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22 Giugno 2025 1 Commento Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1972
etichetta:
ristampe:
Come si fa a non includere un disco dei Deep Purple nella nostra rubrica? Parlare di una band che ha dato origine all’hard rock come lo conosciamo oggi mi è sempre sembrato quasi obbligatorio. Il problema, però, è sempre stato uno: quale disco scegliere? È proprio questo dubbio che mi ha fatto rimandare più volte l’inserimento dei Purple. Da fan sfegatato degli Whitesnake, avrei potuto optare per Burn, oppure per In Rock, l’album che ha praticamente sdoganato il concetto di rock duro. Poi però ho avuto un’intuizione: perché non fare un’eccezione e inserire un live? Ho scelto dunque un live, quello che molti considerano il live per eccellenza. E se persino io, che non amo particolarmente i dischi dal vivo, lo propongo, significa che è davvero speciale.
Ora, so benissimo che probabilmente non dirò nulla di nuovo, e che su questo disco si sono già espressi praticamente tutti coloro che hanno scritto di musica, a qualsiasi livello. Proprio per questo, consapevole dell’impresa improba in cui mi sto cimentando, ho deciso di offrire semplicemente il mio umile contributo: una visione personale ed emozionale di ciò che un disco del genere può suscitare in chi, come me, si diletta a scribacchiare di musica.
Ci sono dischi che trascendono la semplice registrazione musicale per diventare vere e proprie esperienze: pietre miliari capaci di scolpire la storia di un genere. ‘Made in Japan’ dei Deep Purple, pubblicato l’8 dicembre 1972 è uno di questi. Universalmente celebrato come un capolavoro assoluto dell’hard rock e, senza troppo timore di smentita, considerato da molti il miglior album dal vivo di tutti i tempi, questo doppio LP cattura i Deep Purple al suo meglio: una band perfetta e all’apice della propria creatività ed assolutamente al top della forma.
Ascoltare ‘Made in Japan’, soprattutto, al giorno d’oggi è come assistere a un miracolo sonoro, un’istantanea fedele di un’epoca in cui la musica era un’arte superiore, per usare le parole di Roger Glover, era “il disco più onesto della storia del rock”, privo di sovraincisioni o trucchi da studio.
L’album nacque quasi per caso, su richiesta della casa discografica giapponese, che voleva un’esclusiva per il loro mercato. La band, inizialmente riluttante, accettò. Le registrazioni vennero effettuate in sole tre serate, dal 15 al 17 agosto 1972, tra il Festival Hall di Osaka e il Budokan di Tokyo, durante il tour di ‘Machine Head’. Quando i Deep Purple si ritrovarono ad ascoltare il materiale, capirono di avere tra le mani – citando Jon Lord – “qualcosa di meraviglioso”. ‘Made in Japan’ è un bellissimo scatto della band in tutta la sua gloria, che suona dal vivo, stimolandosi l’un l’altro”. La leggendaria formazione Mark II — Gillan, Blackmore, Glover, Lord e Paice — è considerata dai più la quintessenza dell’epoca d’oro della band.
‘Made in Japan’ fu anche uno dei primi album live ad ottenere un successo commerciale globale, raggiungendo le prime posizioni in Europa, Nord America e Australia. Le certificazioni parlano da sole: doppio platino in Argentina, platino in Austria, Germania e Stati Uniti, oro in Francia, Italia e Regno Unito.
Un disco che diverrà iconico a partire dalla copertina e una curiosità sulla copertina viene fornita da Phil Collen dei Def Leppard: “Ricordo quando presi ‘Made In Japan’ e guardando quella foto sul retro mi accorsi che ero io – il ragazzo biondo in piedi tra il pubblico, proprio davanti a Ritchie Blackmore. Pensai:« Ma non è il Giappone! Quello è Brixton!» Era il Brixton Sundown, poi conosciuto come l’Academy. Fu il primo concerto a cui sia mai andato, avevo 14 anni e riuscii ad arrivare proprio sotto il palco. Non suonavo ancora la chitarra, e fu proprio quello spettacolo, stare lì davanti al punto in cui Blackmore era sul palco, con la sua Stratocaster che brillava, mentre suonava tutte quelle cose che allora nessun altro faceva, che mi spinse a prendere in mano una chitarra e iniziare a suonare, letteralmente, il giorno dopo.”
Un elemento intrigante, e forse sorprendente, è che le tensioni ‘solistiche’ tra Ritchie Blackmore e Jon Lord finirono per elevare il livello delle loro esibizioni dal vivo, dando vita a una competizione creativa intensa e luminosa. Questo continuo confronto tra personalità forti e virtuosismi si trasformava in un’energia viva e travolgente durante i concerti. I Deep Purple avevano una dote rara: potevano dilatare i brani fino al limite senza mai perdere l’attenzione dell’ascoltatore, grazie a una combinazione magistrale di spontaneità e complessità sonora. Erano maestri del palcoscenico, con una presenza scenica imponente e inarrestabile.
Durante i concerti giapponesi del 1972 che diedero vita all’album ‘Made in Japan’, il supporto tecnico fu fondamentale per catturare la qualità e l’atmosfera di quelle performance live. I concerti furono registrati su nastro analogico a 8 piste, un formato che oggi può sembrare limitato, ma che all’epoca rappresentava lo standard per produzioni di alta qualità. Il tecnico responsabile fu Martin Birch, già collaboratore dei Deep Purple in studio, incaricato di registrare i tre concerti svoltisi a Osaka il 15 e 16 agosto e a Tokyo il 17 agosto. L’approccio alla microfonazione fu minimale ma estremamente strategico: per esempio, la batteria fu microfonata con pochi punti chiave, così da preservare l’ambiente naturale della sala. L’Hammond di Jon Lord venne invece registrato sia direttamente sia con microfoni ambientali per catturarne al meglio la presenza scenica. Un ruolo cruciale lo giocarono anche i tecnici locali giapponesi, spesso meno noti rispetto a figure come Birch, ma che si distinsero per la loro professionalità, precisione e competenza nella gestione dell’audio dal vivo e nell’assistenza logistica. I Deep Purple rimasero colpiti dalla loro efficienza, che contribuì in modo decisivo al successo delle registrazioni.
Per quanto riguarda i brani l’esibizione live dei Deep Purple si apre con la carica esplosiva di ‘Highway Star’, introdotta con la disarmante semplicità di Gillan che esclama “Okay, here we go”. Da lì in poi, è un tornado sonoro: l’assolo di Ritchie Blackmore è pura adrenalina, un concentrato di tensione e velocità che ricorda un cavallo imbizzarrito o una moto fuori controllo, anticipando lo spirito frenetico che sarà poi un cavallo di battaglia dell’Heavy Metal. Segue la monumentale ‘Child In Time’, dove Gillan si spinge oltre l’umano con vocalizzi lancinanti e una potenza emotiva che lascia il segno. La versione dal vivo si espande ben oltre l’originale in studio, trascinata da un riff micidiale e un crescendo epico.
‘Smoke On The Water’ brilla qui nella sua incarnazione probabilmente definitiva, con una resa impeccabile. Il contributo di Jon Lord si eleva sopra ogni aspettativa: le sue tastiere arricchiscono il celebre riff conferendogli profondità e autorevolezza.
Con ‘The Mule’, ispirata al potente mutante della saga della Fondazione di Asimov, è il batterista Ian Paice a prendersi il centro della scena. Il suo assolo è una masterclass di tecnica e sensibilità ritmica, che fonde l’energia del rock duro con raffinate sfumature jazzate. Nonostante un timbro leggermente ruvido, la sua esecuzione raggiunge vette di straordinaria maestria.
“Strange Kind of Woman” diventa il campo di battaglia sonoro tra Gillan e Blackmore, una sfida in cui voce e chitarra si rispondono, si rincorrono e si confondono, culminando in un urlo di dieci secondi che sfuma i confini tra umano e strumentale: un momento iconico e inimitabile.
In ‘Lazy’, l’introduzione d’organo di Jon Lord è una meraviglia di espressività: alterna suoni puliti e distorti con magistrale controllo, mentre Blackmore si diverte ad infilare citazioni ironiche come il motivetto de I tre porcellini. L’armonica di Gillan aggiunge un’insospettabile vena country, dimostrando la versatilità del gruppo.
Si chiude con “Space Truckin’”, che si dilata in una jam session spaziale di quasi venti minuti. Quel che comincia come un semplice brano rock si trasforma in un’odissea sonora organizzata e caotica allo stesso tempo, un vortice psichedelico che fonde improvvisazione e coerenza in un tessuto musicale avvolgente e travolgente, mostrando che dopotutto anche i Purple affondano le proprie radici in quel Prog rock inglese che alla fine degli anni 60 rivoluzionò il modo di fare musica.
‘Made in Japan’ è stato pubblicato in diverse edizioni nel tempo, ognuna con caratteristiche specifiche. L’edizione originale del 1972 uscì solo in Giappone come doppio LP con sette tracce dai concerti di Osaka e Tokyo. Poco dopo, tra il 1972 e il 1973, arrivò l’edizione internazionale per Regno Unito e Stati Uniti, identica nella selezione dei brani. Nel 1993 fu rilasciata una versione rimasterizzata in CD con audio migliorato, senza contenuti aggiuntivi. Il 1998 vide l’uscita di Live in Japan, un cofanetto triplo CD con i tre concerti integrali, mantenendo il mix originale. La Deluxe Edition del 2014 include quattro CD e un DVD con i concerti completi rimasterizzati e un documentario video. Infine, nel 2025 la Super Deluxe Edition per il 50° anniversario ha proposto 5 CD e Blu-ray (o 10 LP in vinile), con remix stereo e Dolby Atmos dell’ immancabile Steven Wilson, i concerti completi remixati, versioni rare e un Blu-ray con mix Atmos.
In definitiva, ‘Made In Japan’ non è solo un album, è un’esperienza che continua a essere fresca e vitale come sempre. È un must-have in qualsiasi collezione, una pietra miliare della storia del rock che ha fissato lo standard per tutti i live album a venire, sia per performance e per lunghi anni come tecnica di realizzativa ed ha eletto il Giappone a mo’ di patria del live di qualità, da qui in poi tantissime band andranno a registrare infatti i loro live album più prestigiosi proprio nel paese del sol levante È un album da avere, da ascoltare a palla, e da vivere e rivivere. La sua capacità di farci essere lì con loro nel 1972 è un testamento della sua immortalità.
17 Giugno 2025 3 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Strana la storia degli Eyes, considerati da molti critici dell’epoca autori di uno dei migliori dischi di class metal di sempre. Strana perché è stata una delle band più “saccheggiate” di talenti nella storia del genere. Nati nella scena underground di Los Angeles con il nome di L.A. Rocks, furono fondati dal batterista Aldy Damian. Pur riuscendo a costruirsi un buon seguito, non ottennero mai un contratto discografico stabile. Nel corso degli anni, il gruppo vide passare tra le sue fila musicisti di alto livello: basti pensare che la formazione originaria dei L.A. Rocks includeva Kelly Hansen alla voce, Steve Dougherty alla chitarra, Chuck Wright al basso e Aldy Damian alla batteria. Tuttavia, Hansen passò agli Hurricane e Wright ai Quiet Riot e poi agli House of Lords, costringendo la band a ripartire quasi da zero.
Nel 1987, ormai rinominati Eyes, erano vicini a firmare con la Capitol Records. Ma proprio allora, James Christian fu chiamato dagli House of Lords, e Jeff Scott Soto (che aveva già avuto esperienze precedenti con la band) fu richiamato come cantante. La beffa finale arrivò dopo l’uscita del disco: nonostante la qualità, il successo fu estremamente limitato e Marcel Jacob, che aveva suonato gran parte delle parti di basso nell’album, richiamò Soto (che già a quei tempi era impelagato in mille progetti) per cantare in pianta stabile nei Talisman, infliggendo così il colpo di grazia definitivo alle speranze di successo della band.
Strana anche perché, scaricati dalla Capitol, gli Eyes trovarono un contratto discografico con la Curb Records, un’etichetta dalle dimensioni assolutamente rispettabili, ma completamente dedita alla musica country, quindi del tutto impreparata a supportare la band a livello promozionale. La Curb operava infatti in circuiti musicali completamente diversi, e ciò rende ancora oggi un mistero condito da mille illazioni, la decisione di metterli sotto contratto. Forse la speranza era quella di allargare il giro d’affari verso sonorità allora in voga (anche se all’inizio degli anni Novanta le major già cominciavano a sentire l’odore dell’alternative e stavano mollando l’hard rock), oppure si trattò di una cessione da parte della Capitol a titolo, per così dire, risarcitorio. Fatto sta che, senza il supporto dell’etichetta e rivolgendosi a un circuito di vendita in gran parte estraneo, la band affondò rapidamente nell’oblio.
La qualità delle tracce è però fuori discussione, e l’opener “Callin’ All Girls” lo dimostra subito: un’esplosione di chitarre bluesy, cori stratificati e energia da arena rock. Il ritmo resta alto con “Every Single Minute”, una scintilla di metal californiano alla Ratt. “Don’t Turn Around”, primo lento e cover di Tina Turner, diventa una power ballad intensa grazie alla voce soul di Jeff Scott Soto. “Young and Innocent” conquista con un ritornello arioso su una base hard rock compatta, mentre “Nobody Said It Was Easy” è il momento più toccante dell’album, perfetto per mettere in mostra le doti vocali di Soto. “Start Livin’”, anthemico e trascinante, sembra chiudere il disco… ma una sorpresa attende l’ascoltatore (almeno nella versione in cd): “Somebody to Love”, eseguita a cappella da Soto è probabilmente un omaggio a Sam Cooke, e seppur non accreditata nella tracklist, è forse uno dei primi esempi di ghost track, almeno a mia memoria.
Insomma, un disco che sarebbe potuto diventare un caposaldo del genere, ma che le vicissitudini del music business di quei tempi hanno relegato ad oggetto di culto per gli appassionati del genere, e quindi da recuperare assolutamente.
05 Giugno 2025 2 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1990
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Questa è un’altra di quelle storie che ho già raccontato in passato: tutto comincia con il vastissimo catalogo del mailorder SweetMusic, dove, per appena 3.900 lire, acquistai a scatola chiusa un CD dalla copertina stravagante, con disegnata sopra una mucca. Non avevo la minima idea di cosa stessi comprando. L’altro giorno, avendo recuperato anche la copia in vinile (sempre a due soldi), ho pensato che fosse il momento perfetto per inserirlo nella rubrica delle “gemme sepolte”. Così ho deciso di proporvelo: sia a chi già lo possiede e vuole riscoprirlo dopo tanto tempo, sia a chi non lo conosce e magari vuole procurarsi un disco estremamente interessante per pochi spicci.
Nel 1990, Marc Jordan, artista canadese d’adozione con una reputazione già consolidata nella scena Westcoast, pubblicò il suo quinto album, intitolato semplicemente COW — acronimo di Conserve Our World. Alla luce di questo titolo, anche l’assurda copertina dell’album, raffigurante una mucca circondata da fiori, assume un significato completamente diverso, più simbolico e meno casuale di quanto potesse sembrare a prima vista. In un periodo in cui le classifiche erano dominate da sonorità pop e rock sempre più radiofoniche, Jordan decise di compiere una lieve deviazione dal suo stile tradizionale, abbracciando atmosfere più vicine all’AOR, pur mantenendo intatta la raffinatezza compositiva che lo ha sempre contraddistinto. Già autore stimato per grandi nomi come Cher, Joe Cocker, Rod Stewart, Chicago, Kenny Loggins e Diana Ross, e con due album cult alle spalle — ‘Mannequin’ (1978) e ‘A Hole in the Wall’ (1983) — Jordan, con COW, dimostrò ancora una volta la sua volontà di rinnovarsi, esplorando nuove direzioni sonore. Il risultato è un’opera che segna una tappa significativa nella sua carriera, grazie a una voce inconfondibile e a una scrittura capace di trasmettere storie ed emozioni con autentica sensibilità.
Il cambiamento di rotta introdotto da COW si percepisce fin dalle prime note di ‘Big Love’, un brano potente che, pur conservando la raffinatezza degli arrangiamenti tipici di Marc Jordan, mostra un’energia più marcata. Il pezzo è sostenuto da cori maestosi firmati da Billy Trudel, Stan Bush e Amy Sky, e ricorda per certi versi le vibrazioni di ‘This Independence’, ma con un impatto più deciso. Segue ‘Edge of the World’, che prosegue sulla stessa linea: una melodia solida, ben costruita, che cattura l’ascoltatore grazie a un equilibrio perfetto tra forma e intensità. Tuttavia, è con ‘Guns of Belfast’ che COW rivela una delle sue sfumature più sorprendenti. Il titolo stesso suggerisce atmosfere celtiche, e il brano non delude: una composizione avvolgente, quasi mistica, dove emerge con forza la sua capacità di trasformare la musica in un vero e proprio viaggio emotivo e sensoriale. Un altro dei momenti più caratterizzanti per il messaggio del disco è ‘Burning Down the Amazon’, in cui Jordan affronta un tema di (ancora) drammatica attualità: la deforestazione della foresta amazzonica. Il brano si distingue per l’intensità emotiva e per il contributo di un cast vocale d’eccezione — tra cui Richard Page, Timothy B. Schmit, David Batteau, Kevin Cronin, Bruce Gaitsch e Steve George. La sensibilità sociale e politica di Jordan, già evidente in altre sue opere, qui trova piena espressione, dando al disco una forte coerenza tematica.
Tutta l’opera assume così i contorni di un concept album non dichiarato, ma profondamente permeato da un’urgenza non solo ambientalista, ma anche morale, legando i brani non solo stilisticamente, ma anche a livello di contenuto e visione d’insieme. Stilisticamente parlando, Jordan dimostra la sua versatilità non solo nei brani più ritmati, ma anche nelle ballate più intime. ‘Silent Night’, scritta con Bruce Gaitsch, offre una vocalità potente e una profondità emotiva che lo differenzia dallo stile più distaccato degli album precedenti. Ancora più toccante è ‘Inside My Piano’, una composizione eseguita con solo voce e pianoforte che mette in evidenza la sensibilità espressiva dell’artista, trasformando il brano in un piccolo gioiello di delicatezza sonora. Il viaggio musicale si chiude con una reinterpretazione di ‘Can We Still Be Friends’ di Todd Rundgren. Sebbene diverse versioni di questo classico abbiano lasciato il segno nel tempo, la reinterpretazione di Jordan mantiene un fascino particolare grazie alla sua interpretazione vocale e all’apporto della chitarra di Gene Black, che aggiunge spessore al brano.
Dietro le quinte, COW si avvale di una produzione meticolosa curata da Kim Bullard, già al fianco di Jordan nel precedente ‘Talking Through Pictures’. La lista di collaboratori del disco è impressionante: Jordan (voce e piano) è affiancato da alcuni dei migliori chitarristi della scena, tra cui Steve Farris, Stuart Mathis, Gene Black, Danny Jacob, Doug Macaskill e Bruce Gaitsch. La sezione ritmica è solida grazie alla batteria di Billy Ward e Pat Mastelotto, mentre Kim Bullard e John Capek si alternano al basso e alle tastiere. Rick Sailon al violino ed Eric Williams al mandolino aggiungono un ulteriore livello di profondità agli arrangiamenti.
I cori, un elemento chiave dell’album, vantano la partecipazione di Billy Trudel, Stan Bush, Amy Sky, Mark Lennon, Michael Lennon, Kip Lennon, Oren Waters, Luther Waters, Kevin Dorsey, Renée Geyer, George Merrill, Richard Page, Shannon Rubicam e Timothy B. Schmit.
Nel complesso, COW è un album che, pur sperimentando nuove direzioni, mantiene intatta l’anima di Marc Jordan come cantautore ed in sostanza, è un disco corroborante e rassicurante che vi consiglio per i vostri momenti di relax, quando sentite il bisogno di mettere pace nella vostra anima.
02 Giugno 2025 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1990
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Come abbiamo ripetuto innumerevoli volte, il 1990 fu un anno particolare (quasi ironico) per le band che debuttavano restando fedeli al sound hard’n’heavy, trionfante negli anni ’80. Proprio mentre le case discografiche iniziavano ad indirizzare il pubblico verso sonorità più “alternative”, alcuni gruppi coraggiosi continuarono, almeno per un altro paio d’anni, a produrre autentici capolavori. Spesso trascurati all’epoca, questi dischi si sarebbero poi rivelati vere gemme, raggiungendo nel tempo lo status di opere di culto e riuscendo a tenere testa (in termini di qualità artistica) ai classici della cosiddetta “età dell’oro” dell’hard ottantiano. Gli Steelheart rientrano tra questi esempi, e il loro primo album omonimo ne è una testimonianza luminosa.
Uscito a cavallo tra il 1989 e il 1990, ‘Steelheart’ vide la luce proprio nel momento in cui l’hard rock da classifica, dopo aver dominato il decennio, stava iniziando a cedere il passo. Eppure, l’album si impose fin da subito come un punto di riferimento del genere, un lavoro da conservare con cura. Con un mix ben calibrato di pezzi energici e ballad emozionanti, la band seppe trovare una propria identità musicale, ispirandosi a gruppi come Whitesnake, Dokken, Def Leppard e persino Led Zeppelin per le venature più blues. Il risultato fu un disco difficile da ingabbiare in categorie rigide: rispettava le fondamenta del genere, ma aggiungeva un tocco distintivo. La produzione, estremamente curata e “imponente”, tipica di quel periodo, contribuiva a definire un suono tanto potente quanto elegante.
Il gruppo, proveniente dal Connecticut, era formato da Michael Matijevic alla voce, Chris Risola alla chitarra solista, Frank DiCostanzo alla seconda chitarra, Jim Ward al basso e John Fowler alla batteria. Quello che fin dalle prime note però colpisce subito è la voce di Matijevic, considerato alla stregua di un nuovo Coverdale e dotato di un’estensione vocale eccezionale, la sua voce sapeva essere tanto intensa e acuta quanto delicata, con una capacità impressionante di raggiungere note altissime al limite dell’ultrasuono e dotato di grande personalità interpretativa sia tecnica che emozionale. Altro talento degno di nota era Chris Risola che ci offriva una performance chitarristica virtuosa, ricca di assoli memorabili e tecnicamente brillanti.
Se proprio volessimo incasellare questo disco, potremmo considerarlo una sorta di summa del class metal proposto negli anni precedenti. Ogni canzone ha una propria forza e identità. Il brano di apertura, ‘Love Ain’t Easy’, cattura subito grazie agli acuti spettacolari di Matijevic e a un ritornello da arena rock. ‘Can’t Stop Me Loving You’ è un mid-tempo melodico che cresce d’intensità fino a un climax emozionante. Veniamo alle ballad: ‘I’ll Never Let You Go’ si distingue per la sua dolcezza struggente e il forte impatto emotivo, mentre, se non vi viene la pelle d’oca ascoltando ‘She’s Gone’, siete morti e non lo sapete ancora; canzoni così qualche anno prima sarebbero potute diventare vere e proprie hit da heavy rotation su MTV. ‘Everybody Loves Eileen’ è invece un brano robusto, carico di energia, con un ritornello immediato. Ma il pezzo più sorprendente è ‘Sheila’, la traccia più intrisa di blues dell’album: un chiaro omaggio agli Zeppelin, reinterpretati e proiettati vent’anni avanti. Con un’atmosfera sensuale e intensa, il brano si chiude con un duetto voce-chitarra tra Matijevic e Risola, che ricorda le atmosfere live dei Purple di ‘Made In Japan‘. Infine, impossibile non citare ‘Gimme Gimme’ e ‘Rock’N’Roll (I Just Wanna)’, che mostrano il lato più aggressivo e diretto della band.
Al di là dell’apprezzamento della critica (ricordo una recensione su Metal Shock da brividi) ‘Steelheart’ ottenne anche un riscontro commerciale più che discreto, arrivando fino al 14º posto nella classifica Billboard, conquistando il disco d’oro negli Stati Uniti e vendendo 33.000 copie in Giappone solo il giorno dell’uscita. Purtroppo, dopo questo exploit iniziale, la carriera della band subì una brusca frenata: da un lato, come detto, il cambio delle mode musicali, dall’altro un grave incidente sul palco nel 1992 mise temporaneamente fuori gioco Matijevic, compromettendo il futuro del gruppo.
Nonostante, quindi, le difficoltà e l’uscita in un momento complicato per il genere, ‘Steelheart’ resta una delle migliori espressioni dell’hard rock melodico di inizio anni ’90. Per gli amanti del genere o se disgraziatamente ve lo foste perso e volete aggiungere un piccolo grande classico alla vostra collezione, questo disco rappresenta una scelta eccellente. Un album che avrebbe meritato un destino ben più luminoso, ma che ancora oggi brilla come un faro nel panorama del rock melodico, in un’epoca in cui i riflettori stavano cominciando a spegnersi.
29 Marzo 2025 8 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 2004
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Se gli anni ’90 sono considerati il periodo nero dell’AOR, i primi anni del nuovo millennio sono stati forse ancora peggiori. Trovare un disco AOR era un’impresa quasi impossibile, nemmeno con il lumicino, e le poche uscite disponibili venivano distribuite da etichette microscopiche con un impatto pressoché nullo. Le riviste cartacee già scarseggiavano, mentre il web non era ancora sviluppato come oggi, rendendo gli incontri con le amate sonorità degli anni ’80 sporadici e affidati al caso. Gli appassionati si ritrovavano in incontri quasi clandestini, scambiandosi copie pirata scaricate da eMule, la cui provenienza era spesso ignota. Non si sapeva nemmeno se quei brani fossero realmente esistiti o se fossero semplicemente vecchie outtakes o bootleg di dubbia origine, innescando ricerche disperate ovunque per riuscire a mettere le mani sull’agognato CD, ammesso che fosse mai stato pubblicato… Fu proprio in questo modo che mi imbattei nei The Ladder: su un PC di un amico austriaco, da cui ero stato invitato a trascorrere qualche giorno. Per puro caso, aveva scaricato quel disco senza nemmeno sapere cosa fosse, convinto che appartenesse a tutt’altro genere, essendo lui più orientato verso il metal estremo. Successivamente, durante una gita nella vicina Germania, entrai in un negozietto che ancora oggi ricordo per quanto fosse stracolmo di CD AOR, Hard Rock, Heavy Metal e tutto il bendiddio possibile. Fu lì che riuscii a mettere le mani su Sacred, il capitolo successivo di questa band e, una volta compreso chi fossero realmente, arrivai finalmente a possedere anche il CD che oggi vi propongo.
I The Ladder rappresentarono infatti un tentativo di reunion degli FM, che però non andò a buon fine. Dopo lo scioglimento della band nel 1995, tra gli appassionati aveva iniziato a circolare l’idea di una possibile rinascita per l’inizio del nuovo millennio. Tuttavia, come spesso accade nel tortuoso mondo del rock, gli eventi presero una piega diversa, portando alla nascita di una nuova formazione.
Protagonisti del progetto furono due figure cardine degli FM: l’inconfondibile vocalist Steve Overland e il solido batterista Pete Jupp, affiancati dall’esperto bassista Bob Skeat (già membro degli FM e dei Wishbone Ash) e dal virtuoso Vinny Burns, storico chitarrista di Ten, Asia, Ultravox e Dare. A completare il quadro, la produzione venne affidata a Steve Morris (Heartland, Gillan, Shadowman – band in cui Overland aveva già collaborato con Morris), un nome che di certo non è indifferente gli amanti del genere.
Ma ‘Future Miracles’ è davvero il miracolo mancato degli FM o possiede una propria identità ben definita? La risposta non è semplice. È innegabile che lo spirito della band madre aleggi su gran parte del materiale, soprattutto considerando che molti brani affondano le radici in composizioni risalenti all’epoca d’oro degli FM, quel periodo magico che ha regalato gemme come ‘Indiscreet’ e ‘Tough It Out’. Pezzi come “Like Lovers Do”, “Closer To Your Heart”, “When Tomorrow Comes” e “Say It Like It Is” vengono proposti quasi nella loro veste originale dando soltanto una finitura più attuale, ma mantenendo intatto quel caratteristico feeling FM anni ’80 che tanto ci ha fatto sognare in quegli anni.
Musicalmente, l’album si muove su coordinate di melodic rock di elevata fattura. Lungi dall’essere l’hard rock “riff-oriented” promesso da alcune fonti, ‘Future Miracles’ si rivela un lavoro armonioso e ben prodotto, in cui le melodie vocali di Overland dominano la scena e dove ogni sua interpretazione è un piccolo gioiello, capace di impreziosire anche i passaggi meno ispirati.
La tracklist offre un’ampia gamma di sonorità, spaziando da ballate intense come “Do You Love Me Enough” a brani più ritmati e diretti. “Closer To Your Heart” è il perfetto esempio di melodic rock ben costruito, arricchito da un assolo di chitarra di Vinny Burns che, pur senza sfoggiare la sua tipica verve più “heavy” vista nei Ten, si limita ad infondere feeling e solidità rimanendo perfettamente in linea con lo stile AOR raffinato dell’album. “Baby Blue”, già pubblicata in una precedente incarnazione solista di Overland, assume qui una veste più eterea, con un maggiore risalto di tastiere e chitarre, rivelando un’inclinazione quasi perfetta per un passaggio radiofonico un pezzo perfetto per la radio, se solo queste avessero ancora trasmesso il genere. Il brano più “heavy” del lotto sembra essere “Say It Like It Is”, caratterizzato da un riff di chitarra incisivo e dall’interpretazione vocale di Overland, che in questo va citare vocalmente Paul Rodgers, evocando atmosfere a la Bad Company. Anche tracce come “Too Bad” e “When Tomorrow Comes” condividono questo feeling più rockeggiante, mettendo in luce la versatilità della band e la sua capacità di spaziare tra raffinate sonorità AOR e momenti più grintosi.
In definitiva, forse Future Miracles non è stato il “miracolo” hard rock che alcuni si aspettavano, ma ha avuto il grande merito di fare da ponte tra le due epoche degli FM e di lasciare acceso un lumino che ha guidato gli amanti del genere in quegli anni bui e carenti di melodia. Avendo da poco compiuto vent’anni, mi sembra giusto che trovi spazio nella nostra rubrica, dedicata ai capisaldi su cui ancora oggi poggia l’AOR.
16 Marzo 2025 3 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1981
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ristampe:
Il mio incontro con i Foreigner avvenne, come spesso accade, grazie a casuali ascolti radiofonici delle loro hit più celebri, come “Waiting for a Girl Like You” e “I Want to Know What Love Is”. All’epoca ero solo un bambino e, pur apprezzandole, non mi venne certo in mente di approfondire preso com’ero nel turbine della sperimentazione sonora. Nel 1991, però, dopo aver acquistato l’album degli Shadow King capitanati da Lou Gramm, la scintilla si accese di nuovo, facendomi iniziare il mio viaggio a ritroso alla scoperta di una band che senza dubbio possiamo considerare una delle capostipiti di quello che sarebbe stato definito il sound AOR per eccellenza.
Nati nella vivace scena rock newyorkese degli anni Settanta, i Foreigner si fecero un nome abbastanza in fretta, grazie a tre album ed un discreto successo nelle classifiche di Billboard, ma fu il 1981 a segnare un punto di svolta per il gruppo con l’uscita di “4”, quasi universalmente riconosciuto come la loro opera più significativa. Insieme ai coevi “Hi Infidelity” dei Reo Speedwagon ed “Escape” dei Journey, “4” va a formare il tris di dischi che senza dubbio segna la genesi del genere AOR nella sua definizione enciclopedica.
Il titolo “4” non solo segna il quarto lavoro in studio dei Foreigner, ma simboleggia anche una drastica riduzione della formazione, passata da sei a quattro membri dopo il licenziamento del tastierista Al Greenwood e del polistrumentista Ian McDonald, ex King Crimson. Questa decisione, voluta dal chitarrista e principale autore Mick Jones, segnò una svolta nella band, spostando l’asse creativo verso la sua visione musicale e quella del cantante Lou Gramm. La creazione di ‘4’ rappresentò una vera e propria maratona creativa per i Foreigner, un percorso che si snodò per dieci mesi tra intense sessioni di pre-produzione e registrazione. Ogni dettaglio sonoro fu scrutato con cura maniacale sotto la supervisione del produttore Robert John ‘Mutt’ Lange. Questa ricerca incessante della perfezione non solo spinse la band a superare i propri limiti, ma generò anche momenti di tensione durante il lavoro in studio. Mick Jones stesso rivelò di aver avuto accesi confronti con Lange, riflesso di una determinazione condivisa nel realizzare qualcosa di straordinario. E pensatela come vi pare, ma spesso la figura del produttore è stata cruciale nei dischi che hanno fatto la storia.
L’album si apre con “Night Life”, un brano ritmato e coinvolgente tratto dalle esperienze della vita notturna nella grande mela. Segue “Juke Box Hero”, caratterizzato da un’introduzione ipnotica con synth bass e una batteria pulsante che evolve in un ritornello esplosivo divenuto iconico. La canzone racconta la storia di un giovane che sogna di diventare una rock star dopo essere rimasto fuori da un concerto, un testo nato dall’unione di due idee separate di Gramm e Jones, poi amalgamate da Lange. “Break It Up” propone un rock più diretto, arricchito da riff incisivi e un pianoforte dinamico. “Waiting for a Girl Like You”, con le sue atmosfere eteree e la voce vellutata di Gramm, è diventata una delle ballad simbolo degli anni Ottanta. Il brano rimase per dieci settimane al secondo posto della classifica americana, senza mai raggiungere la vetta, cosa che invece successe qualche anno dopo al singolo “I Want to Know What Love Is”, per la serie… la vendetta è un piatto che va gustato freddo. Inoltre, la canzone fu inserita anche nella colonna sonora del videogioco GTA Vice City. “Urgent” è un mix esplosivo di rock pop dalle venature funky, reso inconfondibile dal riff di sintetizzatore e dal basso pulsante. L’elemento più distintivo è l’assolo di sassofono del leggendario Junior Walker, inizialmente esitante a registrare in studio, ma poi autore di una performance memorabile. “Urgent” si rivelò un successo immediato, dominando le radio FM. “I’m Gonna Win” è un hard rock energico con un arrangiamento avvincente, mentre “Woman in Black” mette in risalto le abilità chitarristiche di Jones con riff asciutti e armonie vocali profonde. “Girl on the Moon” si distingue per la sua atmosfera malinconica e sognante, caratterizzata da chitarre echeggianti e sintetizzatori delicati. Infine, con “Don’t Let Go”, si torna al rock vibrante ed essenziale, chiudendo in bellezza.
“4” ottenne un successo immediato, raggiungendo il primo posto nelle classifiche di Billboard per dieci settimane e ottenendo sei dischi di platino negli Stati Uniti. L’album si impose anche in Europa, conquistando posizioni di rilievo nelle classifiche del Regno Unito e della Germania. Rimane un’opera fondamentale degli anni Ottanta, un perfetto esempio di rock radiofonico raffinato e ricco di hit immortali. Grazie alla combinazione del talento compositivo di Mick Jones, della voce inconfondibile di Gramm e della produzione impeccabile di Mutt Lange, il disco fece entrare di diritto i Foreigner nella storia del rock e nell’olimpo dell’AOR.
04 Marzo 2025 5 Commenti Samuele Mannini
genere: Pop Prog Electronic Rock......
anno: 1982
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Probabilmente, per un disco del genere, dovremmo aprire la rubrica dei Super Classici, in quanto questo è un disco che travalica assolutamente ogni genere musicale ed è stato ascoltato e apprezzato dagli amanti di qualsivoglia estrazione musicale, oltre che da milioni di ‘casual listener’, in ogni più improbabile occasione, nell’arco dei suoi oltre 40 anni di vita.
Che sia o no il disco più bello a nome The Alan Parsons Project è una questione senz’altro opinabile, mentre l’unico fatto assolutamente certo è che è stato l’album più venduto, trasmesso e popolare di questo gruppo sui generis.
Era il 1975 quando due menti brillanti si incontrarono negli studi leggendari di Abbey Road. Da un lato c’era Alan Parsons, un giovane ingegnere del suono che aveva già avuto il merito di lavorare su un capolavoro come “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Un uomo abituato a stare dietro le quinte, ma con un grande sogno: quello di dar vita a un progetto che andasse oltre la semplice ingegneria del suono. Dall’altro, c’era Eric Woolfson, un cantautore e manager che aveva già esperienze nell’industria musicale. A differenza di Parsons, Woolfson voleva essere al centro della scena, con una visione artistica chiara, ma sentiva che qualcosa gli mancava per raggiungere il suo obiettivo. Fu così che i due si trovarono a condividere la stessa ambizione: quella di creare qualcosa di nuovo, di fuori dal comune. Non volevano fondare una band tradizionale, ma un ‘progetto’ musicale che unisse talenti diversi per ogni album, con tematiche profonde e ricercate. E così nacque The Alan Parsons Project.
Mentre i primi album erano più votati al progressive rock, sia come stile che ambientazioni tematiche, “Tales of Mystery and Imagination”, fu un viaggio affascinante attraverso l’opera di Edgar Allan Poe, un concept album che mescolava rock progressivo e atmosfere sinfoniche, mentre per esempio “I Robot“, si ispirava alla celebre saga fantascientifica di Asimov, in “Eye In The Sky” si prova a distaccarsi da un concept predefinito lasciando sullo sfondo una vaga tematica Orwelliana, ma affrontando l’opera come un insieme di canzoni a se stanti.
L’album fonde elementi del progressive con le sofisticate atmosfere art pop, dove pennellate rock si uniscono ad elementi tipici della musica elettronica, che al tempo cominciava ad essere in gran voga, tutto naturalmente poggiato su una qualità del suono impeccabile. I sintetizzatori e le programmazioni di Parsons creano ambientazioni suggestive e dettagliatissime, senza mai risultare eccessivi. Gli arrangiamenti orchestrali di Andrew Powell contribuiscono ad arricchire ulteriormente il suono, tanto è vero che nel 2019, per la sua edizione del 35º anniversario, ha ricevuto un Grammy Award nella categoria Surround Sound-Best Immersive Audio Album.
Potrebbe sembrare persino assurdo dover scrivere di un album del genere, ma tutte le volte che la puntina si posa su quei solchi, non posso fare a meno di pensare che questo disco debba essere presente sulla rubrica del nostro sito.
Con perle del calibro di “Sirius” e “Eye in the Sky”, dove la strumentale funge da introduzione sinfonica all’album, mentre l’emblematica title track esplora il tema della sorveglianza, con possibili interpretazioni che spaziano dalle telecamere di sicurezza nei casinò (cosa che dette a Woolfson l’idea per il titolo) alla visione onnisciente di un amante o addirittura di un governo. “Children of the Moon”, pezzo più pop/rock con influenze progressive, arricchito dagli arrangiamenti orchestrali di Andrew Powell. “Silence and I”, brano più orientato al prog dell’album: si apre e si chiude come una ballata, ma nella parte centrale offre una energica sequenza orchestrale. “Mammagamma” dove si vira su uno strumentale etereo, suonato quasi interamente con tastiere programmate al computer, richiamando lo stile di artisti di musica elettronica come Vangelis o Tangerine Dream. Infine, la conclusiva e soave “Old and Wise” crea un’atmosfera melanconica, dove la voce di Colin Blunstone e il solo di sassofono di Mel Collins aggiungono enorme profondità emotiva all’ascolto.
Insomma, un disco che non può assolutamente mancare in ogni bacheca di un amante della musica degno di questo titolo. In tutte le sue versioni ed edizioni, uscite in tutti i formati possibili, offre una produzione e un dettaglio sonoro unici, ponendosi come riferimento assoluto e facendo impallidire miseramente le cose che, ahimè, siamo costretti ad ascoltare al giorno d’oggi. Universale.
01 Marzo 2025 10 Commenti Samuele Mannini
genere: AOR
anno: 1987
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Prima di tutto, facciamo un paio di dovute premesse: 1) considero quest’uomo una delle cinque migliori voci che il mondo del rock abbia mai regalato al pianeta, e ammetto che, anche se incidesse un album di pernacchie, probabilmente mi piacerebbe comunque; 2) lo scioglimento dei Bad English è una ferita ancora aperta dopo più di trent’anni, e se al posto dell’ennesimo album dei sempre più inguaiati Journey ci fosse una reunion dei pessimi inglesi, finirei probabilmente arrestato per atti osceni in luogo pubblico mentre faccio l’elicottero nudo in piazza del Duomo.
La voglia di scrivere di questo disco è nata un paio di giorni fa, quando mi sono procurato una copia in vinile per la modica somma di 5 euro. Eh già, perché mentre il più noto “No Brakes” è presente da innumerevoli anni nella mia collezione, di “Rover’s Return” possedevo solo la copia della copia di una cassetta, registrata da un vinile, copiata su un cassettone pseudo hi-fi anni ’80 prestato da un amico… che al mercato mio padre comprò. E, sebbene all’epoca lo conoscessi praticamente a memoria, non mi ero mai preoccupato di procurarmi una copia fisica degna di tal nome. Ecco, mai affidarsi alla memoria e, soprattutto, agli ascolti fatti un milione di anni fa su supporti di qualità infima. Finalmente, dopo un’era, seduto in poltrona su un impianto hi-fi degno di questo nome e grazie a un vinile silenzioso e senza fruscii, ecco che ho visto la luce, e questa non è nient’altro che l’ennesima riprova di quello che ho sempre sostenuto: che un conto è sentire la musica, ben altro è ascoltarla. È stato come guardare la Gioconda dopo il restauro, con i suoi colori dell’epoca vivi e naturali, e non oppressi dal grigiore e dal deterioramento del tempo che passa.
Quello che ho notato è come questo disco sia il più vicino ai Bad English tra quelli prodotti dal vocalist britannico, tanto che ad occhi chiusi due o tre pezzi potrebbero persino sembrare degli outtakes del primo album della band.
“These Times Are Hard For Lovers”, co-scritta da Child, si rivela un brano super accattivante. “Don’t Lose Any Sleep”, firmata da Diane Warren, offre momenti di ispirazione melodica e forse pecca solo di un arrangiamento indeciso. Probabilmente, il problema del relativo insuccesso commerciale di questo disco è stato proprio il fatto che ha cercato di anticipare i tempi, cercando di mixare l’AOR con il piglio più energico dell’hard rock a stelle e strisce, finendo per restare un po’ in una terra di mezzo. L’operazione riuscirà perfettamente un paio di anni dopo ai Bad English, anche grazie al piglio più rock della chitarra di Neal Schon, ma questa è un’altra storia.
Tra le pieghe del disco si celano comunque gemme preziose, brani che mettono in mostra il talento di Waite e la sua abilità nel fondere rock e melodia. “Encircled” si distingue per il suo sound più grintoso e aggressivo, mentre “Woman’s Touch” ci culla con le sue linee di chitarra bluesy. “Sometimes” è una ballata intensa e toccante, tipicamente eighties, e “She’s The One” rappresenta un perfetto equilibrio tra aggressività rock e sensibilità pop, un brano che avrebbe meritato di scalare le classifiche radiofoniche.
In definitiva, “Rover’s Return” è un album che paga lo scotto di essere arrivato troppo presto, ma con i ‘se’ e i ‘ma’ la storia non si fa e probabilmente, anche grazie all’insuccesso commerciale, si è poi avuta l’unione tra Schon, Castronovo, Phillips, Jonathan e John che ha prodotto i due capolavori a nome Bad English. Invece, Rover’s Return resta un gioiello nascosto nella discografia di John Waite, un lavoro che merita di essere riscoperto e rivalutato in tutto il suo valore e potenziale.
25 Febbraio 2025 0 Commenti Samuele Mannini
genere: Melodic Hard Rock
anno: 1990
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I Baton Rouge furono un quintetto originario di Pearl River, Louisiana, fecero il loro ingresso nel panorama musicale nel 1990 con “Shake Your Soul”, un album che, pur senza ottenere subito un grande successo commerciale, è diventato nel tempo un vero oggetto di culto per gli appassionati dell’hard rock melodico. Pubblicato sotto l’etichetta Atlantic Records, il disco propone un hard rock potente e accattivante, in perfetto stile americano, sulla scia di band come Danger Danger, Firehouse e Winger.
Ma cosa distingueva questo ennesimo gruppo di belle speranze dalle decine, se non centinaia, di band che in quegli anni cercavano di farsi strada in una scena hard rock statunitense ormai ipersatura? La risposta ha un nome: Giacomo Pontoriero. Forse così non vi dirà molto, ma il suo pseudonimo, Jack Ponti, probabilmente vi accenderà qualche lampadina, riempiendo la vostra mente di motivetti super catchy.
Il recentemente scomparso Jack Ponti, deus ex machina dei Surgin e noto per le sue innumerevoli collaborazioni con artisti del calibro di Bon Jovi, Alice Cooper, Keel, Trixter, Nelson, Kane Roberts, Joe Lynn Turner e chi più ne ha più ne metta, ha saputo sublimare in questo album l’essenza di quello che io chiamo il ‘Sound Pontiano’, un marchio di fabbrica immediatamente riconoscibile. Insieme al suo fidato collaboratore Vic Pepe, Ponti si è qui occupato della co-scrittura, degli arrangiamenti e della produzione del disco, lasciando inevitabilmente la sua indelebile impronta.
Altro segno distintivo del disco è la voce di Kelly Keeling, un cantante che, pur non essendo un nome di primissimo piano, ha in seguito collaborato con artisti di rilievo come Blue Murder, Alice Cooper, MSG e Dokken. Keeling dimostra appieno il suo valore in brani di grande spessore come “Doctor”, “Big Trouble” e “Spread Like Fire”, dove si esprime senza riserve ed esplode come un vulcano di emozioni, fremendo e scalpitando, trascinando l’ascoltatore con una performance intensa, assolutamente all’altezza dei frontman delle band più blasonate dell’epoca. Inoltre, le sue interpretazioni nelle tracce dal romanticismo più acceso sono perfette per i cuori infranti e feriti dall’amore. La sua voce è vellutata nelle ballad, viscerale e graffiante nei brani più energici, evocativa e sprezzante, ma sempre perfettamente controllata e in linea con i canoni estetici dell’hard rock melodico più raffinato.
Brani come “Doctor”, “Walks Like a Woman” e “It’s About Time” possono considerarsi dei punti di forza dell’album, rappresentando pienamente l’anima del melodic rock degli anni ’80. “Walks Like a Woman”, in particolare, può essere considerata l’emblema del disco, grazie alle sue chitarre incisive, l’atmosfera ammiccante creata dalle tastiere e alla potente interpretazione vocale di Keeling. “Bad Time Comin’ Down” e “Baby’s So Cool” evocano l’energia tipica del Party Rock degli anni ’80, con un’atmosfera vivace e festosa che richiama la spensieratezza di quegli anni. “Melanie” e “Spread Like Fire”, invece, rivelano una sottile raffinatezza che mette in luce anche altre doti della band, lasciando intravedere un potenziale che rimasto parzialmente inespresso, anche se poi approfondito nel disco successivo. Le ballate come “It’s About Time” e “There Was a Time (The Storm)”, come già detto, mettono in risalto il lato più emotivo e romantico della band, con le melodie delle tastiere che si fondono perfettamente con la voce di Keeling, creando un’atmosfera intensa ed ammiccante.
“Shake Your Soul”, in sintesi, è un disco che cattura appieno la positività e l’energia dell’hard rock melodico. Anche nelle ballate più malinconiche, emerge sempre una luce in fondo al tunnel, come se ogni traccia ci spingesse verso un domani migliore. L’album trasuda spensieratezza e qualità, risultando perfetto per chi è innamorato dei suoni indimenticabili degli anni ’80. Esprime gioia di vivere, passione, adrenalina, velocità e l’entusiasmo di feste senza fine. Noi, che eravamo lì al tempo, ce ne siamo innamorati subito. E a chi oggi si fa conquistare dall’ennesima band svedese in stile revival, consiglio vivamente di rinfrescarsi la memoria con questo vero e proprio inno alla musica commerciale di quegli irripetibili anni.
15 Febbraio 2025 2 Commenti Samuele Mannini
genere: Hard Rock
anno: 1991
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C’era un tempo in cui tutto veniva vissuto con molta più leggerezza, dando più importanza alla sostanza che alla forma. Nel 1991, l’ondata grunge si stava abbattendo con furia sul music business mondiale, ma noi, amanti del rock e dell’hard rock melodico, o almeno io, pur osservando questo fenomeno di sbieco e con un certo scetticismo, mai avremmo immaginato che, nel giro di un anno, avrebbe soppiantato il nostro genere preferito nelle classifiche di vendita, relegandoci progressivamente a una posizione sempre più marginale e di nicchia.
Sinceramente, guardando i video su Videomusic e vedendo alternarsi, che so, i Giant con ‘Lost In Paradise’ e i Temple of the Dog con ‘Hunger Strike’, non mi sembrava affatto strano, né tantomeno un presagio di sventura, ma anzi un arricchimento culturale del panorama rock.
A dirla tutta, il grunge non mi è mai nemmeno piaciuto granché: i dischi che ho apprezzato e che possiedo si contano sulle dita di una mano. Tuttavia, non ho mai partecipato volentieri alla caccia alle streghe che identifica la nascita di quel genere come la morte dell’hard rock, perché, a mio avviso, si confonde il sintomo con la malattia. In realtà, è stato il sistema discografico americano a puntare sul grunge come fenomeno di massa su cui concentrare gli sforzi promozionali, giudicandolo in quel momento assai più redditizio rispetto a ciò che aveva proposto fino ad allora. Salvo poi abbandonarlo dopo pochi anni per virare su altro, in un triste ciclo che punta solo al business, lasciando l’arte in secondo piano.
Tutta questa pappardella serve a ‘giustificare’ la presenza di questo disco nella nostra sezione classici, affinché nessuno gridi allo scandalo per la presenza di un disco grunge tra i classici del nostro sito. Tanto più che ‘Temple of the Dog’ non è affatto un disco grunge, o almeno non lo è per la maggior parte, ma è semplicemente un grande disco rock realizzato da musicisti che hanno partecipato attivamente, anche nella loro migliore incarnazione, alla scena di Seattle. E per me, questo basta ad includerlo tra i nostri classici.
L’idea di “Temple of the Dog” nasce dal profondo dolore di Chris Cornell, storico cantante dei Soundgarden e compagno di stanza di Andrew Wood, frontman dei Mother Love Bone. Scosso dalla tragica morte dell’amico, Cornell scrive due brani in suo onore: “Say Hello 2 Heaven” e “Reach Down”. Per realizzare questo progetto, Cornell si circonda di musicisti legati a Wood: Stone Gossard e Jeff Ament, ex membri dei Mother Love Bone, Mike McCready, chitarrista, e Matt Cameron, batterista dei Soundgarden (che in seguito entrerà anche nei Pearl Jam). Un altro volto familiare della scena musicale, Eddie Vedder, all’epoca nuovo cantante dei Pearl Jam, partecipa come guest vocalist, contribuendo ai cori e duettando con Cornell in “Hunger Strike”. Questo brano segna uno dei primi momenti significativi nella carriera di Vedder, che considererà sempre “Hunger Strike” una delle canzoni più importanti della sua carriera.
“Temple of the Dog” non è solo il risultato di un dolore profondo, ma anche di un’amicizia che trova la sua massima espressione nella musica. Registrato in soli quindici giorni a Seattle, l’album cattura l’essenza di un momento irripetibile, dove il dolore si sublima in arte. Come accennato, definire “Temple of the Dog” unicamente come un album grunge sarebbe limitante. Pur essendo radicato nella scena musicale di Seattle, il disco abbraccia anche influenze che vanno oltre i confini del genere, come il blues e il soul, in particolare nelle ballate, che conferiscono un’anima calda e malinconica all’album. La pesantezza tipica dei Soundgarden si fonde perfettamente con la melodia dei Pearl Jam, creando un suono unico che trascende il tempo e il genere, e ciò risulta assolutamente evidente analizzando le canzoni.
L’album si apre con “Say Hello 2 Heaven”, una canzone che avvolge l’ascoltatore come un abbraccio di luce. La voce di Chris Cornell, limpida e potente, trova la sua perfetta compagna nella melodia, creando un equilibrio che naviga tra intensità e delicatezza, come un fiume che scorre placido sopra una roccia levigata dal tempo. Il viaggio prosegue con “Reach Down”, un’epopea musicale che si estende per oltre undici minuti, trasportando chi ascolta in un paesaggio sonoro che alterna blues psichedelico e libertà improvvisativa. Ogni nota sembra respirare, ogni riff di chitarra dipinge una storia che prende forma mentre ascoltiamo. Poi arriva “Hunger Strike”, il cuore pulsante dell’album, con il duetto tra Cornell e Vedder che esplode come un temporale estivo, improvviso e potente. Le loro voci si intrecciano come due forze naturali, ognuna combattendo per emergere, ma poi unendosi in un coro che diventa il grido di una generazione che chiede di essere ascoltata.
Con “Pushin’ Forward Back”, l’energia cresce, il ritmo accelera come un treno in corsa che non si ferma mai. Il basso, incisivo e tagliente, spinge il brano in avanti, mentre la voce di Cornell, calda e blues, infonde nuova vita al pezzo. “Call Me a Dog” è un anfratto di malinconia, una ballata intima ed emozionale dove il piano e la chitarra si uniscono delicatamente, raccontando di dolori e speranze. L’assolo di chitarra finale esplode come una luce nel buio, lasciando una scia indelebile nel cuore. “Times of Trouble” ci trasporta in un mondo tormentato, dove l’armonica di Cornell evoca immagini di desolazione e ricerca di redenzione. Ogni respiro, ogni nota, sembra raccontare una lotta interiore tra luce e tenebre.
“Wooden Jesus” è un gioco di ritmi e suoni inaspettati. Le percussioni si intrecciano con l’assolo di chitarra wah-wah, creando una danza sonora che sembra oscillare tra il sacro e il profano. Il banjo aggiunge una dimensione rustica e fresca, che sorprende e affascina allo stesso tempo. “Your Saviour” esplode come un vulcano di energia, un brano che si muove tra ritmi funky e una forza travolgente, come un uragano che spazza via ogni dubbio. Con “Four Walled World”, l’album entra in un territorio psichedelico. La chitarra slide si snoda come un sogno che si allunga nel tempo, mentre le armonie vocali, dolci e malinconiche, creano una sensazione di sospensione, come se il mondo intero si fermasse per un istante. Infine, “All Night Thing” ci guida verso una quiete profonda, un’ultima riflessione che scivola delicatamente verso la pace. L’organo Hammond arricchisce la traccia con un respiro soul che chiude il viaggio musicale con una sensazione quasi di serenità.
A ulteriore conferma del fatto che “Temple of the Dog” ha un legame solo formale con la scena grunge, il suo iniziale insuccesso commerciale è significativo. Il vero successo dell’album è arrivato in seguito, grazie alla crescente notorietà dei Soundgarden e dei Pearl Jam, che ha portato alla riscoperta del disco, rendendolo un classico. Oggi, ‘Temple of the Dog’ è venerato come una testimonianza indelebile della scena musicale di Seattle, oltre a rappresentare un tributo commovente a un artista scomparso prematuramente, creato da un altro grande talento che, tristemente, ci ha lasciato anch’egli troppo presto.
In conclusione, “Temple of the Dog” è un album imprescindibile per chiunque apprezzi la musica autentica e carica di emozioni, al di là delle etichette di genere.