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Winger – Seven – Recensione

05 Maggio 2023 12 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Non è mica facile fare una recensione degli Winger, a meno di non uno di quegli yes man che scrivono sempre bene di tutto e tutti e che l’ultimo album è sempre il migliore etc etc… In realtà a me questo Seven ha creato un po’ di problemini che andrò a descrivere. In primis al nome ed al sound Winger sono legati alcuni dei miei momenti d’ore nell’ascolto di questa musica, ricordo ancora una delle prime buche a scuola per andare in centro a Firenze ed accaparrarmi il debut, di cui si parlava così bene, custodendolo gelosamente nello zaino per poi introdurlo furtivo nel mobile dei vinili una volta rientrato a casa. In secundis credo che In The Heart Of The Young sia un album fondamentale per chi ascolta questo genere ed infatti l’ho anche inserito nel nostro catalogo dei classici. Infine anche la svolta più cupa ed oscura di Pull a me aveva favorevolmente colpito andando a formare con i primi due dischi un trittico eccezionale ed eterogeneo che tutt’ora mi sento di consigliare a chiunque si consideri un rocker. Poi sinceramente gli altri tre dischi ovvero: IV, Karma e Better Days Comin, al di là di qualche sporadico episodio, non è che mi avessero fatto tutta questa impressione, quindi ho avuto un approccio a Seven tra l’eccitato ed il titubante ed anche se, confesso, non mi sono strappato i capelli posso senz’altro affermare che dopo la triade iniziale questo sia a mio avviso il migliore disco degli Winger.

Bisogna dare atto agli Winger di aver sempre sempre continuato ad evolvere senza nemmeno tentare di riproporre il solito cliché all’ infinito e quindi ci sta che le varie evoluzioni e mutamenti di sound possano talvolta aver scontentato qualcuno, ma mi sento di poter dire che qui si è trovato il giusto equilibrio tra la voglia di innovare ed l’impronta classica degli anni d’oro, riuscendo a trasportare e rinverdire le emozioni di più di trenta anni fa e renderle attuali, inoltre, l’aver sempre mantenuto una formazione stabile infonde una certa sicurezza su come sia serio l’approccio della band. Un ottimo esempio è il primo singolo Proud Desperado che unisce una robusta  e serrata struttura ad un piglio estremamente catchy (sarà forse per la penna di Desmond Child?) ed anche se il ritornello è magari un po’ banalotto funziona alla grande e ti entra subito in testa. Ancora meglio la seguente Heaven’s Fallen più soffusa e riflessiva e la successiva Tears Of Blood che dopo un avvio hellsbellssiano si snoda in un ritornello struggente e passionale. Altro pezzo di gran rilievo è la malinconica Broken Glass dove il buon Kip dà sfogo a tutta la sua abilità interpretativa. It’s Okay sembra uscita direttamente da Pull come una sorta di Down Incognito 2.0.  Voglio infine citare la rovente ed elettrica Stick The Knife In And Twist e la conclusiva e magnifica It All Comes Back Around che pur avendo una diversa struttura a me chiama alla mente l’articolazione e la varietà di Rainbow In The Rose, 7 minuti e mezzo di puro godimento.

Quindi dopo tutte queste belle parole e queste belle canzoni, perché quindi non ho dato un voto più alto? Semplice, perché le altre cinque canzoni del disco non mi paiono all’altezza delle altre che ho prima menzionato, restando anonime e senza personalità, non dico assolutamente che sono filler, soltanto che non pareggiano le migliori per pathos e feeling.

Per concludere riassumo così: un bel disco, anzi come ho detto il migliore dai tempi di Pull, con delle splendide canzoni che saranno destinate a durare nel tempo e che quindi mi fanno consigliare l’acquisto del disco ed inserirlo nelle nostre discografie per poter anche in futuro goderne appieno.

 

Tygers Of Pan Tang – Bloodlines – Recensione

05 Maggio 2023 6 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Mighty Music

Partiamo da una considerazione, leggere quello che scrivono le etichette discografiche sui fogli di presentazione è inutile, diranno sempre che l’attuale è la formazione migliore del gruppo in questione, ma trattandosi dei Tygers of Pan Tang, gruppo fondamentale per lo sviluppo della new wave of british heavy metal, l’affermazione ci può stare se non si considera quella dei primi album nella quale Robb Weir, unico membro originale rimasto si avvaleva dei servigi alla voce e alla chitarra di due grandissimi quali John Deverill e John Sykes, oltre al fatto che i primi quattro album dei Tygers non possono essere uguagliati in bellezza e non possono neanche essere ricontestualizzati, altrimenti adesso suonerebbero obsoleti. Quello che è giusto fare è semplicemente ascoltare con attenzione i Tygers of Pan Tang così come sono al giorno d’oggi, né più, né meno. Questa ultima line up, che vede l’inserimento del nostro guitar hero Francesco Marras (qui  la recensione del suo ultimo album) e del bassista Huw Holding, che ha esperienze con altri grandi nomi della nwobhm quali Blitzkrieg e Avenger, svolge un ottimo lavoro, sicuramente meglio degli ultimi album, buoni sia chiaro, ma più incentrati su un approccio hard rock.

A riprova di ciò, basta analizzare i singoli brani che compongono quello che è il tredicesimo album della band oramai anglo-italiana e si parte con “Edge of the world”, classico up tempo, un buon inizio che fa già capire in quali territori i Tygers vogliono tornare, quelli di casa loro, la nwobhm, intrigante l’effetto strisciante sulla voce di Jack e centratissimo il break acustico che da il là agli assoli di Robb e Francesco, i primi di una lunga serie:  “In my blood” è un brano incalzante con un riff che più nwobhm di così non si può, ottima l’interpretazione di Jack, buono l’intreccio di assoli come praticamente in tutto l’album, “Fire on the horizon” è uno speed metal con un riff classicissimo e assoli al fulmicotone, anche qui ci si ritrova catapultati nella prima nwobhm, quando brani così erano all’ordine del giorno, sintomtica è “Light of hope”, hard’n’heavy c’è scritto nella presentazione della recensione e hard’n’heavy è quello proposto in questo brano teso dal un ritornello arioso, “Back for good” è un mid tempo cadenzato dall’andamento saxoniano come anche il ritornello, fuorviato dai cori più vicini a certo glam americano, non certo il pezzo più azzeccato, ma si ritorna su standard alti con “Taste of love”, ballad che rientra comunque nelle coordinate del metal inglese dei primi anni ottanta, basti pensare a “Strange World” (Iron Maiden), “Free man” (Angel Witch) o “Bringing on the heartbreak” (Def Leppard), bellissima e sentitissima l’interpretazione di Jack, “Kiss the sky” è praticamente la canzone sorella di “In my blood”, stesse caratteristiche, stesso ritmo coinvolgente e stesso intreccio azzeccatissimo delle soliste, “Believe” da un tocco più moderno senza snaturare il sound dei Tygers, ma riempiendo di tensione una canzone più tortuosa rispetto alle altre, quindi arriva “A new heartbeat”, la title track dell’ep uscito a Febbraio 2022, un heavy lineare con il riff più bello e azzeccato dell’album, qui tutto è convincente, risultando l’highlight di “Bloodlines”, chiude “Making all the rules” e ciò che ho scritto a riguardo di “Taste of Love”, vale anche qui nonostante un mood più oscuro, fin dalla partenza con un classico arpeggione d’atmosfera che sfocia in un tempo più sostenuto. continua

Angel – Once Upon A Time – Recensione

04 Maggio 2023 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock/Pomp Rock
anno: 2023
etichetta: Cleopatra

Quando un nome così importante si ripropone dopo un oblio durato praticamente 40 anni, ci si domanda se ce ne fosse bisogno, dati i cambiamenti inevitabilmente capitati nel mondo della musica, ma anche della cultura e più in generale nella conformazione geopolitica, insomma ha senso che una band come gli Angel ritorni ad essere attiva e a fare dischi dal 2018, cioè l’anno della loro riunione, tranne che due piccole parentesi nel 1985 e nel 1999? A giudicare dalla bontà di “Once upon a time”, direi di sì, perchè un genere come quello suonato dalla band di Frank DiMino e Punky Meadows può essere anacronistico, ma se è vero il detto che la classe non è acqua, nel caso degli ex protetti di Gene Simmons ce n’è a tonnellate; sicuramente aiuta il fatto che quando i rockers di bianco vestiti si sono affacciati sul music business erano già avanti coi tempi, portando l’hard rock agonizzante del 1975 ad un livello più alto, inserendo elementi sinfonici e magniloquenti su un tappeto orecchiabile e con qualche riferimento prog, in soli sette anni di attività, dal 1975 appunto, al 1981 anno nel quale si sono sciolti per la prima volta, gli Angel hanno pubblicato cinque album in studio e uno dal vivo, quest’ultimo pubblicato dalla Casablanca Records per ottemperare agli obblighi contrattuali, dato che la band praticamente non esisteva già più. I riferimenti a tutti gli album storici, escludendo quindi il debole “In the beginning” del 1999, si sprecano a cominciare dalla canzone che apre questo che è il secondo album registrato dagli Angel nel nuovo millennio dopo il buon “Risen” del 2019, “The torch” è un pezzo che non può non ricordare “Tower”, l’apertura del primo album autointitolato, stesso incedere epico e maestoso, stesso mood creativo, con la differenza che qui c’è un qualcosa di più moderno che fa sì che il pezzo non risulti datato, ma godibile e di certo il fatto che degli Angel originali sono rimasti solo i già citati cantante e chitarrista, influisce nel rendero il brano sì pomposo, ma anche più snello e anche leggermente più scarno di arrangiamenti soprattutto per quanto riguarda le tastiere, non più ad opera del fantastico Gregg Giuffria, ma del comunque buon Charlie Calv che, più avanti come vedremo, si ritaglierà i suoi spazi, che gli Angel siano poliedrici nell’intendere la materia hard, lo si capisce dalla successiva “Black moon rising”, in cui una base simil funky viene sorretta dai cori femminili che sanno tanto di gospel, mentre Frank, nonostante non sia più fisiologicamente esplosivo come nei seventies, strappa una prestazione da applausi, doppiata dall’incendiario assolo di Punky, il primo singolo estratto dall’ottavo album degli Angel è “It’s alright”, semplice ed immediata come deve essere un brano che deve coinvolgere e stamparsi in testa già dal primo ascolto, seppur, a mio parere risulti un gradino sotto allo standard compositivo ed esecutivo altissimo della band, dando modo comunque al frontman di adagiarsi perfettamente con la sua voce, ora più ‘calda’, più vicina allo stile di Steve Perry che non di Robert Plant, ma se volevate gli Angel più pretenziosi e teatrali, ecco “Once upon a time an Angel and a Devil fell in love (and it did not end well)”, sorta di mini suite nella quale, come è facilmente intuibile, viene raccontata la storia d’amore tra un angelo donna e un diavolo uomo, appunto non finita nel migliore dei modi, nonostante l’amplesso riprodotto dalla voce femminile e qui si capisce perchè Charlie Calv siede sullo scranno di Giuffria, forse meno incline ad usare i sintetizzatori pomposi, ma di certo non sprovveduto nell’uso di altri altisonanti tasti d’avorio come l’Hammond. “Let it rain” calma un pò le acque nel suo incedere di semiballad pianistica, ma viene subito spazzata via da “Psyclone”, hard rock vigoroso che se non fosse per l’interpretazione di Frank, sfiorerebbe il metal, grazie alla svisate elettriche di Punky alle quali fa da contraltare un Calv sempre più convinto, liberatosi definitivamente del fardello di essere il “sostituto di…” e se “Blood of my blood, bone of my bone” non fa che confermare il saliscendi di umori che gli Angel riescono a creare all’interno dello stesso disco, risultando d’impostazione più emblematicamente rock abbellita dai cori femminili e dalla solita prestazione maiuscola di Punky in coda al brano, “Turn the record over” sfocia nel più classico hard pop che gli Angel avevano magistralmente sfoggiato in “Sinful”. continua

Atomic Kings – Atomic Kings – Recensione

03 Maggio 2023 0 Commenti Lorenzo Pietra

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Tonehouse Records

Nuova uscita per gli Atomic Kings, band nuova di zecca con Gregg Chaisson al basso(Badlands, Red Dragon Cartel), Ryan Mckay alla chitarra, Jim Taft alla batteria e Ken Ronk alla voce. La Tonehouse Records pubblicherà il debut album e descrive il sound come un suono basato pesantemente sull’hard rock / blues degli anni 70-80.
Ma andiamo ad analizzare il disco….

Le prime tracce All I Want (scelto come primo singolo) ed Escape sono di buona caratura e girano su un riff di chitarra e basso rock con alcune sfumature Blues, e se la prima traccia ha un refrain e un riff che entrano subito in testa, la seconda nonostante il bel groove ha una melodia che non convince, rimanendo troppo anonima. Holding On parte con un basso rotolante e distorto, la canzone è più cupa e la parte cantata di Ronk, acuta, ricorda molto il suono settantiano confermato dal bell’assolo di chitarra. Take My Hand è un macigno hard rock, dove ancora riff e musica sono super, ma la differenza lo fa il pezzo strumentale finale da oltre 2 minuti.
Con Running Away troviamo il primo mid tempo, un rock melodico, con una gran melodia e ottimo lavoro alla batteria di Jim Taft, mai banale. Live ritorna a parlare settantiano con il riff indemoniato e l’intro di chitarra hard rock, il cantato torna su acuti difficili e il basso macina note infinite. I Got Mine varia sound, stavolta è il basso a farla da padrone con il suo riff incessante e suo funky mood, tutto sempre contornato dalla chitarra sempre presente col suo hard rock stavolta più ottantiano. Bella!
Jimi’s Page è una traccia strumentale da un minuto dove si intrecciano chitarra acustica e pianoforte, ma sull’attacco di Bloodline ritroviamo qualcosa dei Deep Purple, un riff grosso, hard rock dove batteria e basso seguono la chitarra a dettare il ritmo. Si chiude con la bonus track Illusion, che non aggiunge nulla al lavoro ma completa l’album con il suo rock melodico, dove trova ancora spazio il basso e le chitarre trovano lo spazio nella parte finale tutta strumentale, come a voler chiudere l’album in bellezza.

IN CONCLUSIONE:
Un bel disco, diretto mai banale, dieci tracce hard rock senza fronzoli, nessuna ballad o lento.
Se vi piace l’hard rock tra gli anni ’70 e ’80 dategli un ascolto.

Perfect View – Bushido – Recensione

28 Aprile 2023 11 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock/Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Lions Pride/ Rubicon Music

Permettete che mi bei un po’ prima di dirvi com’è questo disco dei Perfect View? Ebbene sì, mi beo, perché se il disco è così com’è forse uno 0,5 % del merito è anche mio, poiché a suo tempo mi venne da consigliare al buon Damiano Libianchi di partecipare alle selezioni per il nuovo vocalist della band ed ero così sicuro che le caratteristiche della voce e del sound fossero perfette l’una per l’altra, che non ho mai nutrito il minimo dubbio che la cosa andasse a buon fine… e così è stato, col risultato che questo disco è una vera e propria bomba!

Non pensate però che questa mia punta d’orgoglio mal celato e l’ottimo rapporto personale con i ragazzi della band abbia in qualche modo inficiato il voto e la recensione, questo è un grande disco e mi ci gioco la penna (beh la tastiera del pc in questo caso 🙂 ).

Parliamo quindi del disco: intanto trattasi di un concept dedicato al mondo dei samurai. Racconta la storia di un ragazzo giapponese che nasce con una disabilità ma che riesce a perseguire il suo sogno di diventare un grande samurai proprio come lo era stato suo nonno, e se volete qualche informazione in più sulla trama e sul suo concepimento, date pure una occhiata alla nostra intervista con la band. (Qui il link). Il mio consiglio è quello di sedervi in poltrona mettere il cd nel lettore e seguire la storia, verrete subito trascinati in una esperienza quasi cinematografica dove ogni canzone è un episodio di una serie che narra un aspetto del protagonista e che crea suspence ed attesa per l’episodio successivo. Musicalmente siamo in territori Hard rock melodico, ma estremamente ricercato, oserei dire ‘progressivo’ non foss’altro per le scelte di arrangiamento mai banali e che non temono di osare, ci sono alcuni passaggi di tastiera e delle ritmiche che raramente capita di ascoltare in un disco di hard rock canonico, mentre le armonie vocali si stagliano sempre in primo piano elargendo pathos e passione traccia dopo traccia.

Non voglio fare un track by track anche perché il disco è bello nella sua interezza e le canzoni, pur mantenendo una estrema accessibilità di ascolto, non si concedono poi così facilmente, con questo disco ci dovete un po’ flirtare, è come una seduzione continua, ascolto dopo ascolto dove ogni volta noterete un particolare in più che vi farà innamorare. Solo a titolo esemplificativo però citerò ‘Love’, dove il piglio vocale di Damiano si fonde con una serie di cori e contro cori da brivido; ‘Honor’, che col suo incedere survivoriano è un inno da cantare a squarciagola ed infine ‘Compassion’, dallo svolgimento epico, ma allo stesso tempo con reminiscenze e sentori a la Tim Feehan.

Quindi per concludere, fatevi un bel regalo e comprate questo cd,  farete un sicuro investimento anche per il futuro, perché questo non è certo un disco da una stagione e via, ma vi accompagnerà negli anni come uno dei gloriosi classici del passato che tanto veneriamo. Qui non siamo di fronte al prototipo del gruppo italiano dotato e di buona volontà che però si arrangia con quello che c’è, ma bensì ad un prodotto di caratura e livello internazionale e per scalzarlo dal podio delle classifiche di fine anno penso proprio che il padreterno in persona dovrà darsi da fare e rilasciare un paio di album lui stesso.

Smackbound – Hostage – Recensione

26 Aprile 2023 3 Commenti Giulio B.

genere: MODERN HARD ROCK
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Dopo tre anni di distanza dal debut-album “20/20” tornano in pista i nordici Smackbound, capitanati dalla voce brillante e grintosa di Netta Laurenne (Lordi, Evelking, Amorphis), che propongono un modern metal con molte sfaccettature al suo interno.
“Hostage” è uscito tramite Frontiers il 21 aprile e ripercorre la stessa linea del predecessore, cercando di assestare e di migliorare, se possibile, il tiro. A mio avviso il tentativo è riuscito; l’album infatti è più centrato ed il lavoro di squadra è più coeso.
Si parte col primo singolo “Change” che, come struttura, ripercorre il primissimo singolo “Drive It Like You Stole It” uscito nel 2020; canzone di grande impatto con Netta padrona del palcoscenico con un vocalizzo che, a tratti, ricorda nel bridge la maestosa Ann Wilson, per arrivare alla distorsione roboante nel ritornello. Altre canzoni con la stessa carica intrisa di melodica sono la iniziale “Reap” e la corale “Break”. Nel bel mezzo due canzoni che escono dagli schemi convenzionali; la potente “Razor Sharp” che pigia sull’acceleratore del metal spinto e la strutturata “Rodrigo” che si fa apprezzare per il lavoro di grande sinergia strumentale che arricchisce la parte vocale; quest’ultima è da considerare come una piccola opera. A proposito di opere, è giusto soffermarsi sulla conclusiva “The edge” della durata di nove minuti, canzone ricca di atmosfera e di suggestioni sussurrate.
L’aria si fa più rarefatta col lento “Imperfect day” devoto, nella linea vocale, agli Evanescence d’annata mentre la carica dinamitarda torna a deflagrare con “Hold the fire” e la modernista “Graveyard”; altri pezzi di livello sono la title track e la carica catchy di “Traveling back” impreziosita da un gustoso inizio acustico.
“Hostage” è un album moderno con spunti interessanti e una grande Netta Laurenne al suo timone.

Grand Design – Rawk – Recensione

21 Aprile 2023 3 Commenti Yuri Picasso

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: GMR Music

A distanza di 3 anni dal valido ‘V’, tornano gli svedesi Grand Design, degni eredi del sound del tempo che fu dei Def Leppard, sporcati dall’ondata glam scandinava dell’ultimo ventennio (primi Reckless Love su tutti), uniti da una voce acuta sullo stile di Rob Moratti. Non ci aspettiamo (ne desideriamo) profondi stravolgimenti da una band che ha dimostrato di saper (re)interpretare un tipo di sound retroattivo, di successo, mediante ritornelli e riff immediati a presa rapida, spostando in questo capitolo l’ago della bilancia verso il lato più party-rock.
“Tuff It Out” e “God Bless Rawk and Roll” divertono, intrattengono, aumentano il desiderio di alzare il volume evitando con intelligenza il clichè del già sentito.

Con “Love or a Fantasy” e “You Luv is Drivin’ Me Crazy” abbiamo la certezza che il quintetto rimarrà a distanza (lungo gran parte del disco) da temi cupi o tristi, vicini nelle lyrics alla leggerezza della Los Angeles che noi ricordiamo sovente. Si ricerca il coro arioso, allegro ed estivo, mediante l’uso di più voci spartite su diverse ottave, con mestiere e consapevolezza delle proprie capacità. “Desperate Heart” parte come ballad, un po’ anonima a dire il vero, salvo poi virare verso un mid tempo leggermente oscuro, notturno. Il meglio di ‘Rawk’ lo troveremo in pezzi come “Dangerous Attraction”, un mix riuscito tra Final Frontier e Def Leppard o ancora nel chorus di “Give It All Up For Luv”. A chiudere il disco una vera bomba come “In The H.E.A.T of the Nite”, coincisa ed esaustiva sintesi ad evidenziare la qualità della proposta artistica.

A voler marcare un vero difetto manca una ballad a la “Addiction For Love” (‘Idolizer’, 2011),ce ne faremo una ragione.
Il trademark dei GD può essere considerato un pregio e/o un difetto al medesimo tempo. Personalmente il livello medio dei brani e la capacità di riproporre un sound vecchio ma vincente, mi porta a consigliare la band scandinava, e di vedere il proprio imprinting come una qualità assoluta e quasi esclusiva.

Revolution Saints – Eagle Flight – Recensione

21 Aprile 2023 8 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock/Aor
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Chi tra voi ha la bontà di seguire i miei scritti su questa pagina, dovrebbe essersi fatto un’ idea di quale sia la mia opinione sui cosiddetti supergruppi odierni. Ribadirò comunque il concetto: il Supergruppo dovrebbe essere un evento eccezionale composto da musicisti eccezionali che uniscono le forze per produrre qualcosa che dovrebbe essere, almeno in teoria, diverso da ciò che abitualmente suonano con i gruppi di appartenenza. Ovviamente nel caso dei Revolution Jour… ehm Saints questa è addirittura la seconda versione della band che nei precedenti tre lavori vedeva in line up Jack Blades e Doug Aldrich, ma a dire il vero il mood cambia di poco e viene da pensare che la vera figura intorno alla quale ruota il progetto sia il buon Dean Castronovo.

Sì, ma il disco com’è? Il disco è buono, veramente buono, per me al livello del secondo (che considero il loro migliore) Lights Of The Dark, ovviamente senza che nessuno abbia ad aspettarsi cose per l’appunto rivoluzionarie… Il sound è fortemente Journey inspired ed a mio orecchio si colloca nel periodo di Trial By Fire come sonorità generali. Probabilmente l’attitudine di Pilson ed Hoekstra, rendono il suono un po’ più tagliente e roboante che in passato e gli arrangiamenti sono più votati al lato hard rock, ma la sostanza è quella e Dean Castronovo ci sguazza alla grande.

Ci sono infatti un paio di pezzi clamorosi, Eagle Flight e Need Each Other, che se fossero stati inseriti nell’ultimo disco dei Journey ne avrebbero alzato non di poco il livello qualitativo, senza contare che questo disco suona infinitamente meglio, ma questo è un altro discorso… Inoltre personalmente ho un debole (eh lo so qui i pareri potrebbero essere discordi) per l’interpretazione vocale di Dean,  che per me va a ricalcare spesso il feeling e la postura di Steve Perry. Nel lotto di dieci canzoni non scorgo filler di sorta e tutto il disco scorre piacevole senza mai annoiare e tra le canzoni che più ho gradito ci sono: Talking Like Strangers, I’ll Cry For You Tonight e Once More, ma ripeto, il livello generale è sempre ottimo.

Mi sento dunque di consigliare l’acquisto a tutti gli amanti dell’ hard rock melodico e naturalmente a chi ha il Journey sound nel cuore… Ahhh se tutti i Supergruppi fossero così..

Mecca – Everlasting – Recensione

20 Aprile 2023 2 Commenti Paolo Paganini

genere: AOR
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Tornano a distanza di sette anni dall’ultimo album III del 2016 i Mecca creatura i Joe Vana accompagnato per l’occasione del figlio Joey. Il progetto nacque nell’ormai lontano 2002 quando la band fece il proprio debutto suscitando unanimi consensi potendo puntare sulla collaborazione a vari livelli di mostri sacri come Jim Peterik, David Hungate e Fergie Frederiksen. Oggi la formazione è integrata tra gli altri dal nostro Alessandro Del Vecchio alle tastiere. Everlasting segna il ritorno del gruppo al più classico AOR con fortissimi richiami allo stile dei Toto. Il risultato è un disco estremamente piacevole sin dal primo ascolto. Un lavoro senza veri punti deboli che fa leva sulla classe e sul gusto raffinato dei musicisti coinvolti. L’opener And Now The Magic Is Gone ci introduce nel mondo dei Mecca composto da raffinate melodie intessute da chitarre e tastiere sempre perfettamente calibrate. The Rules Of The Heart attinge a piene mani dal repertorio di Lukater & Co. così come The Mistake We Make primo singolo estratto. Una strizzata d’occhio ai Whitesnake più commerciali si può sentire su Your Walls Are Crumbling Down ma è con la splendida ballata Everlasting che si tocca il vero vertice del disco. La successiva Falling è un brano di notevole caratura dal grandissimo ritornello a tutto coro, da cantare a squarciagola.

IN CONCLUSIONE:

Un disco che va ad impreziosire una carriera ormai ventennale che merita tutto il rispetto e l’ammirazione degli amanti dell’AOR più raffinato e sempre più raro da incontrare.

Bad Bones – Hasta El Final! – Recensione

18 Aprile 2023 0 Commenti Denis Abello

genere: Hard Rock
anno: 2021
etichetta: Rockshots Records

Ritorno al passato per i Bad Bones che dopo la dipartita del cantante Max e del chitarrista Sergio “SerJoe” Aschieris (ora nella band di Enrico Ruggieri) recuperano il veccho cantante e chitarrista Mekk Borra!
Ritorno al passato anche nel sound, perchè se con gli ultimi due album si era presa una strada dal tratto più soft, levigato e radiofonico qui si torna su quello che è il cuore pulsante dell’anima della band di questi tre amici. Così i due fratelli fondatori Steve Balocco (basso) e Lele Balocco (batteria) riunendo le forze con Mekk riportano il sound della band a quel “rumore” stradaiolo e polveroso da power trio debitore a gente come i Motörhead!

Otto pezzi quindi che piazzano cazzotti a destra e sinistra e si parte subito in territorio caro al buon vecchio Lemmy (R.i.p. \m/) con Bandits. Cattivo, sporco e grezzo ci introduce alla successiva e politically scorrect Behind The Liar’s Eye. Bella l’anima blues di Rattlesnake… però a questo punto i nostri mostrano di non voler comunque rinnegare il loro recente passato e con un colpo da maetro piazzano una radiofonica Wanderers & Saints. Che gran pezzo gente, da brividi lungo la schiena per noi vecchi Rocker Romantici e Noltalgici ma con ancora l’Anima che brucia per la musica!
Gretto e cattivo arriva Sand on My Teeth a cui segue un vero manifesto alla libertà come appunto è Libertad! Ultima dose Hard Rock nelle vene con To Kill Somebody e Home!

Cazzo che disco diretto e sincero che piazzano i Bad Bones. Pochi pezzi, pochi cazzi e tanta voglia di fare una musica che amano, e se ci metti l’anima, anche noi non possiamo che innamorarci un po’ del sound di questi ragazzi cresciuti a pane e hard rock sporco e cattivo!