondo al tunnel, come se ogni traccia ci spingesse verso un domani migliore. L’album trasuda spensieratezza e qualità, risultando perfetto per chi è innamorato dei suoni indimenticabili degli anni ’80. Esprime gioia di vivere, passione, adrenalina, velocità e l’entusiasmo di feste senza fine. Noi, che eravamo lì al tempo, ce ne siamo innamorati subito. E a chi oggi si fa conquistare dall’ennesima band svedese in stile revival, consiglio vivamente di rinfrescarsi la memoria con questo vero e proprio inno alla musica commerciale di quegli irripetibili anni.
15 Febbraio 2025 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1991
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C’era un tempo in cui tutto veniva vissuto con molta più leggerezza, dando più importanza alla sostanza che alla forma. Nel 1991, l’ondata grunge si stava abbattendo con furia sul music business mondiale, ma noi, amanti del rock e dell’hard rock melodico, o almeno io, pur osservando questo fenomeno di sbieco e con un certo scetticismo, mai avremmo immaginato che, nel giro di un anno, avrebbe soppiantato il nostro genere preferito nelle classifiche di vendita, relegandoci progressivamente a una posizione sempre più marginale e di nicchia.
Sinceramente, guardando i video su Videomusic e vedendo alternarsi, che so, i Giant con ‘Lost In Paradise’ e i Temple of the Dog con ‘Hunger Strike’, non mi sembrava affatto strano, né tantomeno un presagio di sventura, ma anzi un arricchimento culturale del panorama rock.
A dirla tutta, il grunge non mi è mai nemmeno piaciuto granché: i dischi che ho apprezzato e che possiedo si contano sulle dita di una mano. Tuttavia, non ho mai partecipato volentieri alla caccia alle streghe che identifica la nascita di quel genere come la morte dell’hard rock, perché, a mio avviso, si confonde il sintomo con la malattia. In realtà, è stato il sistema discografico americano a puntare sul grunge come fenomeno di massa su cui concentrare gli sforzi promozionali, giudicandolo in quel momento assai più redditizio rispetto a ciò che aveva proposto fino ad allora. Salvo poi abbandonarlo dopo pochi anni per virare su altro, in un triste ciclo che punta solo al business, lasciando l’arte in secondo piano.
Tutta questa pappardella serve a ‘giustificare’ la presenza di questo disco nella nostra sezione classici, affinché nessuno gridi allo scandalo per la presenza di un disco grunge tra i classici del nostro sito. Tanto più che ‘Temple of the Dog’ non è affatto un disco grunge, o almeno non lo è per la maggior parte, ma è semplicemente un grande disco rock realizzato da musicisti che hanno partecipato attivamente, anche nella loro migliore incarnazione, alla scena di Seattle. E per me, questo basta ad includerlo tra i nostri classici.
L’idea di “Temple of the Dog” nasce dal profondo dolore di Chris Cornell, storico cantante dei Soundgarden e compagno di stanza di Andrew Wood, frontman dei Mother Love Bone. Scosso dalla tragica morte dell’amico, Cornell scrive due brani in suo onore: “Say Hello 2 Heaven” e “Reach Down”. Per realizzare questo progetto, Cornell si circonda di musicisti legati a Wood: Stone Gossard e Jeff Ament, ex membri dei Mother Love Bone, Mike McCready, chitarrista, e Matt Cameron, batterista dei Soundgarden (che in seguito entrerà anche nei Pearl Jam). Un altro volto familiare della scena musicale, Eddie Vedder, all’epoca nuovo cantante dei Pearl Jam, partecipa come guest vocalist, contribuendo ai cori e duettando con Cornell in “Hunger Strike”. Questo brano segna uno dei primi momenti significativi nella carriera di Vedder, che considererà sempre “Hunger Strike” una delle canzoni più importanti della sua carriera.
“Temple of the Dog” non è solo il risultato di un dolore profondo, ma anche di un’amicizia che trova la sua massima espressione nella musica. Registrato in soli quindici giorni a Seattle, l’album cattura l’essenza di un momento irripetibile, dove il dolore si sublima in arte. Come accennato, definire “Temple of the Dog” unicamente come un album grunge sarebbe limitante. Pur essendo radicato nella scena musicale di Seattle, il disco abbraccia anche influenze che vanno oltre i confini del genere, come il blues e il soul, in particolare nelle ballate, che conferiscono un’anima calda e malinconica all’album. La pesantezza tipica dei Soundgarden si fonde perfettamente con la melodia dei Pearl Jam, creando un suono unico che trascende il tempo e il genere, e ciò risulta assolutamente evidente analizzando le canzoni.
L’album si apre con “Say Hello 2 Heaven”, una canzone che avvolge l’ascoltatore come un abbraccio di luce. La voce di Chris Cornell, limpida e potente, trova la sua perfetta compagna nella melodia, creando un equilibrio che naviga tra intensità e delicatezza, come un fiume che scorre placido sopra una roccia levigata dal tempo. Il viaggio prosegue con “Reach Down”, un’epopea musicale che si estende per oltre undici minuti, trasportando chi ascolta in un paesaggio sonoro che alterna blues psichedelico e libertà improvvisativa. Ogni nota sembra respirare, ogni riff di chitarra dipinge una storia che prende forma mentre ascoltiamo. Poi arriva “Hunger Strike”, il cuore pulsante dell’album, con il duetto tra Cornell e Vedder che esplode come un temporale estivo, improvviso e potente. Le loro voci si intrecciano come due forze naturali, ognuna combattendo per emergere, ma poi unendosi in un coro che diventa il grido di una generazione che chiede di essere ascoltata.
Con “Pushin’ Forward Back”, l’energia cresce, il ritmo accelera come un treno in corsa che non si ferma mai. Il basso, incisivo e tagliente, spinge il brano in avanti, mentre la voce di Cornell, calda e blues, infonde nuova vita al pezzo. “Call Me a Dog” è un anfratto di malinconia, una ballata intima ed emozionale dove il piano e la chitarra si uniscono delicatamente, raccontando di dolori e speranze. L’assolo di chitarra finale esplode come una luce nel buio, lasciando una scia indelebile nel cuore. “Times of Trouble” ci trasporta in un mondo tormentato, dove l’armonica di Cornell evoca immagini di desolazione e ricerca di redenzione. Ogni respiro, ogni nota, sembra raccontare una lotta interiore tra luce e tenebre.
“Wooden Jesus” è un gioco di ritmi e suoni inaspettati. Le percussioni si intrecciano con l’assolo di chitarra wah-wah, creando una danza sonora che sembra oscillare tra il sacro e il profano. Il banjo aggiunge una dimensione rustica e fresca, che sorprende e affascina allo stesso tempo. “Your Saviour” esplode come un vulcano di energia, un brano che si muove tra ritmi funky e una forza travolgente, come un uragano che spazza via ogni dubbio. Con “Four Walled World”, l’album entra in un territorio psichedelico. La chitarra slide si snoda come un sogno che si allunga nel tempo, mentre le armonie vocali, dolci e malinconiche, creano una sensazione di sospensione, come se il mondo intero si fermasse per un istante. Infine, “All Night Thing” ci guida verso una quiete profonda, un’ultima riflessione che scivola delicatamente verso la pace. L’organo Hammond arricchisce la traccia con un respiro soul che chiude il viaggio musicale con una sensazione quasi di serenità.
A ulteriore conferma del fatto che “Temple of the Dog” ha un legame solo formale con la scena grunge, il suo iniziale insuccesso commerciale è significativo. Il vero successo dell’album è arrivato in seguito, grazie alla crescente notorietà dei Soundgarden e dei Pearl Jam, che ha portato alla riscoperta del disco, rendendolo un classico. Oggi, ‘Temple of the Dog’ è venerato come una testimonianza indelebile della scena musicale di Seattle, oltre a rappresentare un tributo commovente a un artista scomparso prematuramente, creato da un altro grande talento che, tristemente, ci ha lasciato anch’egli troppo presto.
In conclusione, “Temple of the Dog” è un album imprescindibile per chiunque apprezzi la musica autentica e carica di emozioni, al di là delle etichette di genere.
10 Febbraio 2025 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Una di quelle cassette che ho letteralmente fuso nel walkman durante il tragitto per la scuola sull’autobus, nel vasto e mutevole panorama dell’hard rock di fine anni ’80 e inizio ’90, è senz’altro l’omonimo disco dei Sons of Angels. Pubblicato l’11 maggio 1990 sotto l’etichetta Atlantic Records, questo lavoro rappresenta un’eccellente fusione tra hard rock, AOR e sfumature funky. Purtroppo, fu penalizzato da una promozione carente e dalla sciatteria imperdonabile delle major di allora. Nonostante ciò, c’erano tutti i presupposti per il successo, a partire dall’immagine della band e dalla caratura dei musicisti
Se leggete i miei scritti, saprete certo del mio complicato rapporto con la scena scandinava. Riconosco l’enorme esplosività della scena, ma spesso la critico per un’eccessiva omologazione. Pertanto, quando una band scandinava riesce a rompere gli schemi, è quasi sempre un crack assoluto. I Sons of Angels nascono in Norvegia, ma la loro anima musicale è profondamente americana. La band ottenne un contratto con Atlantic Records dopo un viaggio di dieci giorni a Los Angeles con un demo in mano – un vero e proprio ‘Viaggio alla ricerca dell’oro’, come lo ha definito il frontman Hans-Olav Solli. Il loro sound conquistò per la freschezza e l’energia che sprigionava, combinando riff potenti, tastiere avvolgenti e melodie accattivanti. I Sons of Angels si distinguono per un approccio personale e un gusto raffinato per le contaminazioni funky, elemento che valse loro l’ironica definizione di ‘funkin’ and frenzin’ from the fjords’. Ricevettero addirittura proposte da tre etichette diverse: MCA, Atlantic e Warner.
Un elemento chiave del sound dei Sons of Angels è l’elevato livello tecnico dei suoi musicisti. La voce di Hans-Olav Solli, ruvida e distintiva, si muove con naturalezza tra tonalità pacate e acuti incisivi, adattandosi perfettamente al mix di hard rock e melodia della band. Il basso dinamico di Torstein Bieler e la chitarra ispirata di Staffan William-Olsson aggiungono profondità e carattere alle composizioni, arricchendole con varietà tecnica e un’energia vibrante.
L’album si apre con “Cowgirl”, un autentico inno hard rock, perfetto per i club di Los Angeles. Nonostante il supporto di un videoclip, il brano non ha ottenuto il successo sperato, ma resta uno dei momenti più iconici del disco. “Spend the Night” segue con un groove coinvolgente e una sezione centrale che invita al ballo, mentre “Trance Dance” e “Fight” esaltano l’anima più funky della band. In particolare, “Fight” si distingue per una lunga sezione strumentale, in cui emergono chiaramente le influenze di Prince.
Tra i passaggi più interessanti spicca “Look Out for Love”, un mix ben calibrato di AOR e funk, mentre “Rock ‘n’ Roll Star” sprigiona un’energia classica con richiami a Faster Pussycat. “Fly”, invece, abbraccia melodie ariose che evocano le radici scandinave del gruppo.
Le ballad “Lonely Rose” e “Could It Be Love” aggiungono profondità emotiva all’album, perfette da cantare a squarciagola, accendino al vento. Chiude il trittico più intimo “Would You Die for Me?”, una traccia pervasa da malinconia e da un’anima profondamente zeppeliniana, intensa e spirituale.
Nonostante un potenziale indiscusso, la scarsa promozione da parte di Atlantic Records e l’onda del grunge hanno spento prematuramente le speranze di successo della band. La rottura con l’etichetta nel 1991 e la conseguente dispersione dell’album nei circuiti a basso costo hanno reso ‘Sons of Angels’ un piccolo culto per intenditori. Pensare che questo disco, con più di 150.000 copie vendute, sia stato considerato un insuccesso, farà piangere lacrime insanguinate alle band odierne. Tuttavia, è utile per capire i diversi ordini di grandezza del music biz di allora in confronto a quello odierno.
La band ha tentato un ritorno nel 2001 con “Slumber with the Lion”, una raccolta di brani registrati in periodi diversi, ma il progetto non ha avuto il riscontro sperato.
Nonostante la sfortuna, l’album dei Sons of Angels resta un esempio brillante di melodic rock, capace di unire energia, groove e raffinatezza compositiva. Una perla nascosta che ogni appassionato del genere dovrebbe riscoprire.
01 Febbraio 2025 1 Commento Samuele Mannini
genere: Hard Rock/AOR
anno: 1987
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Gli Shy sono un esempio emblematico di come molte band inglesi degli anni ’80 abbiano cercato di conquistare il mercato musicale statunitense durante l’era dell’hard rock. Nonostante il loro talento e la loro energia, come molti altri gruppi, hanno incontrato difficoltà nel mantenere una presenza stabile negli Stati Uniti. Questo fenomeno era comune a molte band che, pur avendo successo in Europa, trovavano il mercato americano particolarmente competitivo e difficile da penetrare, e si possono citare altri esempi, come Thunder e FM.
Non possiamo dimostrare se ciò fosse dovuto al fatto che le band britanniche portavano con sé un certo ‘sapore’ culturale, che poteva non risuonare immediatamente con il pubblico americano, abituato a modelli e riferimenti differenti, o all’ostracismo delle major discografiche, quasi tutte americane, che tendevano a promuovere maggiormente le band locali. Tuttavia, questo fenomeno ha reso estremamente difficile per le band inglesi ottenere riconoscimenti oltreoceano, portandole spesso a conformarsi a tendenze musicali non sempre in linea con la loro identità artistica.
Gli Shy si erano però ben preparati a tentare lo sbarco, e infatti la scelta di avvalersi di songwriter come Michael Bolton e Don Dokken appariva adeguata per sdoganare il British sound nelle Colonies. C’è da dire che nessuno sforzo era stato lesinato nemmeno nella impeccabile produzione, curata da Neil Kernon, e nella qualità sia delle composizioni sia delle esecuzioni.
Dopo gli esordi con “Once Bitten…Twice…Shy” (1983) e “Brave The Storm” (1985), la band ha dunque pubblicato quello che è considerato il loro capolavoro, presentando un AOR robusto e moderno, con un mix di hard rock melodico e influenze classic metal. Musicalmente parlando, la chitarra di Steve Harris è melodica e precisa, e si sposa alla perfezione con la voce di Tony Mills, che ha un po’ il timbro di Geoff Tate, con quella potenza e quella profondità emotiva. La sua malinconia aggiunge un tocco speciale sia nei pezzi più energici che nelle ballad. In più, le tastiere di Paddy McKenna fanno un lavoro incredibile, creando atmosfere epiche e quasi da film di fantascienza, che danno una marcia in più al sound.
Il disco si distingue per una serie di brani significativi che mostrano la versatilità della band. “Emergency” apre con un potente equilibrio tra chitarre e synth, scritto in collaborazione con Michael Bolton. Tra le tracce più memorabili c’è “Break Down The Walls”, scritta con Don Dokken, che emerge come la hit dell’album, grazie a un riff irresistibile e a un’atmosfera tipica degli anni ’80. “Young Heart” porta un tocco di AOR con melodie sinuose e un ritornello che rimane impresso, mentre “Devil Woman”, una rivisitazione in chiave melodic hard rock della celebre canzone di Cliff Richard, si fa notare per i cori irresistibili e i riff corposi. A completare il quadro, “When The Love Is Over” è una ballad strappalacrime, arricchita da soavi accompagnamenti di tastiera, e viene considerata una delle ballad AOR più belle di tutti i tempi. Questa lista di brani dovrebbe essere già sufficiente a farvi correre a comprare “Excess All Areas”, qualora non lo abbiate già, ma sono sicuro che a nessuno dei nostri lettori manchi questo disco nella propria collezione.
Stiamo dunque parlando di un vero e proprio oggetto di culto per gli amanti dell’AOR, grazie alla sua qualità musicale e alla sua energia. Lo considero un punto di riferimento per il genere e uno dei tanti esempi di come il rock britannico possa competere con quello americano, a volte superandolo grazie a quel tocco british che magari fa storcere il naso agli americani, ma che denota un background culturale che oltreoceano possono solo sognare. Nonostante la scomparsa di due membri chiave, Steve Harris e Tony Mills, l’eredità degli Shy e di “Excess All Areas” rimane intatta. Questo lavoro è un vero gioiello per chi ama l’AOR e il melodic hard rock, un esempio di come passione e talento possano creare un’opera d’arte senza tempo.
Se amate l’AOR con una marcia in più, “Excess All Areas” è un acquisto obbligato.
31 Gennaio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock/AOR
anno: 1990
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Ancora un disco del 1990? Eh sì, non so se avete notato cosa diavolo è uscito nei primi tre anni dei famigerati Nineties in ambito Hard Rock, AOR ed affini. Come se fossero gli ultimi istanti di un amplesso, tutto il carico maturato nel decennio precedente è stato rilasciato in un estatico e pirotecnico finale, prima di abbandonarsi allo sfinimento e alla stanchezza post-coitale. Questi tre anni meriterebbero una retrospettiva particolareggiata e approfondita… e non è detto che prima o poi non mi decida a farla, ma nel frattempo occupiamoci dei Beggars & Thieves.
Nel 1990, mentre il grunge iniziava a farsi strada, i Beggars & Thieves pubblicavano il loro album di debutto omonimo, un gioiello di hard rock/AOR che, ovviamente dato il periodo, non ottenne il successo meritato. Questo disco, uscito per Atlantic, si rivela ancora oggi un capolavoro per gli appassionati del genere, un vero e proprio baluardo dell’hard rock più evoluto e variegato partorito in quegli anni. La band, composta da Louie Merlino alla voce, Ronnie Mancuso alla chitarra, Phil Soussan al basso e Bobby Borg alla batteria, vantava già un pedigree di tutto rispetto, con membri che avevano suonato con leggende come Jimmy Page, Ozzy Osbourne e Dio.
L’album si apre con “No More Broken Dreams”, un brano che parte con un’intro orientaleggiante (chi ha detto Kashmir?), per poi esplodere in un hard melodico di grande impatto. La voce di Merlino, che a grandi tratti può essere sintetizzata in un misto tra Paul Stanley e Robert Plant, guida l’ascoltatore attraverso un viaggio sonoro che mescola influenze classiche con un tocco assai più personale. In “Billy Knows Better” si viene incalzati da un riff chiaramente zeppeliniano e un assolo bluesato, mentre “Waitin’ For The Man” introduce un blues elettrico con un refrain ai limiti del glam. “Your Love Is In Vain” è un mid-tempo lento e intenso, impreziosito da timbriche di chitarra sature, ma con un coro che non avrebbe sfigurato su un disco del Michael Bolton più pop, mostrando la versatilità della band.
“Isn’t It Easy” e “Let’s Get Lost” mantengono alta la qualità, con atmosfere che richiamano più quell’AOR maturo proposto in quegli anni anche dai Giant. “Heaven & Hell” è caratterizzata da un riffing più funky ma con un’anima blues che viene sfoderata nel solo di chitarra. In “Love Junkie” spunta l’onnipresente (ai tempi) penna di Desmond Child, ed ecco che si punta sul ritornello catchy ed anthemico, che solo due o tre anni prima sarebbe valso la top di Billboard. “Kill Me” è l’immancabile power ballad intensa e strappamutanda con la quale noi giovinastri dell’epoca tentavamo di far colpo sulle pulzelle ancora in qualche modo attratte dal rocker romantico. “Love’s A Bitch” è un glam losangelino quasi da manuale, con un riff poderoso e un cantato ammiccante. La title track “Beggars and Thieves” conclude infine l’album con una gradevole ballad semi-acustica.
La produzione di Steve Thompson e Michael Barbiero è ovviamente impeccabile e dona all’album un suono potente e definito, che ai giorni nostri esiste solo nel mondo dei sogni. Gli arrangiamenti sono semplici e di buon gusto, assolutamente mai banali, miscelando le atmosfere del rock americano con toccate di blues ed echi glam. Il risultato è un sound riconoscibile ma assolutamente unico. Ogni brano è curato nei minimi dettagli, con riff immediati ma eclettici, assoli chirurgici e melodie accattivanti. Le ballate, inoltre, non seguono i soliti cliché ma puntano tutto sul sentimento, generando un pathos che non può lasciare gli ascoltatori indifferenti.
Nonostante l’evidente qualità, l’album non ricevette l’attenzione che meritava, creando una sorta di mistico alone di culto intorno alle copie di questo disco, specie in edizione vinilica.
In conclusione, Beggars & Thieves è un album che merita di essere riscoperto e apprezzato. È un vero peccato che una band di tale talento sia stata ignorata al momento della sua uscita. Questo disco è l’ennesima prova lampante di come la qualità non sempre trovi il giusto riconoscimento. La band ha successivamente sfornato negli anni altri lavori di spessore, dando prova di una straordinaria resilienza al tempo che passa, ma inutile dirlo: la magia che era presente qui è semplicemente irripetibile, perché figlia di un’epoca ormai passata.
29 Gennaio 2025 1 Commento Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Correva l’anno 1990 e il mondo del rock si trovava a un bivio. Il grunge iniziava a ribollire nel sottobosco di Seattle, mentre il glam metal, ancora aggrappato ai suoi eccessi fatti di capelli cotonati, riff roboanti e testi sfacciati, stava vivendo i suoi ultimi lampi di gloria. In questo scenario, che destino poteva avere una band che suonava il genere ‘sbagliato’ e che addirittura proveniva dal lato ‘sbagliato’ degli USA? Ecco a voi una band che ha brillato per un solo intenso attimo, i Trouble Tribe.
Il loro unico album omonimo, pubblicato dalla Chrysalis Records, è un concentrato di energia, melodia e virtuosismo. Una perla che, come spesso succedeva all’ epoca, non ha trovato il successo che meritava, ma che mi rimanda a quando la mattina sull’ autobus che mi portava alle superiori cantavo a squarciagola le canzoni di questo album tra lo sbigottimento generale degli astanti.
L’album si apre con una coppia di brani killer: “Tattoo” e “Here Comes Trouble”, entrambi accompagnati da videoclip martellanti su MTV, progettati per proiettare la band nell’olimpo dell’ hair metal. “Tattoo” è praticamente da manuale per il genere: apertura con voce synth di bonjoviana memoria, riff accattivante, ritornello irresistibile e una produzione scintillante. È uno di quei pezzi che ti immagini urlare con i finestrini abbassati, capelli al vento ovvero il biglietto per la gloria, purtroppo, mancata.”Here Comes Trouble”, tira fuori un’anima più sporca, con un groove cadenzato e pulsante che richiama i momenti migliori di band come i Ratt o Dokken. È un manifesto di ribellione che sembra perfetto per una generazione ancora affamata di edonismo. Ma i Trouble Tribe non sono solo una band da party e anthem da stadio. C’è una profondità sorprendente nel loro lavoro. Prendiamo “Gimme Something Sweet”, ad esempio. Con il suo intro bluesy, il brano si tuffa in territori inaspettati, dimostrando che i ragazzi non temevano di giocare fuori dal loro campo di comfort. Poi siccome il manuale del genere richiede una power ballad ecco che arriva “In The End”, ed è da applausi a scena aperta e accendino sventolante.E che dire di “Back To Wall”? Il suo assolo di chitarra, firmato da Adam Wacht, è un momento da brividi, di quelli che non avrebbero sfigurato in un album degli Whitesnake era Sykes. Per chi cerca pura adrenalina, “Boys Nite Out” è un inno al divertimento sfrenato, un invito a vivere la notte al massimo. È il tipo di canzone leggera e danzereccia che trasuda energia da festa, il carburante perfetto per un weekend senza fine.
Ma l’album non è tutto luci stroboscopiche e sorrisi smaglianti. “Tribal Beast”, un brano strumentale, introduce un’atmosfera più oscura, quasi inquietante. È un cambio di registro che prepara il terreno per la potente “Red Light Zone”, un pezzo che picchia duro senza rinunciare alla melodia. “(Angel With A) Devil’s Kiss” chiude il cerchio, con un sound tagliente e ruvido che riporta alla mente i Dokken più aggressivi.
Nel bel mezzo di questo caleidoscopio di riff e adrenalina, spunta una cover inaspettata: “Dear Prudence” dei Beatles. Una scelta coraggiosa e quasi spiazzante per una band glam, ma che dimostra il coraggio dei Trouble Tribe. Pur non raggiungendo le vette dell’originale, questa reinterpretazione conferisce al brano una personalità nuova e un’intensità che lo rende una chicca interessante. Il disco si chiude con “F’s Nightmare”, un breve strumentale che lascia l’ascoltatore con la voglia di voler ricominciare tutto da capo.
Uno degli aspetti più eclatanti di questo album è la produzione, impeccabile e tipica degli anni ’80, con un mix pulito che esalta le performance della band, cose che, ai giorni nostri, possiamo soltanto ricordare con nostalgia.
Per quanto riguarda l’esecuzione, Jimmy Driscoll, con la sua voce potente ed espressiva, riesce a passare senza sforzo da momenti graffianti a toni più morbidi e sentimentali, mentre Adam Wacht, alla chitarra, firma riff catchy e graffianti ed assoli che strizzano l’occhio ai grandi virtuosi dell’epoca.
La sezione ritmica, composta da Eric Klaastad al basso e Stephen Durrell alla batteria, fornisce una base solida e dinamica che regge il peso di ogni traccia.
Purtroppo, i Trouble Tribe non sono mai riusciti a raggiungere il successo che meritavano. Forse il declino dell’ hair metal, forse una promozione poco incisiva o semplicemente il tempismo sbagliato li hanno relegati a un ruolo di culto. Eppure, a distanza di trent’anni, il loro album conserva tutta la freschezza e l’energia di allora. È un disco che cattura lo spirito dell’epoca nella sua forma più pura e se sei un fan del genere o semplicemente un amante delle gemme sepolte, i Trouble Tribe meritano una bella rispolverata, e poi ditemi che una copertina del genere non invoglia all’acquisto 😉 .
Dopotutto, la vera grandezza non ha bisogno di classifiche per brillare. I Trouble Tribe ne sono una prova vivente.
05 Gennaio 2025 5 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Metal
anno: 1995
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Negli anni ’90, le uscite di AOR e Hard Rock melodico si trovavano col lumicino, quindi, sentendomi in carenza di nuovi dischi, cercavo nei versanti più melodici del metal per trovare qualcosa che stimolasse la mia voglia di scoperta. Erano gli anni del power metal e il panorama musicale del 1995 seguiva molto questo filone. Nel frattempo, mi ero votato parecchio al sound degli Stratovarius quando vidi su Flash una recensione, scritta da tal SN, di uno sconosciuto (almeno a me) gruppo danese, a cui avevano assegnato un roboante 90. La recensione (di cui conservo un ritaglio) citava Queen, Styx e Symphony X, con commistioni tra musica classica e metal nordico, ingredienti perfetti per accendere la mia curiosità.
Moving Target rappresenta l’album della svolta per i Royal Hunt. Nei precedenti lavori, la band si muoveva in territori più vicini all’hard rock, integrando elementi sinfonici che, tuttavia, non venivano pienamente valorizzati. Questo scenario cambia radicalmente con l’arrivo del cantante americano DC Cooper, il cui timbro e straordinaria estensione vocale hanno permesso al gruppo di esplorare una direzione sonora più articolata e completa. Ne è risultato un sound che unisce elementi barocchi della musica classica, tanto cari al tastierista e songwriter André Andersen, a ritornelli memorabili, in grado di creare il perfetto hook per catturare l’audience giapponese. Non a caso, l’album ha riscosso un enorme successo in Giappone, vendendo oltre 200.000 copie.
Lungo l’intero disco si percepisce una raffinata fusione di influenze: dal metal melodico scandinavo agli arrangiamenti pomp, che arricchiscono il sound senza appesantirlo, donandogli una lucentezza abbagliante. A ciò si aggiunge un concept profondo e universale, che invita l’ascoltatore a riflettere su tematiche sociali, come il rapporto tra l’uomo e Dio, la violenza e la sofferenza, e la ricerca di un significato nella vita.
Anche la copertina dell’album ha una storia significativa: raffigura le rovine dell’Institut Jeanne d’Arc, una scuola cattolica francofona a Copenaghen distrutta accidentalmente durante un bombardamento della RAF nel marzo del 1945. Sebbene l’obiettivo del raid fosse il quartier generale della Gestapo, alcune bombe colpirono edifici vicini, tra cui la scuola. L’immagine riflette perfettamente il messaggio dell’album: nella vita, tutti siamo potenzialmente bersagli delle avversità.
Ogni brano è un viaggio emotivo, guidato dalla voce potente di D.C. Cooper e dagli arrangiamenti maestosi di André Andersen.
Si comincia con “Last Goodbye”, un uomo si ritrova solo, perso nell’incubo della dipendenza, con l’eco di un addio che risuona nella sua mente. La sua preghiera disperata, rivolta a un cielo che sembra distante, si leva come un ultimo barlume di speranza. Il brano si apre con un’introduzione orchestrale evocativa creata con la tastiera di Andersen, e culmina in un assolo mozzafiato che lascia un senso di struggente malinconia. La lettura del Padre Nostro lega questo “ultimo addio” con la seguente “1348”, un’ombra oscura si allunga sull’Europa, dove la peste nera miete vittime, trasformando città fiorenti in cimiteri silenziosi. La voce di Cooper si eleva in un lamento straziante, dipingendo un quadro apocalittico di un mondo in preda al caos. Le tastiere di Andersen creano un’atmosfera tetra e opprimente, amplificando il senso di tragedia.
“Makin a Mess” è una cavalcata che parla di un soldato catapultato nella battaglia e del suo animo, che si trova ottenebrato da questo incubo di violenza che prende il sopravvento su ogni cosa.
“Far Away” è una power ballad da manuale struggente inno a coloro che ci hanno lasciato troppo presto, celebrando così il legame eterno del sentimento.
“Step By Step” a dispetto del suo incedere allegrotto e funky, narra di un viaggio nel degrado a cui passo dopo passo, purtroppo, ci abituiamo.
“Autograph” è un brano strumentale dove Andersen sfoggia tutta la sua tecnica e le sue influenze e funge da intermezzo legandosi quasi naturalmente a “Stay Down” che si distingue per la sua spontaneità emotiva e la sua crudezza, riflettendo la disillusione e la disperazione raccontate nel testo.
Nell’inizio di “Give it Up” io avverto echi Queensrÿche, anche se poi la canzone si svolge con immediatezza riflettendo la disillusione che pervade il testo.
Chiude la trionfale cavalcata di “Time” che sintetizza gli elementi del metal più sinfonico presenti nel disco e l’eleganza delle melodie trattando del tempo e dell’uso non sempre ideale che gli esseri umani ne fanno.
Insomma, cosa volere di più nel 1995? Melodia, tecnica, arrangiamenti sublimi e un uso magistrale dei cori per un disco che non solo ha surrogato la carenza di rock melodico di quegli anni, ma ha anche aperto una nuova finestra su un genere meraviglioso. Un disco che ha avuto la capacità di unire sia il metallaro più duro che il meldiomane più accanito, ma in fondo so benissimo che piace anche a moltissimi di voi.
21 Dicembre 2024 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1987
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Come tutte le questioni trattate sull’italico suolo, quando si parla dei Dokken ci sono sempre i Guelfi e i Ghibellini, o nel caso specifico, gli ‘Attackisti’ e i ‘Lockiani’, ovvero chi preferisce “Back For The Attack” o “Under Lock And Key”. Cercherò di spiegare perché, per chi vi scrive, questo sia il disco migliore, cercando di uscire dalla lotta di fazioni per partito preso.
L’album si apre con la travolgente “Kiss of Death”. Fatico a ricordare un pezzo di apertura di un disco altrettanto efficace: un inno hard rock che affronta il tema dell’AIDS con un’intensità sorprendente per l’epoca. “Prisoner” è un brano più introspettivo, con un’atmosfera cupa e un assolo struggente di Lynch. “Night by Night” e “Standing in the Shadows” sono due inni hard rock energici, con riff accattivanti e melodie orecchiabili che danzano sul sottile filo che separa e allo stesso tempo unisce l’hard rock e l’heavy metal. “Heaven Sent” è una power ballad di grande impatto, con un’interpretazione vocale intensa di Dokken e un assolo di Lynch che bilancia potenza e melodia. “Mr. Scary”, la strumentale dell’album, è un’esplosione di virtuosismo chitarristico, con Lynch che si scatena in un vortice di assoli e riff complessi, dando sfoggio di tecnica e feeling.
L’album rimane un testamento del talento di un gruppo che, nonostante i suoi demoni interiori e qualche critica per la sua eccessiva lunghezza, ha saputo lasciare un segno indelebile nella storia dell’hard rock, coniando il sound tipico che sarà poi definito come Class Metal e al quale, da lì in avanti, miriadi di band si ispireranno.
Per chi scrive dunque, Back For The Attack resta il vertice artistico dei Dokken, capace di coniugare potenza, melodia, virtuosismo ed alcuni brani da tramandare alla storia. Ed è proprio questo equilibrio a renderlo superiore a Under Lock And Key, ma lasciamo pure che la battaglia tra ‘Attackisti’ e ‘Lockiani’ continui, perché comunque sia, entrambi rappresentano un’eredità indelebile nella storia del rock.