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Recensione

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Angel – Once Upon A Time – Recensione

04 Maggio 2023 2 Commenti Giorgio Barbieri

genere: Hard Rock/Pomp Rock
anno: 2023
etichetta: Cleopatra

Tracklist:

1. The Torch
2. Black Moon Rising
3. It’s Alright
4. Once Upon A Time An Angel And A Devil Fell In Love (And It Did Not End Well)
5. Let It Rain
6. Psyclone
7. Blood Of My Blood, Bone Of My Bone
8. Turn The Record Over
9. Rock Star
10. Without You
11. Liar Liar

BONUS TRACKS [CD ONLY]
12. Daddy’s Girl
13. C’mon
14. Let The Kid Out

Formazione:

Frank Dimino - Voce e tastiera
Billy Orrico – Batteria
Steve Ojane – Basso
Charlie Calv – Tastiere
Punky Meadows - Chitarre
Danny Farrow – chitarre

 

Quando un nome così importante si ripropone dopo un oblio durato praticamente 40 anni, ci si domanda se ce ne fosse bisogno, dati i cambiamenti inevitabilmente capitati nel mondo della musica, ma anche della cultura e più in generale nella conformazione geopolitica, insomma ha senso che una band come gli Angel ritorni ad essere attiva e a fare dischi dal 2018, cioè l’anno della loro riunione, tranne che due piccole parentesi nel 1985 e nel 1999? A giudicare dalla bontà di “Once upon a time”, direi di sì, perchè un genere come quello suonato dalla band di Frank DiMino e Punky Meadows può essere anacronistico, ma se è vero il detto che la classe non è acqua, nel caso degli ex protetti di Gene Simmons ce n’è a tonnellate; sicuramente aiuta il fatto che quando i rockers di bianco vestiti si sono affacciati sul music business erano già avanti coi tempi, portando l’hard rock agonizzante del 1975 ad un livello più alto, inserendo elementi sinfonici e magniloquenti su un tappeto orecchiabile e con qualche riferimento prog, in soli sette anni di attività, dal 1975 appunto, al 1981 anno nel quale si sono sciolti per la prima volta, gli Angel hanno pubblicato cinque album in studio e uno dal vivo, quest’ultimo pubblicato dalla Casablanca Records per ottemperare agli obblighi contrattuali, dato che la band praticamente non esisteva già più. I riferimenti a tutti gli album storici, escludendo quindi il debole “In the beginning” del 1999, si sprecano a cominciare dalla canzone che apre questo che è il secondo album registrato dagli Angel nel nuovo millennio dopo il buon “Risen” del 2019, “The torch” è un pezzo che non può non ricordare “Tower”, l’apertura del primo album autointitolato, stesso incedere epico e maestoso, stesso mood creativo, con la differenza che qui c’è un qualcosa di più moderno che fa sì che il pezzo non risulti datato, ma godibile e di certo il fatto che degli Angel originali sono rimasti solo i già citati cantante e chitarrista, influisce nel rendero il brano sì pomposo, ma anche più snello e anche leggermente più scarno di arrangiamenti soprattutto per quanto riguarda le tastiere, non più ad opera del fantastico Gregg Giuffria, ma del comunque buon Charlie Calv che, più avanti come vedremo, si ritaglierà i suoi spazi, che gli Angel siano poliedrici nell’intendere la materia hard, lo si capisce dalla successiva “Black moon rising”, in cui una base simil funky viene sorretta dai cori femminili che sanno tanto di gospel, mentre Frank, nonostante non sia più fisiologicamente esplosivo come nei seventies, strappa una prestazione da applausi, doppiata dall’incendiario assolo di Punky, il primo singolo estratto dall’ottavo album degli Angel è “It’s alright”, semplice ed immediata come deve essere un brano che deve coinvolgere e stamparsi in testa già dal primo ascolto, seppur, a mio parere risulti un gradino sotto allo standard compositivo ed esecutivo altissimo della band, dando modo comunque al frontman di adagiarsi perfettamente con la sua voce, ora più ‘calda’, più vicina allo stile di Steve Perry che non di Robert Plant, ma se volevate gli Angel più pretenziosi e teatrali, ecco “Once upon a time an Angel and a Devil fell in love (and it did not end well)”, sorta di mini suite nella quale, come è facilmente intuibile, viene raccontata la storia d’amore tra un angelo donna e un diavolo uomo, appunto non finita nel migliore dei modi, nonostante l’amplesso riprodotto dalla voce femminile e qui si capisce perchè Charlie Calv siede sullo scranno di Giuffria, forse meno incline ad usare i sintetizzatori pomposi, ma di certo non sprovveduto nell’uso di altri altisonanti tasti d’avorio come l’Hammond. “Let it rain” calma un pò le acque nel suo incedere di semiballad pianistica, ma viene subito spazzata via da “Psyclone”, hard rock vigoroso che se non fosse per l’interpretazione di Frank, sfiorerebbe il metal, grazie alla svisate elettriche di Punky alle quali fa da contraltare un Calv sempre più convinto, liberatosi definitivamente del fardello di essere il “sostituto di…” e se “Blood of my blood, bone of my bone” non fa che confermare il saliscendi di umori che gli Angel riescono a creare all’interno dello stesso disco, risultando d’impostazione più emblematicamente rock abbellita dai cori femminili e dalla solita prestazione maiuscola di Punky in coda al brano, “Turn the record over” sfocia nel più classico hard pop che gli Angel avevano magistralmente sfoggiato in “Sinful”.

Tanto per non dimenticarsi di spiazzare l’ascoltatore più mollaccione che stava già sbavando, ecco arrivare “Rock star” aperta addirittura dall’accenno di riff iniziale della strafamosa “Layla” dei Derek & The Dominos di Claptoniana memoria, ma che poi si protrae in un altro coinvolgente hard funkeggiante e si apre in un glam anthemico di ampio respiro, sicuramente il brano più coinvolgente in cui tutta la band gira a mille e soprattutto Frank si ricorda di essere anche un discreto screamer, altro sprazzo di vecchi Angel è “Without you” che nonostante un incedere potente lascia spazio alle atmosfere ‘spaziali’ che avevano fatto la fortuna di un album come “On earth as it is in heaven” e, come dicevo in precedenza, Charlie Calv da prova di essere perfettamente calato nella parte, mentre Punky scolpisce il brano, soprattutto in chiusura, come poche altre volte, quindi la chiusura della versione in vinile è affidata al classico hard poppeggiante di “Liar liar” con tanto di ritornello di facile presa; dicevo della versione in vinile, perché quella in cd consta di tre canzoni in più, ossia “Daddy’s girl”, anch’essa di estrazione classicamente pop che può ricordare certe cose fatte dal David Lee Roth solista, “C’mon” più hardeggiante ma comunque di facile presa, quasi un singolo dalla semplicità disarmante e la conclusiva “Let the kid out”, sorta di urlo liberatorio dei ragazzi in salsa prettamente rock’n’roll. Ritornando a bomba sul quesito iniziale e chiedendosi se il fine è stato raggiunto, direi di sì e pienamente, gli Angel riescono a non essere ‘vecchi’ pur rimanendo fedeli alle loro radici, scavando nella creatività che li ha sempre contraddistinti, non adagiandosi sulla melodia facile a tutti i costi, sfiorando solamente le atmosfere edulcorate e oramai stantìe di questi ultimi anni, portando una ventata di aria fresca grazie alla classe di chi sa cosa vuole, sa di poterlo fare e soprattutto di poterselo permettere, chiudendo faccio due considerazioni dal sapore dolceamaro, in primis ringrazio gli Angel per esserci ancora a portare alta la bandiera hard rock in modo esaltante e credibile, in seconda battuta mi chiedo se sia possibile che per avere dischi di questa caratura, non scontati e livellati verso l’alto, ci si debba rivolgere sempre ai rockers di estrazione classica, mentre le nuove leve nuotano, spesso, nell’ordinario..

© 2023, Giorgio Barbieri. All rights reserved.

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