LOGIN UTENTE

Ricordami

Registrati a MelodicRock.it

Registrati gratuitamente a Melodicrock.it! Potrai commentare le news e le recensioni, metterti in contatto con gli altri utenti del sito e sfruttare tutte le potenzialità della tua area personale.

effettua il Login con il tuo utente e password oppure registrati al sito di Melodic Rock Italia!

Ultime Recensioni

  • Home
  • /
  • Ultime Recensioni

Thomas Lassar – From Now On – Recensione

14 Aprile 2023 3 Commenti Denis Abello

genere: AOR
anno: 2023
etichetta: Art Of Melody Music / Burning Minds Music Group

Se siete amanti dell’AOR sicuramente il nome Thomas Lassar vi suonerà quantomeno familiare, in caso contrario non c’è problema, sono qui io per parlarvi di Mr. Lassar!
Un passato con gli svedesi Crystal Blue, quelli di quel gioiellino di Caught In A Game (1994), in cui nei primi album appare come tastierista e corista per diventarne anche voce con l’album Detour (2003). Oltre ai Crystal Blue lo troviamo anche come tastierista con i Last Autumn Dream di ‘II’ ed infine presterà la sua voce anche al progetto Charming Grace del nostro Pierpaolo “Zorro” Monti sul brano Still Dreamin’.

Non proprio un novellino che si presta qui però al suo primo grande salto nel vuoto da solista con questo album a titolo From Now On! Titolo che risuona anche come una dichiarazione d’intenti per il futuro. Accasato alla corte della Burning Minds di Stefano Gottardi e di, non per caso, Pierpalo “Zorro” Monti, cosa ci propone allora il nostro Lassar in questa sua prima corsa in solitaria?

Niente di nuovo in realtà per chi ha l’orecchio “abituato” all’AOR, e sinceramente neanche me lo sarei aspettato. Però quello che c’è in questo From Now On è sicuramente una cura “rassicurante” per gli AORSTER incalliti. Pezzi orecchiabilissimi, un bel sound brillante con il giusto grado di bombasticità dosato per non strafare e soprattutto un tappeto di buona musica disegnato dalla voce delicata e piacevole di Thomas!
Tre pezzi dal tiro classicissimo come When My Ship Comes In, Losing Faith, Whatever I Do mettono subito a proprio agio l’ascoltatore per poi buttarlo nella più ricercata In Control, che tra cori, controcori e tastiere raffinate mette a segno un sicuro punto sulla qualità di questo lavoro. Delicatissima Back Where I Started che sigla la prima metà di questo lavoro.
Messa in tasca in maniera positiva, sia nostra che per Lassar, la prima metà di questo From Now On non resta che fiondarsi nel garbo e nella grazia della seconda parte. Già, grazia, garbo e delicatezza, perchè è questo alla fine che ritroverete in questo From Now On, anche quando la chitarra accenna qualche riff più spinto come in The Beginning of the End.
Se vi state chiedendo che fine abbia fatto in un album come questo il pezzo ultra catchy ecco che vi arriva in risposta The Only One! Ora è tutta una rincorsa in discesa da godersi sulle note di Turn Back Time e Take Me Higher per arrivare a chiudere in assoluta delicatezza sulle note del piano di From Now On.

Un album che in alcuni passaggi mi ha riportato alla mente i REO Speedwagon, e già questo è nettamente un buon segno! AOR, nient’altro che AOR quello che troverete in questo From Now On… ma come diceva un amico, c’è AOR e AOR e questo è di quello buono, da tutti i punti di vista da cui lo si guardi!

L.A. Guns – Black Diamonds -Recensione

14 Aprile 2023 6 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard rock/Sleaze
anno: 2023
etichetta: Frontiers

Lo ammetto, ho sempre avuto un debole per le pistole di Los Angeles e ho sempre pensato che abbiano raccolto molto meno di quanto avrebbero meritato, soprattutto dei “cuginetti” con le rose, ma di questo ne avevo già parlato in sede di introduzione al precedente “Checkered past” uscito due anni fa, terzo album per Tracii Guns, Phil Lewis e compagni dopo la reunion del 2017, la cosa non deve far perdere il controllo riguardo alla simpatia che mi ha fatto preferire questo tipo di “Guns”, bisogna affrontare ogni uscita come a sè stante ed essere imparziali, è difficile, lo so, ma se non riuscissi a farlo, prenderei tastiera e mouse e li butterei nel cesso, invece affronto “Black Diamonds” e ve ne parlo con il massimo dell’obiettività possibile.

Detto che gli L.A.Guns non hanno mai più avuto grande inventiva nel scegliere e approvare le copertine dei loro album e che stavolta, a mio parere, si sono superati nel trovarne una davvero insulsa, passiamo a quello che, secondo me non ha mai deluso, ossia la musica e che invece, stavolta, mi sembra che, seppur con uno standard abbastanza alto, abbia fatto un piccolo passo indietro, soprattutto a livello di grinta; è vero che gli anni passano per tutti e che soprattutto Phil, che ricordiamolo, è in pista fin dalla fine degli anni settanta, quando era il frontman dei Girl, band nella quale militava il futuro chitarrista dei Def Leppard Phil Collen, sembra decisamente barcamenarsi in un limbo dal quale non eccelle, anche se bisogna tenere conto che le 67 primavere cominciano a pesare. Detto questo, intendiamoci, il disco non è brutto, è decisamente superiore a molte uscite contemporanee, ma essendo io uno di quelli che, contrariamente a quello che dicono ‘quelli bravi’, ha apprezzato l’ultimo “Checkered past”, che ritengo a livello di ispirazione e di rabbia esecutiva un gradino superiore a questo quattordicesimo album in studio per Tracii&C., trovo che sopra alle undici canzoni che lo compongono, ci sia un velo di grigia opacità, qualcosa che soffoca le canzoni e che non permetta a “Black Diamonds” di arrivare ai livelli di crudezza sleaze che caratterizzava parecchi altri episodi della carriera degli L.A.Guns e dall’opener “You betray” non sembrerebbe, è un pezzo strisciante, buon inizio, con un Phil sugli scudi, ma…rimane a sè stante, già da “Wrong about you” cominciano a sentirsi i segni della stanchezza nel comporre, questo hard/blues pur essendo trainato da un bell riff, non decolla, arriva quindi “Diamonds”, ballad di quelle che caratterizza da sempre le pistole di L.A., ma che risulta poco ispirata soprattutto in sede di ritornello, molto bello invece l’assolo di Tracii, seguita a ruota da “Babylon”, che da fuoco alle polveri, ma queste rimangono un po’ bagnate e proprio quando pensi che il pezzo esploda nel suo fragore glam/punk, arriva il ritornello poco ispirato, paradossalmente le strofe colpiscono più nel segno, trainate da un riff “cultiano” (chi ha detto “Wild Flower”?), finalmente arriva “Shame” ad alzare il tiro, col suo blues fumoso e un Phil finalmente appassionato, “Shattered glass”, scelta anche come singolo parte con un riffone vigoroso e con un bel tiro per restare però come un “vorrei, ma non posso”, senza quel guizzo vincente che ti aspetti possa arrivare da un momento all’altro, ma non si manifesta, anche in questo caso la cosa migliore la fa Tracii con un altro assolo di caratura superiore. continua

Joe Bonamassa – Tales Of Time – Recensione

13 Aprile 2023 1 Commento Nico D'andrea

genere: Blues
anno: 2023
etichetta: Mascot

Impossibile sfuggire al potere delle suggestioni…e così al cospetto di un altro nuovo live di Joe Bonamassa (sì… avete letto bene… un altro live), invece di voltarmi dall’altra parte mi faccio rapire dal consueto splendido artwork della cover. Suggestiva infatti l’immagine che richiama alla memoria (nemmeno troppo velatamente) la copertina di Caravanserai, ultimo album della leggendaria prima formazione di Santana (Santana/Rolie/Schon/Shrieve). Ascoltando lo straripante solo di organo del redivivo Reese Wynans nell’opener Notches sui tasti d’avorio ci potrebbe benissimo essere Greg Rolie… e poi chi sarebbe in grado di suonare più note tra l’enfant prodige venuto da New York ed il veterano chitarrista nato in Messico ? Similitudini un po’ forzate che comunque finiscono qui. Finiscono dove verosimilmente inizieranno le prevedibili rimostranze sull’ennesima pubblicazione di un album dal vivo del Guitar God americano.

La formula però funziona alla grande e questa volta ad essere riproposto integralmente live è l’ultimo bellissimo album in studio Time Clocks. Come di rito i pezzi della versione in studio vengono eseguiti con delle vistose modifiche negli arrangiamenti, con tanto di coinvolgenti jam sessions e qualche effetto sorpresa come il duetto con la corista in The Heart That Never Waits e l’utilizzo di un Theramin nel bel mezzo di Curtain Call. Potrei spingermi in un pericoloso track by track per quante sono le chicche che ogni pezzo ci riserva durante l’intera gig ma per quanto mi riguarda può bastare così.

Una doverosa nota va scritta sul comparto audio, dove il lavoro di produzione e mixaggio del fido Kevin Shirley sono davvero al top. Che altro dire? Tales Of Time è dunque una pubblicazione decisamente più interessante del precedente Royal Tea Live… così come Time Clocks era decisamente superiore nella versione in studio.
Assolutamente indispensabile per i fan di Joe quanto perfettamente inutile per chi di Bonamassa ne ha già avuto abbastanza.

Chris Duarte – Ain’t Giving Up – Recensione

12 Aprile 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Provogue Records / Mascot Label Group

Nuova uscita per il chitarrista Chris Duarte, che propone un hard rock folle, influenzato da sonorità contemporanee mischiate all’influsso di Coltrane e Stevie Ray Vaughan.

Si parte con la festaiola “Nobody But You”, molto scanzonata e coinvolgente, a tratti confusa nell’esecuzione, ma globalmente piacevole. “Big Fight” dà sempre quell’effetto di improvvisato, molto groovy, suadente, perfettamente funkeggiante. Con “Bye, Bye, Bye” siamo sempre in atmosfera rock blues, dal tipico riff e dal ritornello che facilmente resta impresso nella mente dell’ascoltatore. Le vibrazioni non calano con “Can Opener”, in pieno stile Ray Vaughan, un notevole brano strumentale che mette in mostra tutto il tocco e il gusto di Chris Duarte. La tipologia e il genere non variano di molto su “Gimme Your Love”, cadenzata, risonante, chiara e precisa, adatta ad ogni tipologia di pubblico. “Come My Way” modernizza le sonorità, lasciando ricordi tiepidi e poco convincenti. Torniamo sul rockin blues canonico di Duarte: “Half As Good As Two”, dalla trama classica e dai fraseggi altrettanto sentiti, nonostante l’ottima intenzione del solo di chitarra, fa coppia con la successiva “Lies, Lies, Lies”, godibile e gioviale, ma complessivamente poco fresca. Arriviamo alla title track “Ain’t Giving Up For Us”, che segue il solco tracciato dai grandi bluesmen del passato, non scostandosi di un millimetro dall’intoccabile e immortale tradizione del genere. “Look What U Make Me Do” non convince pienamente, per poca originalità e una leggera vuotezza musicale, il che la fa sfociare velocemente verso “The Real Low Down”, di segno praticamente opposto, ovvero dalla ritmica convincente e coinvolgente, rock n’ roll al punto giusto, piacevole nel fraseggio chitarristico. Concludiamo sulle note di “Weak Days”, lungo brano rock blues, che suggella un album altalenante, che alterna pezzi convincenti ad altri un po’ fiacchini, ma che non può che attestare l’incedibile bravura, verve e gusto di Chris Duarte e la sua chitarra.

LeBrock – Gone (EP) – recensione

11 Aprile 2023 5 Commenti Denis Abello

genere: Pop Rock / Retro Sinthwave
anno: 2022
etichetta: FIXT Music

Un nuovo EP per gli inglesi LeBrock. Dopo l’uscita del full lenght Fuse (2021), che seguiva i due bellissimi EP Action & Romance (2016) e Real Thing (2018), ma che mancava forse di centrare completamente il colpo, quella che è la Band che fa da miglior unione tra il nuovo filone del Retro Sinthwave e l’AOR più radiofonico ci riprova con un EP che raccoglie gli ultimi singoli usciti… ed il centro questa volta è totale!

Cosa è mancato a Fuse? L’Urgenza!
Quell’urgenza nel sound firmato dal chitarrista e produttore Michael Meadows e quell’urgenza data dalla voce (splendida) di Shaun Phillips. Il resto era tutto li, il sinth, il suono pulito e brillante al neon che tanto fa anni’80, quel revival non anacronistico… eppure a Fuse mancava l’urgenza!

Urgenza che ritroviamo in questo Gone e che riporta i LeBrock ai fasti di Action & Romance con pezzi che sono vere cavalcate radiofoniche. Si vola subito sulle note di Running Wild e quel brivido di adrenalina che la musica a firma LeBrock regala scorre lungo ogni singolo nervo del corpo e risulta da subito impossibile non intonare a piena voce il suo ritornello.
Chemistry è sognante desiderio che vibra sulle note della chitarra mentre See Me è manifesto di quell’urgenza di cui parlavamo in intro di recensione! Can’t Breathe è il pezzo più easy e radiofonico e Gone è l’ennesima medaglia al petto di una delle band più interessanti degli ultimi anni.

Un EP, 5 soli pezzi, eppure il valore totale del lotto proposto è talmente alto che non serve neanche spendere ulteriori parole in proposito! Fatelo vostro!

Paul Gilbert – The Dio Album – Recensione

11 Aprile 2023 0 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock/Heavy Metal
anno: 2023
etichetta: Music Theories Recordings/Mascot Label Group

Orecchie aperte per i nostalgici di Ronnie James Dio: il virtuoso della chitarra Paul Gilbert (ex – Racer X; Mr. Big) esce con un colossale tributo strumentale alla carriera dell’artista statunitense, viaggiando attraverso la sua musica, rispettivamente con quattro brani per band, nei Rainbow, nei Black Sabbath e nei Dio.

Apertura affidata a “Neon Knight”, che, al di là del conosciuto, presenta già la peculiarità del lavoro, ovvero ricreare chitarristicamente la voce di Ronnie James. La tecnica non si discute assolutamente e presto passiamo alla successiva “Kill The King”, suggestiva e corale, dove Gilbert si presta a svariati fraseggi e strumenti. “Stand Up And Shout” riesce a coinvolgere come nell’originale, ricalcandone la verve vocale in maniera degna (seppur inimitabile, siamo onesti). Con “Country Girl” proseguiamo il nostro viaggio decennale nella carriera di Dio, senza troppo scostarci dall’originale, così come la successiva e titanica “Man On The Silver Mountain”, colossale e nostalgica. “L’assolo non termina mai”: questa potrebbe essere la definizione di questo lavoro, che ci catapulta inevitabilmente alla famosissima “Holy Diver”, della quale poco c’è da aggiungere a quanto sopra detto. Lo ammetto: “Heaven And Hell” è forse la traccia che più aspettavo di ascoltare e mi ci butto a capofitto: esame pienamente superato, per godibilità ed esecuzione strumentale. “Long Live Rock ‘n’ Roll” riesce a trasportare l’ascoltatore anche in questa versione, facendo subito tornare alla mente la splendida originale. Passa veloce e un po’ anonimamente “Lady Evil”, nella media, che ci porta alla successiva “Don’t Talk To Strangers”, che in maniera incredibilmente suadente ci porta su inediti orizzonti, dove la linea solista/vocale di chitarra penetra profondamente nel cuore di chi ascolta, sortendo un risultato ottimale. “Starstruck” non lascia un gran ricordo, facendoci piombare nella conclusiva “The Last In Line”: quale migliore traccia per chiudere quest’album.

Cosa ci lascia “The Dio Album”? Sicuramente un ottimo tributo a un artista indimenticabile e fondamentale per il genere; un’esecuzione magistrale da parte un mostro sacro della chitarra contemporanea; una visione alternativa di una carriera e di alcuni brani iconici che può solo impreziosire il bagaglio musicale sia per un amante del genere che per un neofita.

Martin Miller – Maze Of My Mind – Recensione

07 Aprile 2023 17 Commenti Samuele Mannini

genere: Melodic Rock
anno: 2023
etichetta: Self Released

Martin Miller è un chitarrista, cantante ed autore di Lipsia. Diplomato e poi insegnante al college musicale Carl Maria Von Weber di Dresda, è molto seguito su YouTube sia per le attività con la sua band, con la quale suona cover e reinterpreta brani storici collaborando con artisti del calibro di Andy Timmons e Paul Gilbert, sia per la realizzazione di corsi on line e tabs per chitarra, fa inoltre parte del rooster della ibanez insieme a numerosi altri artisti.

Sinceramente non essendo un assiduo seguace del web io mi sono accorto di lui solo per un post di Mark Ashton (si esatto il guru della Now & Then) e siccome, secondo me, lui è uno che ha sempre avuto naso per il talento mi sono fiondato di corsa ad ascoltare il singolo appena rilasciato su YouTube ovvero Something New ed è stata subito gioia e tripudio.

In una appassionata discussione con Denis Abello avevo paventato la speranza che il genere potesse rinnovarsi uscendo dalla sterile ripetitività che oramai lo pervade da almeno due decadi.  Secondo me questo album segue una direzione apprezzabile che qualche gruppo timidamente comincia percorrere con la mescolanza di generi e l’incorporazione di tratti di diversa derivazione fusi in una solida struttura melodica. Alcuni esempi che mi vengono in mente sono: i Cap Outrun, i Taboo, i Clouds of Clarity e perché no anche i Levara che in modi diversi e senza inventare nulla di sconvolgente danno al genere melodic rock una interessante e nuova prospettiva che finalmente esce dallo schema trito e ritrito della band senza cuore costruita a tavolino.

In questo Maze Of My Mind Martin Miller fa esattamente questo, mescola atmosfere Aor e Pop Rock alla Toto (inutile sottolineare quanto l’influenza di Lukather sia evidente anche nel tocco chitarristico), con ritmiche eclettiche e serrate tipiche dei Dream Theater più melodici, andando a toccare corde che in passato sono state solleticate anche da gruppi come i The Quest per esempio, anche se qui la barra del sound accessibile è sempre tenuta ben dritta ed anche in composizioni che arrivano a superare gli 8 minuti, è la canzone che regna sovrana e non il tecnicismo fine a se stesso.

Gustatevi dunque queste cinque canzoni che hanno il solo difetto di essere poche, ma che anche ascoltate a nastro non stancano mai ed anzi mostrano sempre nuovi dettagli ispirati ed ottimamente eseguiti. Sono molto curioso di sapere l’effetto che vi farà.

Last In Line – Jericho – Recensione

01 Aprile 2023 6 Commenti Iacopo Mezzano

genere: Hard 'N' Heavy / Hard Rock
anno: 2023
etichetta: earMusic

Vivian Campbell alla chitarra, Vinny Appice e Phil Soussan a formare la sezione ritmica, e Andrew Freeman alla voce: di certo una delle migliori formazioni disponibili sulle scene odierne per gli amanti dell’hard ‘n’ heavy vecchia maniera.

Sotto l’immutato moniker Last in Line (che rimanda al passato di due dei quattro musicisti nella formazione dei Dio), ma forti di una nuova label (la major earMusic), questi quattro sempreverdi ragazzacci escono sul mercato con il loro terzo album, intitolato Jericho. E la linea compositiva rimane la stessa: una serie di riff granitici, possenti, vetusti ed ispirati come non mai, heavy fino al midollo si accompagnano a un drumming potentissimo ed essenziale, riconoscibilissimo, pulsante, tutto groove e qualità, che si completa di un basso di primissimo ordine, profondo e portante, e di una vocalità decisa, cattiva, estesa, urlata dritta in faccia a chi sente. Con il contorno di una produzione in studio dinamica, ben tarata in modo da far sentire ogni strumento avanti, come se dovesse fisicamente entrarci nel petto, dritto nella nostra anima più oscura e metallica.

Un songwriting così vario e ispirato può permettersi anche degli azzardi, come quello di far suonare come opener del disco Not Today Satan, una traccia decisamente atipica per il gruppo, in quanto upbeat, dall’atmosfera in chiaro-scuro, e dal tratto hard questa volta frutto di sfumature moderne, quasi vicine all’alternative. Nel complesso però è una scelta azzeccata e che dimostra come, anche variando in parte il proprio sound, questa formazione risulti essere così coesa e sicura di se da mostrarsi assolutamente coerente anche con un brano dallo stile così diverso, che tutti gli altri avrebbero inserito al massimo dalle seconda metà del disco, in poi. Spiazzante, chapeau!

Con Ghost Town torniamo invece su binari più consoni, che rimandano all’hard rock e al metal più primitivo, che ha i suoi highlights nel possente giro di basso di Soussan, nell’assolo strepitoso di Campbell, e nello scream selvaggio di Freeman a fine canzone. Il riff d’apertura di Bastard Son, subito seguito dal drumming tutto prestanza di Appice, basta da solo a rendere questa track un classico della band, al pari di una Dark Days subito accattivante grazie non solo al suo refrain, ma anche e soprattutto al suo stoppato, che è maschio, cattivissimo, tutto energia.

Si spostano invece i riflettori sull’eccellente cantato di Freeman nella più melodica e slowtempo Burning Bridges, seguita dal singolo dinamitardo Do The Work, dominato dal suo ottimo refrain (che in qualche modo sa anche di Def Leppard, per come è corale e d’impatto), ricco da vendere di groove e di feeling ottantiano. Via poi con l’hard ‘n’ heavy decisamente speed di Hurricane Orlagh, un altro pezzo da novanta del disco, nonchè la classica traccia in grado di farci immediatamente alzare dalle sedie per scapocciare come dei forsennati, e con Walls Of Jericho, canzone ancora una volta molto tirata, vicina al sound antico dei Dio, epica e metallica, ma ricca di melodia nell’ennesimo grande assolo di un Campbell ancora in grande spolvero.

Groove e potenza, questa volta in chiave decisamente hard rock, sono le caratteristiche primarie anche di Story Of My Life, una canzone deciamente radio-friendly anche grazie alla sua compattezza, che porta il brano ad essere racchiuso in poco meno di quatto minuti di musica completa ed elettrizzante. We Don’t Run, dopo una breve intro strumentale in puro stile Last in Line, si evolve poi come una mid-tempo di spessore, rilassata sulle strofe ma arrichita da un altro ritornello di impatto, semplice ed orecchiabile, corale e piacevole fin dal primo ascolto. Hard rock anni’90, con qualche rimando non troppo celato ai Dokken e ai Lynch Mob di quegli anni, il brano Something Wicked disegna ancora una serie di trovate interessanti, in un sound differente che non stona in alcun modo all’interno del platter.

Ma è con il sigillo di House Party At The End Of The World che questa registrazone tocca una nuova e finale vetta. Lo stile si fa nuovamente hard ‘n’ heavy, ancora ’80s e ancora una volta alla Dio, e il tutto raggiunge finalmente tonalità epiche magnifiche, monumentali e inarrivabili ai più, esattamente come il cantanto di un indomabile Freeman, pura star di una traccia di commiato da lode e bacio accademico, che cala il sipario sull’ennesima ottima registrazione di una band viva, vera, e solida come una lastra di pesante granito. Lodi, lodi, lodi!

The Flood – Hear Us Out – Recensione

29 Marzo 2023 3 Commenti Vittorio Mortara

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Escape

Innanzi tutto chiedo scusa a voi lettori per il ritardo nella recensione di questo platter. Purtroppo la Escape da qualche tempo non manda più i promo in redazione, quindi a noi tocca fare recensioni postume all’uscita degli album, ma cerchiamo comunque di fare il nostro meglio per dare la nostra opinione al pubblico, visto che anche i costi de cd/vinili che stanno diventando sempre più impegnativi. Dal recensire questi The Flood non potevo proprio esimermi: vi militano il mio bassista preferito, Billy Sheehan, ed uno dei miei vocalist del cuore, mr. Chris Ousey. Buttateci dentro anche il chitarrista degli FM, Jim Kirkpatrick, ed un batterista dei Saxon e vedete voi se non ottenete un supergruppo. Ahhh! Cos’ho detto? Una parola che negli ultimi anni provoca più brividi di terrore che curiosità ed entusiasmo. Dunque, ci risiamo? Questa è l’ennesima operazione commerciale per spillare qualche soldino in più dai nostri salvadanai? Beh, non saprei. Di sicuro quello che salta all’orecchio è che questo album suona piuttosto duro. Canzoni poco orecchiabili che lasciano scarso spazio sia all’ugola d’oro di Ousey sia all’immenso talento di Sheehan. I due paiono quasi sepolti da un monolite hard/metal condito di tastiere old style. Peccato, perché anche la produzione è pulita e professionale, merce rara al giorno d’oggi.

Fatto sta che, dopo ripetuti ascolti, non riesco a individuare un brano veramente esaltante. Ci sono svariati up-tempo, come “Fight or fight”, la “The flood” o “Stand up” in cui potrete apprezzare il rotolare del basso di Billy e sentire Kirkpatrick sfogarsi in riffs e ficcanti solos che mai potrà sognarsi di esibire con gli FM. Ma bridges e chorus non sono mai all’altezza di quanto Ousey ci ha abituati ad ascoltare con la band madre. Il mid tempo dell’opener “Dangerous dawn” regala qualche finezza strumentale in più. Ma gli spunti più interessanti li ho trovati nello slow “Can I call it home”, maschio e convincente, nella Mr.Bighiana “My kind of heaven”, nelle linee melodiche affascinanti della blusly “I can’t stop” e la conclusiva orientaleggiante “A taste of what’s to come”, dove Chris ci delizia con una prestazione degna dell’ultimo Heartland. Quello che resta è hard assai canonico, privo di veri e propri spunti sui quali sprecare inchiostro.

Insomma a me Ousey piace quando canta negli Heartland e Sheehan quando suona nei Mr.Big. Punto. Questo disco non è brutto. Però, accidenti, da una formazione del genere ci si aspetta molto ma molto di più, sia a livello di espressione tecnica che per quanto concerne le composizioni. Così come dalle tante, troppe superband messe in piedi per motivi, nella maggior parte dei casi, discutibili. Consigliato solo a chi vuole avere tutto dei propri eroi.

Bai Bang – Sha Na Na Na – Recensione

24 Marzo 2023 10 Commenti Francesco Donato

genere: Hard Rock
anno: 2023
etichetta: Pride & Joy

Nono album in studio per la band svedese di Helsingborg capitanata dal founder Diddi Kastenholt.

Andando al sodo per chi non conoscesse la band, siamo di fronte ad un gruppo che nel corso degli anni si è saputo destreggiare senza grossi clamori nella fiorente scena scandinava, proponendo un party sound sempre arzillo che anche in questo lavoro non manca di verve. Nel 2021 la band è passata sotto contratto discografico con la label tedesca Pride & Joy Music e questo “Sha Na Na Na” è il primo frutto di questa nuova avventura.

E’ proprio la title track ad aprire le danze con un intercedere scanzonato e un coretto semplice ma efficace. Il pezzo pur ricordandomi molto il Bon Jovi di “Born To Be My Baby” si lascia ascoltare e anticipa il mood che ci accompagnerà lungo tutto l’ascolto: pezzi semplici, melodie probabilmente non originalissime ma incisive, riffs piacevoli e nonostante qualche pezzo che si farà ricordare più degli altri un ascolto omogeneo e certamente non pretenzioso. La successiva “My Favorite Enemy” alla lunga si rivela uno dei pezzi più riusciti del lotto, con il ritornello che non ci svela nulla di nuovo ma sa colpire il giusto. Melodia che fa da padrona sulla successiva “I Don’t Really Know” e nella bongioviana “I Know All The Hits”. Le reminiscenze glam rock vengono fuori con carica e prepotenza melodica su “I Wanna Rock n Roll” pezzo che non avrebbe sfigurato negli ultimi album dei Pretty Boy Floyd. “Motivated” , “All Alone” e “It’s Enough” e la finale “That’s All I Need” hanno tutte radici su terreni defleppardiani e confermano una buona dimestichezza nei nostri nel saper creare pezzi ruffiani senza strafare. Buono anche il rifacimento di “Rock Me” dei connazionali ABBA.

Un buon party album che in appena trentacinque minuti vi concederà una piacevole pausa.