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Creeper – Sanguivore II: Mistress Of Death – Recensione

08 Novembre 2025 4 Commenti Stefano Gottardi

genere: Rock
anno: 2025
etichetta: Spinefarm

Dopo due anni ci troviamo ancora immersi nel mondo tetro e irresistibilmente teatrale dei britannici Creeper. Sanguivore era stato un’esplosione di rock ’n’ roll vampiresco, un album che aveva ridefinito il loro sound spostandolo verso un hard rock oscuro ed esagerato. Sanguivore II: Mistress Of Death ripropone la formula in modo estremo, trasformando questo sequel in un vero slasher musicale, con richiami a Meat Loaf, The Sisters Of Mercy, Alice Cooper e un heavy metal d’annata in versione horror. Non c’è dubbio: qui è tutto più grande, più sanguinoso, più cinematografico. E sì, è uscito proprio il 31 ottobre, nella notte insonne e carica di eccessi di Halloween.

La narrazione – come spiega Will Gould, mastermind del progetto nei panni del vampiro rockstar William Von Ghould – ci catapulta negli anni ’80, in piena era di hair metal e panico satanico. Immaginate una band di vampiri in tour per gli Stati Uniti, che lascia dietro di sé una scia di cadaveri e groupie dissanguate, inseguita da una misteriosa Mistress of Death: una sorta di boia gotica che aggiunge un tocco di burlesque macabro e sensuale.

L’intro parlata “A Shadow Stirs”, narrata nientemeno che da Patricia Morrison (ex The Sisters Of Mercy e The Damned), è un monito da brividi: “Rock music is a horny vampire, and tonight, it is feasting upon you”. È il trailer di una vecchia VHS impolverata: synth anni ’80, cori spettrali, un’atmosfera che ti penetra nelle ossa come nebbia cimiteriale. Da lì, il disco non molla l’acceleratore: è un carro armato di riff energici e cori anthemici che ti fanno venir voglia di saltare dal divano con un mantello nero sulle spalle come fossi Dracula.

La title track “Mistress Of Death” è un’esplosione di hard & heavy: armonie di chitarra epiche, ritmo galoppante, ritornello che si pianta in testa come un paletto nel cuore. È l’apripista perfetto: sconcio, seducente, con testi zeppi di allusioni che mescolano alla perfezione orrore e lussuria. “Blood Magick (It’s A Ritual)” spinge sul pedale dello sleaze metal, con voci corali e un groove che richiama i Guns N’ Roses degli esordi in salsa dark. “Headstones” è un tormentone puro, con quel mix di punk goticheggiante e hard rock che i Creeper padroneggiano alla grande. Non mancano momenti di respiro, come la bluesy “Razor Wire”, dove la tastierista Hannah Greenwood dietro al microfono ruba la scena nei panni della Mistress con un numero che bilancia sensualità e grottesco – e un sax che spunta dal nulla, evocando un cabaret infernale. L’album non è solo un’orgia di eccessi: ci sono deviazioni inventive che tengono alta la tensione. “Prey For The Night” sperimenta con il sax e un tocco jazzy che sa di Rocky Horror Picture Show, mentre “The Crimson Bride” riporta in carreggiata il post-punk/goth rock che aveva reso grande il primo Sanguivore: divertente, dinamico, senza divagazioni operistiche. “Daydreaming In The Dark” aggiunge atmosfera con un tocco stregato che richiama il loro passato, ma sempre con quel dinamismo anni ’80 che non annoia mai. A chiudere tocca a “Pavor Nocturnus”, finale epico con orchestrazioni maestose e un solo di chitarra da brividi, che lascia la porta aperta al terzo capitolo della trilogia.

Prodotto da Tom Dalgety (già con Pixies e Ghost), il suono è pulito ma aggressivo, con un equilibrio perfetto tra teatralità e grezza energia rock. Niente filler: dodici tracce di adrenalina pura che scorrono senza intoppi. Non è un disco per tutti: se non digerite il camp esagerato o i riferimenti agli slasher, potrebbe rischiare di sembrarvi troppo sopra le righe. Ma per chi ama il gothic rock che non ha paura di sporcarsi le mani con hard rock e punk, Sanguivore II è un trionfo: un sequel che non reinventa la ruota, ma la fa rotolare più veloce, più rumorosa e più divertente che mai. I Creeper non stanno solo continuando una storia: la stanno evolvendo, spingendo i confini del loro stile camaleontico verso un futuro che profuma di vinile viola e notti eterne. Se Eternity, In Your Arms era punk Alkaline Trio-style e Sex, Death & The Infinite Void un’odissea americana spettrale, qui siamo al culmine del loro horror punk: un album che celebra gli eccessi, ridefinisce il rock con un ghigno e ti lascia con la voglia di un bis immediato.

IN CONCLUSIONE

Nonostante il CD sia in digipack – che chi scrive non ama particolarmente – e i testi nel booklet siano scritti così piccoli da essere quasi illeggibili, l’acquisto resta obbligatorio per i fan e una chicca per chi cerca un rock che morde sul serio.

Hell In The Club – Joker In The Pack – Recensione

08 Novembre 2025 2 Commenti Giulio Burato

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Un nuovo format, una nuova veste per il ritorno degli italiani Hell in the Club che “salutano” il fondatore e frontman dei primi cinque album Dave, e danno il benvenuto alla cantante svedese Tezzi Persson (Infinite & Divine, Venus 5), offrendo una svolta netta a livello vocale, un po’ come hanno fatto nel recente passato i più celebri Linkin’ Park.
Un cambio dunque radicale che sicuramente è fonte di discussione per chi segue la band dagli esordi.
In effetti, questo passaggio mi ha personalmente spiazzato; per assorbire il colpo, mi sono interfacciato con una mia amica, cantante che mi ha aiutato nell’ascolto e nella stesura della recensione nella sua parte strumentale e di proposta dei testi.
Passo dunque la palla, o meglio, la penna a Lisa B.:

“Un viaggio nelle profondità dell’anima, tra suoni duri e stridenti, che trasmettono il senso di inquietudine ed angoscia, senza mai perdere quell’armonia quasi celeste che viaggia leggera sulle corde vocali e ci costringe a guardare l’abisso per ritrovare la luce.
Attacchi duri, senza indugi, con leggero growl, un debito d’aria della gola che rende ogni parola una sfida.
Le chitarre non suonano, lacerano! sono un vortice sonoro di follia e paura, che annulla ogni speranza. L’unione con le percussioni ed i giri di basso si contorcono nel dolore puro per poi tornare alla superficie.
“Dirty Love…Hey Mr. Loki!” un dialogo con il signore degli inganni; è un ponte gettato tra le fiamme, tra l’ombra e la speranza. Un viaggio rischioso, dove l’ascoltatore si perde tra le tenebre, accompagnato dalla voce e spinto dalla musica per guadagnarsi la risalita.
La band dispiega finalmente le sue ali, con un chorus talmente maestoso e liberatorio da far sembrare la discesa solo un brutto ricordo, la disperazione si trasforma in determinazione di ferro…il trionfo è la luce.
Un album che non promette solo un viaggio, ma lo mantiene con una coerenza brutale e sublime, dimostrando che rock & metal possono essere il veicolo per la più grande delle esplorazioni interiori.
Chi cerca evasione…
Chi cerca un’esperienza viscerale che sporca le mani di fango e le purifica col fuoco.
Trova in questo album la sua vittoria!”

A me nuovamente la penna.

Dopo la disamina musicale e dei testi, vado alla tracklist di “Joker in the pack” e segnalo alcune canzoni che sono, in buona parte, il filo conduttore col passato della band.
Il secondo singolo “Magnetars” ha la vigoria degli Alter Bridge nei riff e il magnetismo melodico degli Halestorm.
Il terzo singolo “Robert the doll” ha la “stoffa” della canzone che avrebbe sorriso al compianto Ozzy.
Il lento “The Ocean” ha quel sapore agro dolce che affascina.
Concludo con “The devil won’t forget” che fa capire già agli albori dell’album cosa ci attende a livello melodico e di scrittura in questo nuovo capitolo targato HITC.

Ringrazio Lisa B. per il contributo a questa recensione.

Backlash – Time To Impact – Recensione

07 Novembre 2025 1 Commento Samuele Mannini

genere: AOR
anno: 2025
etichetta: Burning Mind/Art Of Melody Music

Certo, presentarsi con il nome Backlash è una scelta quantomeno coraggiosa per chi si appresta a pubblicare un debut album. Inutile dire che la prima cosa che salta alla mente è il secondo e immenso disco dei Bad English, e il paragone potrebbe intimidire, ma i nostri non sono certo pischelli di primo pelo, bensì un gruppo di musicisti italiani che conoscono bene la materia e la rispettano, che non si limitano a copiarla, ma la interpretano e la vivono con passione assoluta.

I Backlash nascono infatti dall’incontro tra Massimo Ordine e Andrea Frighi, due musicisti italiani di lungo corso che hanno deciso di unire esperienze e sensibilità per dare forma a un progetto che fosse sì figlio del passato, ma capace di parlare al presente. Ordine, già voce dei Perfect View, possiede quel tipo di timbro che nel melodic rock fa la differenza: pulito, controllato, ma con un’anima calda e personale, capace di dare vita a melodie che restano. Frighi, chitarrista e mente compositiva della band, si occupa anche delle tastiere e degli arrangiamenti, costruendo un suono solido e dinamico, dove ogni nota serve la canzone e nulla viene lasciato al caso. Le sue influenze, da Neal Schon a Dann Huff, emergono con eleganza, senza mai scivolare nel mero esercizio di stile. La formazione si completa con Angelo Franchini al basso, entrato stabilmente nel 2023, che conferisce al gruppo una base ritmica rocciosa ma musicale. Alle sessioni hanno preso parte anche Mirco Zuffa (batteria, hammond e tastiere), oltre ai chitarristi Massimiliano Mosci e Luigi Bellanova, tutti musicisti che hanno dato un contributo importante alla definizione del sound, arricchendolo di sfumature e profondità. Se a ciò aggiungiamo la produzione impeccabile di Roberto Priori (Danger Zone, Wheels Of Fire, Raintimes), il gioco è fatto.

Come ebbi a dire a suo tempo nel mio articolo sulla scena melodic rock italiana (qui il link all’articolo), nel nostro Paese non manca certo il talento, e questo disco ne è l’ennesima e lampante dimostrazione. In un lotto di dodici canzoni, almeno sei o sette sono di livello internazionale, e se fossero state incise da un gruppo americano o scandinavo la stampa specializzata griderebbe al miracolo. Ma questa non è la sede per fare polemiche: qui si tratta di analizzare un disco che ogni amante dell’hard rock melodico e dell’AOR dovrebbe fare suo, a prescindere.

Si parte a bomba con l’opener Aimless Games, che ci propone la band come una sorta di Work Of Art vitaminizzati, con chitarra tagliente, tastiere avvolgenti, ritmica quadrata e serrata, cori e contro cori da manuale, ma che volete di più dalla vita? Altra canzone di livello assoluto è No Shelter From The Blues, che non a caso è stata scelta come singolo: qui le atmosfere si spostano verso i Journey di Trial By Fire, il tocco chitarristico alla Schon si sposa con un manto tastieristico di derivazione Toto e un ritornello potente che resta impresso, e quando dico che sono gli arrangiamenti a trasformare una buona canzone in una grande canzone, qui troverete le prove tangibili della mia affermazione. Lost And Found è un Hard Rock rovente, che si regge sul duello tra chitarra e tastiere in salsa Giant; anche l’ormai votato al Jazz Alan Pasqua sarebbe lieto di ascoltarlo, senza contare che potrebbe far impallidire i Giant attuali. Mirrorsplay, altro singolo, è un eccellente esempio di crossover tra AOR e Westcoast, cantato con grande delicatezza e passione e capace di raggiungere un climax emotivo senza mai perdere finezza, grazie anche a un assolo lungo e arioso, che rilassa l’ascoltatore e spezza il ritmo del disco, donando varietà all’ascolto. Looking For A Stranger è un eccellente esempio di Canuck Rock, con una presa immediata e melodie ariose che catturano subito l’ascoltatore, mentre la seguente Doing Time è un caldo ed appassionato blues che mi ricorda To The Cross degli Unruly Child, regalandomi un’altra goduria emotiva. Chiuderò la mia analisi dei brani con Cold Case Of Rock ‘n’ Roll, un vero e proprio omaggio al rock melodico che fonde tutti gli stilemi tipici del genere in un’apoteosi emotiva, guidata dalla carismatica presenza di Lee Small alla voce.

Spero proprio di avervi convinti a dare un ascolto approfondito a questo disco, perché tutti gli amanti della nostra musica preferita troveranno i propri appigli emotivi e sensoriali per goderselo appieno; questi ragazzi hanno assimilato questa musica come raramente mi è capitato di sentire, l’hanno fatta propria e ce la restituiscono con gioia, quindi… preparate la grana.

38 Special – Milestone – Recensione

01 Novembre 2025 1 Commento Iacopo Mezzano

genere: Hard Rock / Southern Rock / Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: 38 Special Records

I leggendari southern rockers statunitensi 38 Special sono tornati a sorpresa sulle scene il 19 settembre 2025 per celebrare il 50° anniversario della loro fondazione proponendo ai fans Milestone, il loro primo nuovo lavoro in studio in oltre 20 anni.

Con 36 minuti di nuova musica, composta e realizzata con il contributo di ospiti e autori come Pat Monahan (Train), Randy Bachman (Bachman Turner Overdrive, The Guess Who) e Jim Peterik (Survivor, Sammy Hagar, Lynyrd Skynyrd, Cheap Trick), Don Barnes e soci ci propongono un disco che in qualche modo rimanda ancora alla tradizione southern rock del gruppo, ma che si avvale di un sound ben più moderno e melodico delle precedenti edizioni, a tratti persino sfumato di country, e di una grinta spiccatamente hard rock che offre tutta una nuova esperienza musicale all’ascoltatore.
continua

Leah Martin Brown – Love & Other Crimes – Recensione

28 Ottobre 2025 1 Commento Paolo Paganini

genere: Pop Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Alcuni dischi ti piacciono talmente tanto che recensirli è un piacere e diventano così tante le cose da dire che finisci per incartarti da solo sommerso da una marea di parole. Poi ci sono dischi orribili ed anche in questo caso non si devono fare molti sforzi per stroncarli. I dischi più impegnativi sono quelli che non ti fanno né caldo né freddo per i quali si perdono ore nel tentativo di trovare il giusto compromesso per non sminuirli né esaltarli. Esiste poi una quarta categoria cioè quella dei dischi scomodi, per certi versi fuori luogo. In quest’ultima mi sento di inserire il debut-album targato Frontiers dell’artista di origine australiana, trapiantata a Los Angeles, Leah Martin-Brown. Il genere proposto infatti è un pop rock da classifica che poco o nulla ha a che vedere con quanto prodotto dall’etichetta partenopea in tutta la propria storia. Il progetto di allargare i propri orizzonti discografici è piuttosto coraggioso e rende onore alla label nostrana ma, ovviamente, la espone anche ad un altissimo rischio di critiche dai culturi del sound più ‘ortodosso’.

Affidata alle mani esperte di mostri sacri del rock quali il trio Denander-Lange-Nilsson questo lavoro deve confrontarsi sin da subito con un pubblico affezionato che rimarrà quantomeno spiazzato. In quest’album sono presenti numerosi rimandi allo stile che ha fatto di Mutt Lange una leggenda. Ascoltando la ruffiana R U Chiken non vi sfuggiranno i cori e le chitarre alla Pour Some Sugar On Me, o ancora le melodie pop di Shania Twain su Clooney o le atmosfere pop-elettro-rock dei Romeo’s Daughter su Levitate (uno dei brani più interessanti del lotto). Boys è veramente troppo infarcita di sonorità catchy per risultare credibile. Rainbow pur essendo un brano gradevole è nel complesso troppo leggera mentre con Hysterical Love la costruzione dei brani inizia e diventare monotona. Ci troviamo infatti perennemente di fronte a cori ed effetti elettronici sempre uguali che copiano fino alla nausea i cliché che a suo tempo fecero la fortuna (con tutt’altro spessore ovviamente) di Def Leppard, Bryan Adams, Nickelback e compagnia cantante. Le chitarre poi sono davvero leggere e l’effetto “boombastic” della batteria viene mortificato da volumi troppo bassi. La sensazione è quella del “vorrei ma non posso” è l’effetto finale risulta particolarmente “plasticoso” e costruito a tavolino. Per il bene di Leah sarebbe stato meglio puntare su qualcosa di più originale, che facesse emergere la sua personalità e la sua attitudine. La ragazza è giovane, ambiziosa e dotata di una bella voce. Se supportata nella maniera corretta avrà modo di spiccare il volo e realizzare i propri sogni.

Shiraz Lane – In Vertigo – Recensione

27 Ottobre 2025 0 Commenti Paolo Paganini

genere: Melodic Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

Nuovo capitolo per i finlandesi Shiraz Lane, nati a Vantaa nel 2011 e tornati oggi nel roster Frontiers dopo un periodo trascorso nel panorama indipendente.

Che i ragazzi promettessero bene lo si era intuito già dai dischi precedenti, i quali avevano positivamente impressionato critica e pubblico. Avevo avuto inoltre occasione di vederli on stage nel 2018 durante il loro passaggio a Bologna di supporto agli H.E.A.T. e la performance si rivelò di grande impatto. Il nuovo album In Vertigo non fa che confermare le buone impressioni già emerse in passato e rappresenta ad oggi il momento migliore della loro ancor giovane carriera. Le dieci tracce di cui si compone l’album sono un perfetto connubio tra sonorità glam rock, potenti ritornelli catchy e una produzione robusta che accontenterà anche i rocker più intransigenti. A fare da perfetto collante a tutto ciò, oltre alle indubbie capacità tecniche dei musicisti, è la voce immediatamente riconoscibile di Hannes Kett. Grazie ad un timbro acido e graffiante capace di raggiungere note altissime con una disinvoltura sorprendente risulta il vero trend-mark dello Shiraz Lane-sound. Il suo carisma aiuta non poco ad identificare sin da subito la band nell’affollano panorama hard rock nordeuropeo. Brani quali la muscolosa e ruffiana Dangerous strizzano l’occhio all’hard rock da classifica di fine anni ’90 additivato con sapienti riffoni di chitarre che donano nel complesso una piacevole sensazione di modernità. La produzione affidata alle sapienti mani di Per Aldeheim (Def Leppard, H.E.A.T.) aggiunge al tutto quel tocco radiofonico che permette alle canzoni di stamparsi in mente fin dal primo ascolto. Prova ne sono songs come la roboante Stone Cold Lover o Babylon vicina al Santana più commerciale di alcuni anni fa. Non mancano momenti più pacati ed anche in questi frangenti il combo finnico si dimostra pienamente all’altezza. La power ballad Live A Little More e soprattutto The Ray Of Light si impongono come i pezzi migliori del cd.

In conclusione In Vertigo risulta essere un lavoro di ottimo livello, da ascoltare ripetutamente in macchina ad alto volume senza rimanerne mai annoiati. Il potenziale di questi ragazzi è molto elevato e se saranno capaci di mantenersi su questi livelli conquisteranno senza alcun dubbio una sempre maggiore fetta di appassionati.

 

Ronnie Romero – Backbone – Recensione

26 Ottobre 2025 2 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Frontiers

In arrivo la nuova fatica del leggendario cantante Ronnie Romero, sempre attivissimo e sempre impegnato dal vivo, con il suo timbro inconfondibile e con una invidiabile carica energetica.

In prima posizione, subito, la title track “Backbone”, una bella sferzata potente e decisa, che immediatamente ci proietta nello stile e nel mondo di Romero. “Bring The Rock” presenta una ritmica metallosa e cadenzata, sempre funzionale ad esaltare le doti vocali del cantante. Una dolce chitarra acustica ci apre le porte di “Lost In Time”, un classicone, sia per struttura che per sonorità, sempre piacevole, soprattutto per gli amanti del genere. Con “Never Felt This Way” torniamo su orizzonti più poderosi, sorretti da una buonissima ritmica e da un buon solo di chitarra. Esploriamo la dinamica vocale di Romero con la variegata “Hideaway (Run)”, piacevole, dal pre – ritornello particolare. La successiva “Lonely World”, più oscura e cadenzata, non stupisce e non brilla per originalità, al contrario della delicata e raffinata “Keep On Falling”, dalla trama deliziosa e ben congegnata. “Eternally” torna a picchiare, incastonandosi perfettamente all’interno di questo album e presentando tutte le caratteristiche dello stile e dell’intenzione del progetto Romero. Una veloce intro di basso ci presenta “Running Over”, sempre un po’ sulla falsa riga delle altre tracce, che non presenta grandi voli di originalità pur essendo un brano riuscito. Concludiamo l’ascolto sulle note di “Black Dog”, cavalcata sfrenata e viscerale, interessantissima, che ci permette di tirare le somme su un lavoro eseguito in modo impeccabile, non particolarmente originale e dinamico, ma sicuramente piacevole per gli amanti del genere e della voce di Ronnie Romero.

Civil Daze – Once In A Blue Moon – Recensione

25 Ottobre 2025 1 Commento Luca Gatti

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Pride & Joy

Sarò sincero: per me, nel rock e soprattutto nell’hard n’ heavy, vige un po’ di patriarcato.
E ora che ho espresso questo concetto come un grazioso elefante entrato nella cristalleria e capace di spargere tonnellate di cocci, passiamo al disco.

Infatti, oggi ci accingiamo all’ascolto agli svedesi Civil Daze ed al loro album d’esordio ‘Once In A Blue Moon’, project sapientemente allestito come un robusto mobile Ikea dal veterano Mikael Danielsson e che vede alla voce la talentuosa Helena Sommerdahl.
Ad un primo giro di giostra è subito chiaro come il focus sia un melody rock tutto pasto per grandi e piccini, a qualche graffio old school l’ascoltatore è trasportato in una dimensione ariosa del cantato oserei ‘Musical’.
Ad un più attento riascolto emerge questa doppia anima strumentale e vocale dei Civil Daze ed è più la prima a farmi sentire a casa, i riff infatti hanno quell’odore di AcDc (Top of the world) e David Lee Roth ( Milion miles away); strofe e bridges parlano un fluente Whitesnake (Got to go, Paradise, Turn the Bridge); il punch è moderno e l’esperienza dei musicisti Ikea confeziona un bel prodotto fruibile e ben registrato, nessun genere non identificato proveniente dallo spazio vale precisare, è la sana e vecchia bustina di ketchup col suo agrodolce chimico che ti fa sentire a casa a qualunque latitudine.
La chitarra piace con la giusta eq per stuzzicarti il timpano, Mikael ed il buon Tony si incastrano con maestria (come un mobile Ikea!), sono una certezza sempre lì a fare il lavoro sporco (infatti ‘Face Down In The Dirt’), power chords e licks alla Chuck Berry nei soli come consiglia il medico, sezione ritmica bene in avanti e convincente, si timbra il cartellino sereni.
Le tracce vocali sono invece voli pindarici super melodici alla Journey, non che debba necessariamente essere un difetto nell’hard (vedi i Journey), non che debba necessariamente avere un senso tutto ciò che scrivo però in ogni composizione c’è sempre un particolare taglio pop-rock alla Cher che non disdegna sfumature soul, tutto è impiattato con guanti da forno e morbidezza, manca sempre un po’ di Grrrr ma, questi chorus ampi ed al profumo di donna sono forse la giusta leva per raggiungere un pubblico più ampio dello stempiato tatuato con la maglietta dei Motorhead (io): che sia forse il vero segreto di una big band?
Intonazione e buoni propositi nei vibrati mi ricordano tanto la moglie di Blackmore con quegli strani abiti presi in prestito da pub bavaresi, l’ho scritto si, sorry Richie.
La somma degli addendi da come risultato un buon hard rock melodico con le giuste marchette e le beneamate ispirazioni ma con un piglio tutto femminile della brava Helena tra un Aretha Franklin ed un Alice Cooper, la giusta via di mezzo senza la micidiale voce della prima ma nemmeno il mascara così sbavato del secondo.
Degne di nota a mio modesto parere le tracce ‘Face Down In The Dirt’ e ‘Revolution’ dove lo spirito rock blues sviscerato porta equilibrio e dimensione lasciando che il lato smooth della voce risalti in verve ed interpretazione.

In sintesi, un ascolto lo meritano eccome: questi svedesi sanno il fatto loro, e quel loro lato melodico potrebbe farvi sentire a casa… oppure come se foste seduti su una bustina di ketchup, decidete voi…

Babylon A. D. – When The World Stops – Recensione

22 Ottobre 2025 3 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2025
etichetta: Kivel

 

In uscita il nuovissimo disco dei Babylon A.D., band dalla grande tradizione, che ci porta nuovamente nel proprio universo hard rock classico.

Partiamo forte con la title track “When The World Stops”, canonica, dal ritornello facile e coinvolgente, che serve a farci tornare alla mente il classico Babylon sound. Passiamo a “Come On Let’s Roll”, molto nostalgica nel riff, che non esce dalla comfort zone dei suoni e delle tematiche del genere, così come la successiva “Don’t Ask Questions”, uno pseudo lento, molto cristallizzato e non particolarmente originale. “Love Is Cruel” è una buonissima ballata acustica, sentita e calda, a spezzare in modo molto piacevole il ritmo dell’album. Saliamo d’intensità con l’arrembante “Toxic Baby”, decisamente più convinta e convincente, dalla ritmica e dalla dinamica ben strutturata. “I Don’t Believe In You” è un buonissimo brano, trascinante e dalle atmosfere evocative, complessivamente azzeccato e gradevole. Ci facciamo coinvolgere dalla scanzonata “The Power Of Music”, un inno molto anni ‘80, da grande evento, con tanto di sottofondo di folla scatenata. Particolare e dai fraseggi inconsueti, troviamo “Torn”, una chicca interessantissima che ci capita così, tra capo e collo, lasciandoci ricordi positivi. Torniamo su orizzonti lenti e caldi con “The Damage Is Done”, con il suo intro di chitarra acustica, che ci accompagna in sottofondo per tutta la durata del brano, intenso, perfettamente legato a una trama vocale pregevolissima: la vera perla dell’album. “Oh Suki” è un pezzo strano e spezzettato ritmicamente, dove la band mette in risalto la propria tecnica e un certo eclettismo esecutivo. Gran finale affidato a Sadness Madness, brano delicato e suadente, che chiude con eleganza un disco dal duplice volto: un avvio che forse impiega qualche momento a trovare il passo giusto, ma che poi, canzone dopo canzone, cresce con naturalezza, rivelando sfumature sempre più convincenti e riuscendo a conquistare pienamente l’ascoltatore.

Ailafar – Shining Star – Recensione

03 Ottobre 2025 0 Commenti Vittorio Mortara

genere: AOR/Pop Rock
anno: 2025
etichetta: Lions Pride Music

La Grecia. Terra di filosofi, condottieri ed atleti. Culla della civiltà occidentale come la conosciamo oggi (o, meglio, fino a ieri). E patria di questi Ailafar. I quali, lo ammetto, mi erano assolutamente ignoti fino all’arrivo del loro promo dalla Lions Pride. E invece, a quanto leggo nella bio, questo è il loro quinto disco! I ragazzi sono in attività da quasi 20 anni e, per lo meno in patria, godono di un discreto seguito di estimatori.

Preso dalla curiosità, mi appresto all’ascolto dell’album, per altro non invogliato dall’inguardabile copertina. “Integrity” parte incerta. Mi ricorda qualcosa ma non riesco a focalizzare cosa. La voce della brava Tatiana Economou risulta un po’ slegata dalla base musicale del pezzo e, in conclusione, lascia un po’ insoddisfatti. Molto bene invece “Ghost of you”, molto melodica e dall’azzeccato refrain. I nostri sciorinano un power pop rock di buon livello, dimostrando anche ottima padronanza degli strumenti. “Together we go on” volge su tratti un po’ più tirati e, di nuovo, si ha un certo scollamento fra la musica e il cantato. E, a dimostrarlo, quando alla voce in “Dancing for keeps” subentra l’ospite Dean Mess, tutto si amalgama meglio e ne viene fuori un pezzo di AOR cantautorale di stampo marcatamente americano commoventemente nostalgico. La Economou è più a suo agio sui pezzi melodici, come il lento “The right person”, pura emozione soft-AOR. Discreta, ma non impressionante “Piece of the puzzle”. Un po’ meglio vanno le cose con “Something about you”, dai classici tratti dell’AOR a voce femminile degli anni ’80. Così come la cinematografica “These moments” si rifà al pop rock da colonna sonora dei film dello stesso periodo. Tra le influenze della band ci sono di certo anche i Fleetwood Mac, come traspare dalle note di “Your avoidant kind of love”. Ed infine, una nota di plauso anche a “Hope” che conclude il discorso con una semi ballad dalle melodie piacevoli.

L’AOR a voce femminile è spesso pomo della discordia fra gli appassionati del genere. Ed ascoltando questo disco si intuisce il perché. Sostanzialmente, qui i pezzi migliori sono quelli in cui Tatiana non forza il proprio cantato sui toni più alti. In questi tutto risulta più armonioso e gradevole, raggiungendo discreti livelli di qualità. Quando il gioco si fa più duro (per modo di dire) invece tutto sembra più slegato e meno assimilabile. Comunque, vista anche la qualità di musicisti e produzione, darei agli ellenici una sufficienza piena.