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24 Febbraio 2023 22 Commenti Samuele Mannini

Riflessioni in libertà sull’hard rock ed il suo ascolto.
Questo articolo vuol essere solo uno spunto per prendere coscienza di un argomento in realtà piuttosto dibattuto nei vari gruppi e forum che si occupano di musica in generale e di rock/hard rock in particolare, ovvero: quale futuro per la fruizione e l’evoluzione di questo genere? Qual è lo stato di salute di questo tipo di musica in mezzo a tutte le rivoluzioni, anche tecnologiche, che caratterizzano l’epoca odierna?
Ha senso per esempio avere 180 uscite l’anno di Hard rock più o meno melodico e Aor? Il numero è probabilmente arrotondato per difetto visto che noi su MelodicRock.it abbiamo fatto 150 recensioni lo scorso anno ed alcune uscite le abbiamo dovute tralasciare (dopotutto siamo umani)… Ha senso inoltre che la qualità media di tali uscite sia diciamo non eccelsa? Ed infine ha senso che gran parte delle produzioni (in senso di qualità sonora) sia abbastanza scadente? Per non parlare dei prezzi che il supporto fisico sta raggiungendo ai nostri giorni…
Per rispondere a questi interrogativi penso sia utile tornare a guardare il periodo in cui questo genere è stato in auge, ovvero gli anni tra il 1987 ed il 1991. In quegli anni infatti il genere hard rock ( in tutte le sue derivazioni, che non starò ad elencare) ha addirittura rischiato di diventare mainstream con camionate di dischi venduti, Whitesnake, Scorpions, Def Leppard, Guns N’ Roses, Bon Jovi, per non citare i Metallica del Black Album erano ascoltati comunemente persino qui in Italia, dove le atmosfere rock non sono mai state commercialmente redditizie. C’erano persino programmi Tv e Radio dedicati al genere nonché riviste specializzate in gran numero. Tutto ciò è stato solo frutto del caso? Oppure le colpe della situazione odierna sono da distribuire su molteplici fattori? C’è rimedio a questa situazione oppure dobbiamo rassegnarci all’ estinzione?
Un fattore sicuramente determinante è stata la politica delle allora major discografiche che hanno sempre inseguito solo il profitto e quasi mai arte e profitto vanno a braccetto (almeno nel lungo periodo). Mi ricordo che anche ai tempi ci lamentavamo delle tante uscite e dei tanti gruppi lanciati allo sbaraglio, ma è altresì vero che dal calderone della selezione naturale e selvaggia sono usciti poi gruppi che sono arrivati anche ai giorni nostri, e parlando di numeri, veniva considerato un flop un disco che vendeva 250000 copie, mentre oggi venderne 5000 è un successo.
Sicuramente l’avvento del digitale e tutta la faccenda Napster ha segnato un punto di svolta in negativo per tutto il music business, ma il modo in cui è stato gestito dalle etichette discografiche ha del paradossale e del suicida. Mentre all’inizio il fenomeno è stato combattuto con le più assurde tecniche di protezione digitale dei contenuti (vi ricordate i cd copy protected e la famosa copia legale?), successivamente il mezzo di diffusione digitale in formato mp3 ha fatto pensare alle etichette ad un facile guadagno tanto da far nascere i primi embrioni dei servizi di streaming… risultato? Molte case discografiche con i bilanci traballanti sono sparite dal mercato acquisite dalle più grandi ed alcune assorbite dagli stessi servizi di streaming con tutto il loro patrimonio di opere in catalogo. Questo diminuire di giro di affari alla lunga non solo ha distratto capitali da investire nella ricerca e promozione di nuove band e scene musicali, ma ha anche costretto le etichette a giocare sul sicuro con i soli grossi nomi che comunque garantissero un ritorno economico certo, il tutto in un circolo vizioso dove anche numerosi artisti si sono trovati fuori dal mercato o in ambiti estremamente ristretti con conseguente riduzione del giro d’affari complessivo.
Il cambiamento tecnologico ha infine ulteriormente portato ad un mutamento delle abitudini degli ascoltatori. Il rendere fruibile la musica su ogni genere di device tecnologico di basso livello ha fatto abbassare lo standard qualitativo delle produzioni rendendole tutte omologate e fatte apposta per essere ascoltate su un cellulare con le cuffiette o su You Tube dagli speaker del pc. Per chi come me è cresciuto con le produzioni stellari dei mid-eighties, fatte da produttori con i controcoglioni ( Alan Parsons, Beau Hill, Richie Zito… e l’elenco è sterminato) e magari abituato ad ascoltare la musica su un impianto hi-fi, è un vero e proprio trauma ascoltare certi pastrocchi moderni.
Siamo infine sicuri che l’aver trasformato gli ascoltatori in semplici fruitori a noleggio abbia giovato alla musica come forma d’arte? Prendiamo qualche dato economico: quanto è l’introito per una band che oggigiorno si appresta a rilasciare un disco? E quanto può essere il giro d’affari di una etichetta discografica che decide di investire dei capitali in un determinato artista? Crollando le strutture distributive delle major, anche la distribuzione delle copie fisiche ha subito una profonda ristrutturazione e col calo dei fatturati ( il famoso cane che si morde la coda). Sono poi aumentati i passaggi diminuendo così il margine operativo per le etichette e gli artisti, se prima infatti per esempio una Emi Records curava tutto dalla registrazione, stampa e distribuzione, il cambio verso realtà più piccole ha costretto ad affidarsi a distributori locali, aumentando i passaggi e diminuendo di conseguenza la catena del valore, oltretutto a scapito del prezzo dei supporti. Qualche numero per chiarire: se nel 1989 un disco stampato da una major al netto del costo garantiva un margine per l’etichetta di circa il 40/50%( da spartire poi con l’artista in base al proprio contratto) per copia venduta oggigiorno questo margine, soprattutto per le realtà medio piccole, si aggira se va bene al 20/25%. Esemplifichiamo: per una tiratura diciamo piccola/media (che però nel nostro genere ed al giorno d’oggi è praticamente uno standard) di 1000 copie e contando tutti i canali di distribuzione fisica ovvero, vendita diretta sul proprio sito, vendita coperta tramite distribuzione diretta e vendita in territori coperti da un distributore locale, a spanna il margine medio per un etichetta è di 4,5/5 euro a copia, mentre quello riconosciuto all’artista è 1/1,20 a copia, fate pure il conto di che cifre ridicole vengono fuori… (naturalmente poi ci sono le tasse, ma questa è un’altra storia). Ma lo streaming? Mi direte voi? Oggi lo streaming è il futuro ed è lì che si concentrano i guadagni… Beh fino ad un certo punto… Considerato che mediamente una piattaforma di streaming paga 0,005 Eur per brano, per fare 10 euro servono 2000 streaming ed anche qui l’introito va diviso tra etichetta ed artista, quindi tolta la percentuale che va al distributore digitale restano 4,5 euro a testa tra etichetta ed artista… ( anche da qui van tolte le tasse). Ergo, se per un artista dai grandi numeri che so una Shakira o una Rhianna non è un problema sbarcare il lunario, per una band del nostro genere oserei dire che l’apporto della musica liquida è in molti casi nulla più che un rinforzino ed ha più la valenza di farsi conoscere che un riscontro economico. Potrei aprire una piccola parentesi sul ritorno del Vinile, che come oggetto da collezione potrebbe garantire un piccolo margine in più sotto il profilo della remunerazione economica visti i prezzi di vendita, ma ad occhio e croce anche qui sembra che le grandi etichette si siano gettate sulla preda come squali affamati con il solo intento di mungere gli acquirenti senza realmente creare valore aggiunto per gli artisti.
Eccoci dunque al punto: al giorno d’oggi siamo diventati noleggiatori digitali di una musica creata da operai cottimisti, costretti dai numeri a fare dischi a ripetizione che suonano tutti uguali e che saturano un mercato sempre più piccolo. Questa è almeno la strada che io vedo percorrere da chi oggi gestisce il music business e viene da chiedersi se sia la strada giusta, oppure se sia necessario un radicale cambio di visione. Naturalmente le mie sono solo elucubrazioni di un ascoltatore e quindi ampiamente opinabili, ma viene da pensare che forse si dovrebbe puntare più sulla qualità che sulla quantità per sopravvivere in un ambito così di nicchia, fare magari meno uscite, puntare di più su gruppi artisticamente validi che siano in grado di abbracciare audience più vaste e destinare più risorse per promuoverli in vari ambiti, forse ci vorrebbe anche una maggiore coesione tra le varie realtà discografiche del genere che dovrebbero avere più coraggio, collaborare di più ed unire gli sforzi invece di promuovere una guerra tra poveri che, temo, in poco tempo ci porterà alla inevitabile fine. Anche noi fruitori infine potremmo con i nostri comportamenti indirizzarci verso le forme che consentano ad una etichetta ed una band di avere più margine orientando i nostri acquisti verso la qualità e cominciando a ri-considerare la musica un bene tangibile e prezioso invece di un sottofondo da avere mentre passiamo l’aspirapolvere.
Trovo svilente che la musica sia oramai considerata qualcosa di gratuito di cui fruire in qualità infima su YouTube o che pagando 9,90 al mese ci sentiamo con la coscienza pulita perché… beh insomma io ho pagato. Io penso che una volta quando avevamo comprato un disco, solo per il fatto di averlo pagato caro, gli dedicavamo una attenzione molto superiore e non limitandoci a dare giudizi solo per aver ascoltato 30 secondi di ogni brano; in poche parole avere a portata lo scibile umano non necessariamente ci porta ad avere una cultura più vasta e, personalmente, preferisco conoscere un disco nota per nota che ascoltarne 50 a pezzetti per poi poter sciorinare giudizi divini e paventare conoscenza enciclopedica.
Per concludere questo mio scomposto fluire di riflessioni vorrei dire che i dati numerici che ho citato sono un conto fatto a spanna e quindi (anche se mi sono documentato a proposito) devono essere presi come ordine di grandezza che naturalmente può variare da etichetta ad etichetta da paese a paese ed anche per artista coinvolto; servono solo a dare un quadro d’insieme per eventualmente stimolare una discussione ed una riflessione che necessariamente dovrà essere personale.
30 Dicembre 2022 19 Commenti Samuele Mannini

Cari lettori, anche il 2022 volge al termine ed è stato un anno di transizione sia probabilmente per il genere sia per noi di MelodicRock.it. A dispetto del sempre elevato numero di uscite mi è sembrato un anno meno vivace dal punto di vista discografico con , ovviamente, le dovute eccezioni. Non sono mancati i grandi nomi che hanno fatto discutere (vedi Journey e Giant) ed in mezzo a tanto marasma forse c’è stata meno voglia di innovare, ma magari è solo una mia impressione.
Per quanto riguarda MelodicRock.it pur in mezzo a difficoltà di ogni genere (delle quali magari parleremo in separata sede), avvicendamenti e nuovi ingressi, abbiam cercato di proporvi con i nostri soliti standard tutto il meglio della nostra musica preferita, cercando inoltre di ampliare un po’ gli orizzonti musicali strettamente legati al Rock melodico ed affini, senza però stravolgere la linea editoriale del sito. Insomma con le nostre 180 ed oltre recensioni tra novità e classici, le nostre tonnellate di news sempre esaustive e tempestive e la nostra presenza nella trasmissione radio Rock Of Ages speriamo di avervi fatto buona compagnia durante tutto l’anno.
Per il futuro con un po’ di riorganizzazioni interne e sempre sbattendoci al massimo delle nostre potenzialità, intendiamo proseguire la nostra crociata nel nome della melodia seppur in questo panorama non proprio idilliaco, ampliando per quanto possibile anche la parte social che oltre a Facebook per l’anno prossimo prevedrà anche il potenziamento e la razionalizzazione della nostra pagina Instagram, oltre alla creazione di nuove rubriche ed un maquillage al sito. Insomma, noi ci siamo e ci saremo nonostante tutto, sperando sempre di poter contare su di voi. We Rock!
Mannini Samuele, Direttore Esecutivo Di MelodicRock.it.
Samuele Mannini: Come ho scritto nell’introduzione, nel marasma delle numerose uscite del genere ho preferito come mio solito muovermi in territori un po’ borderline ed a tal proposito non ho potuto fare a meno di premiare le clamorose uscite Dei Poets Of The Fall, il ritorno da me attesissimo di nuova musica da parte dei The Quest e quel geniaccio di Andreè Theander con la sua nuova creatura Clouds of Clarity. Per il resto non poteva certo passare inosservato il ritorno dei Tears For Fears, mentre dopo un inizio altalenante mi sono ritrovato ad ascoltare con insistenza il power pop dei Taboo (che forse ho penalizzato un po’ troppo in sede di recensione). L’Italia è ben rappresentata dai veterani Lionville e dalla sorpresa StreetLore, mentre per i Journey ammetto che ha pesato il nome, anche se sono entrati per il rotto della cuffia per via della produzione diciamo…discutibile. Ecco dunque la mia top 2022.

Vittorio Mortara: Difficile scegliere questi 10 dischi. Difficile perché quest’anno ne abbiamo ascoltati veramente tanti. Tralasciando la delusione per le uscite di alcuni big e l’inconsistenza di un nugolo di esordienti, per il sottoscritto i botti di questo 2022 sono stati il veterano Richard Marx , i discotecari Reckless Love ed i tamarrissimi crucchi Kissin’Dynamite, con l’aggiunta dell’ultim’ora dei giovanissimi Violet! Menzione d’onore per i fuori tema Hellacopters, per i modernisti Taboo, per i pluriacclamati Generation Radio ed il progetto Monti/Nava a nome Street Lore. Insomma, anche se inflazionatissima di produzioni e supergruppi inutili, la nostra musica dimostra di potere avere un futuro. E per fortuna! perché io, come tutti voi , ne ho assoluto bisogno. Tanti auguri melodicrockers!

Yuri Picasso: Passa il tempo, non la sete di nuova musica di noi aficionados. E nonostante le note siano sempre quelle, di anno in anno il numero di uscite discografiche aumenta sempre più, rendendo oggettivamente questo angolo di riepilogo sempre più arduo, lacunoso e contestabile vista l’impossibilità ad ascoltare ed assimilare TUTTO. Delle tonnellate di musica fisica e non passata delle mie orecchie, chi premiare? Tra i new Act, gli svedesi Vypera per tecnica, freschezza e idee. Tra i vecchi leoni: La classe dei Dare; i Journey, dove la non curanza della produzione fa da contraltare alla capacità di trasformare emozioni in pentagramma. L’inossidabilità dei Treat, e la ritrovata verve di James Christian grazie l’ausilio di Mark Mangold. Cosa dire dei supergruppi o presunti tali? Buona parte meri tentativi di rivitalizzare encefalogrammi artistici piatti. Ad ogni modo, tra codesti, pollice su per i Generation Radio e i Kings of Mercia. Mio malgrado rimangono fuori di poco Violet e Skid Row. Quindi, anche se non in ordine, ecco la mia personale top 10.

Denis Abello: Anno quello appena passato che ha riservato ben pochi colpi ad effetto,e forse l’unico veramente degno di nota porta il nome di Generation Radio, superband nel vero senso del termine. Oltre a loro qualche colpo ad effetto c’è stato come StreetLore e Vypera ma il grosso della Top 10 è una conferma della bontà di alcune nuove leve (Fans of The Dark, Satin) o della classe dei soliti noti (91 Suite, Treat, Dare, Lionville, Edge of Forever). Incrociamo le dita per un 2023 più scoppiettante in termini di nuove proposte! P.s.: al solito alla mia Top 10 aggiungo qualche disco meritevole di menzione tra cui spiccano i Journey che con una scelta più bilanciata dei pezzi e una produzione di livello avrebbero potuto puntare mooooolto in alto… peccato… Altre menzioni per Ronnie Atkins – Make It Count, Kissin Dynamite – Not The End of the Road, Vypera – Eat Your Heart Out, Palace – One for the Road, Ten – Here Be Monsters e Rob Moratti – Epical.

Giorgio Barbieri: Come oramai saprete, io sono l’anima più heavy del sito (anche se non sono l’unico) e le mie scelte vanno quindi quasi esclusivamente sugli album che ho recensito, dato che sono quelli più nelle mie corde. Perciò, quando vedete nomi come Lugnet, Avatarium e Queensryche, non stupitevi più di tanto, questo sono io, nel bene e nel male. Buon 2023 a tutti i lettori!

Giulio Burato: Il 2022 verrà forse ricordato come l’anno dell’ultimo album in studio (sarà vero?) dei grandi Treat che mi sento dunque di omaggiare come migliore uscita dell’anno; “the endgame”, titolo esplicativo, è un album di grandi canzoni. Mi hanno poi stupito due band di stampo A.o.r. come gli spagnoli 91 Suite e i Generation Radio. I primi partoriscono un album con tante potenziali hit; i secondi sono una delle migliori “super band” create da sempre dall’etichetta Frontiers. Non posso però dimenticare “Impera”, altro album di spessore dei Ghost e “Freedom” dei carismatici Journey. Sorprese dell’annata: “Automaton” dei Crashdiet e “Are you ready” dei bravi Degreed. Buono il come back di Kenny Leckermo in sella agli H.e.a.t. Segnalazione finale per i Kissin’ Dynamite che con “No the end of the road” trovano la consacrazione con un album potente, melodico e ricco di belle canzoni.

Alberto Rozza: Quest’anno proverò a cimentarmi per la prima volta nella top ten con un particolare riguardo ai tre dischi che ho gradito maggiormente. Al terzo posto il debutto dei rumeni Manic Sinners (“King Of The Badlans”), album interessantissimo, fresco, con sprazzi di originalità rari ai nostri giorni; sono stati veramente una scoperta e spero di vederli pure dal vivo. Al secondo posto “The Final Battle” degli Stryper, che dimostrano ancora una volta che nonostante tutto se sei a certi livelli da anni c’è un motivo senza considerare che il sound del disco è una vera e propria bomba. Al primo posto l’eterno Graham Bonnett con “Day Out In Nowhere”… semplicemente un maestro vero, paradossale che il più anziano sforni ancora i prodotti migliori, ma si sa: gallina vecchia fa buon brodo! Per il resto gli altri dischi che ho trovato meritevoli sono elencati qui sotto. Buon 2023 ai lettori!

Francesco Donato: Anno sicuramente non avaro sul fronte uscite questo 2022, con parecchie band che hanno approfittato dell’allentamento della situazione covid e consequenziale apertura ai live per sfornare i loro lavori. Non sono mancati nomi importanti della scena più recente come Hardocore Superstar, H.E.A.T, Crashdiet e tanti graditi ritorni dalla golden era come Def Leppard, Treat, Dare, Skid Row, Ten, Stryper, Michael Monroe, Journey. Poche per quanto mi riguarda le uscite folgoranti in merito agli esordi, quest’anno insomma è mancato “l’effetto Nestor” ma non sono mancate le superband come ad esempio i Generation Radio. Ecco dunque la mia Top Ten e buon 2023 a tutti i lettori!

Iacopo Mezzano: In un anno, a mio avviso, non molto ricco di uscite di rilievo certificato da soli 15 dischi acquistati datati 2022, presento la mia personale top ten con cinque nomi convincenti ed altri cinque un po’ così così… sperando in un 2023 più entusiasmante faccio i miei migliori auguri a tutti i lettori!

13 Maggio 2022 7 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti
La fama planetaria ha avuto inizio con Drive, uscito nel 2011. Un autentico gioiello cinematografico di violenza e romanticismo, dove la sublime fotografia di Newton Thomas Sigel, strabordante di luci e colori, riporta lo spettatore nel pieno degli anni Ottanta. Ma gli embrioni della New Retro Wave brillavano di vita già da qualche tempo. Gli anni Ottanta erano tornati. Coloro che erano nati negli anni Ottanta avevano riscoperto gli anni Ottanta. E li avevano fatti diventare più anni Ottanta degli anni Ottanta stessi. Alcuni generi capisaldi degli Eighties (synth pop, new wave, new romantic) erano stati assorbiti ed espansi, i modelli raggiunti e superati. Su questo simulacro era così nato un nuovo genere, appunto la New Retro Wave, chiamata anche Dreamwave, o Synthwave, che rievocava il sognante universo immaginifico di un decennio magico, visto con gli occhi dei bambini di allora.
Oltre a Drive, ricordiamo ampi sfondi di Dreamwave in Stranger Things, Turbo Kid, Kung Fury, Moonbeam City, l’episodio San Junipero di Black Mirror, o i videogiochi come Hotline Miami, Neon Drive, Retro City Rampage e New Retro Arcade.
Si tratta di una nuova tendenza musicale che, a differenza di quanto è accaduto con altre tendenza del passato, non si fonda sulla prossimità fisica o su una città precisa, come New York, o Londra, ma addirittura sull’immateriale, sull’astratto: si fonda su un nostalgico, sognante paradiso perduto.
Ma stiamo parlando solo di musica? No, affatto. Stiamo parlando di molto, molto di più. La New Retro Wave afferra il tuo inconscio, i tuoi ricordi, la tua infanzia, mette tutto dentro un dannato frullatore e ti restituisce un orizzonte perduto, fatto di colori fluo e sintetizzatori. Questa musica vede il presente e il quotidiano come una realtà che non interessa e che deve essere rifiutata. L’obiettivo è creare un presente alternativo, sulle ceneri di un tempo che sembrava svanito per sempre.
La Dreamwave riesce a dare nuovamente vita agli anni Ottanta, una versione elaborata e sofisticata degli anni Ottanta, come fossero una nuova Isola che non c’è (..o meglio che non c’era fino a quel momento!) e noi tanti, sognanti, Peter Pan che la intravedono delinearsi all’orizzonte. L’universo che la New Retro Wave vuole rievocare è un universo vivido, molto potente, e ancora pulsante. Il passare del tempo non lo ha scalfito. Anzi, succede che l’inconscio e i ricordi sobbalzano quando passano certe immagini. Le lancette fanno un balzo indietro nel tempo di trent’anni, come se nella memoria si potesse percorrere una distesa e soleggiata Ocean Drive, quando tutto era ordinato, pulito e colorato, e noi potevano guardare il mondo con gli occhi della giovinezza.
Gli anni Ottanta erano e magicamente tornano ad essere un paradiso pronto ad accoglierci. Rocky che corre sulla spiaggia con Apollo, la breakdance, i pattini a rotelle e lo skateboard, la BMX, Cindy Crawford, Tony Montana e Mannie in Scarface, Miami Vice. E più l’Ocean Drive scorre, più veniamo nuovamente travolti ed abbagliati dai neon e dalle insegne brillanti dei Cinema di allora. E’ di nuovo tutto lì, davanti ai nostri occhi. Star Wars, E.T, Indiana Jones, Batman, i Goonies, Ritorno al Futuro, Robocop, Rambo, Arma Letale, e così via. E, ancora, avete presente la mitica scena di Terminator, dove Schwarzy rade al suole il distretto di polizia e uccide tutti i poliziotti? Ebbene, il sound in sottofondo è estremamente Dreamwave.. E sempre citando Terminator.. (si capisce che sale sul mio podio cinematografico di sempre?) vi ricordate alla fine cosa urla il bambino accorgendosi delle nuvole che stanno arrivando nel cielo? “Mira, mira, viene una tormenta!”. E’ esattamente quello che è accaduto nella realtà, alla fine di quel magico decennio. Nessuno immaginava che di lì a poco il futuro potesse ribaltare la realtà in modo tanto nefasto e deprimente. Ma noi siamo ancora qui, altri no. E siccome noi siamo qui, quel paradiso perduto ce lo andiamo a riprendere!
La nostalgia degli anni Ottanta è molto di più di un revival passeggero, ormai è un vero e proprio caposaldo del mondo di oggi. È un fenomeno nato tra le pieghe del web e partorito dalla fantasia e dalla creatività di artisti con la speleologia musicale scolpita nel cuore e scintillante di rosa fluo. In qualche anno la New Retro Wave ha assunto la dimensione di un fenomeno di portata planetaria. Un artista come Perturbator dalla colonna sonora di Hotline Miami è arrivato a diventare un nome di punta in vari festival, tra cui quelli metal, gli autori della colonna sonora di Stranger Things sono finiti sui palchi del Primavera Sound, e i The Midnight e gli FM84 fanno sold out a Los Angeles, in un locale come il Globe Theatre.
Ma esiste un luogo, seppur immateriale, a metà strada tra realtà e sogno, dove l’universo della New Retro Wave prende forma, e dove per certi versi ha visto la luce: il canale New Retro Wave.
Nato nel 2011 come semplice aggregatore di brani Dreamwave, per il suo fondatore Ten NRW è sempre stato un progetto che nell’arco di qualche anno ha finito per diventare una vera e propria piattaforma multi sfaccettata. Il canale You Tube ha superato abbondantemente il mezzo milione di iscritti, il sito NewRetroWave ha una sezione Music, una Art & Photography e addirittura un negozio online per acquistare il merch ufficiale. In una recente intervista è lo stesso Ten a raccontare: “.. questo meccanismo è in azione da prima che il fenomeno della Synthwave arrivasse ad una coerenza. La gente cominciò ad interessarsi ai generi anni Ottanta come la new disco o la french house, magari un po’ di retro electro. Da questa scoperta il passaggio fondamentale fu il campionamento. I ragazzi appassionati iniziarono a campionare quelle basi, quei suoni così profondamente Eighties, e li usarono per creare qualcosa di nuovo”. Secondo Ten, la svolta decisiva della Synthwave fu proprio questa inversione di prospettiva. L’abbandono del sampling Eighties per creare qualcosa di nuovo, per creare materiale che suonasse anni Ottanta ma che rispettasse generi e regole contemporanei.
“Artisti come College o Futurecop furono tra i primi a comporre musica quasi revivalista, con quel retrogusto nostalgico eppure con un sound personale. E quello è il nucleo dell’intero movimento, il cuore pulsante della Synthwave: la musica che ogni giorno gli artisti creano e condividono. Io sono arrivato solo nel 2011 e ho aperto il canale, ma il materiale era già tutto lì. Musicalmente, ma anche in termini di immagini e video, perché questo è un genere che ha una fortissima impronta visiva”. Abbiamo già citato Drive come un fulgido simulacro cinematografico della New Retro Wave. Ebbene, oltre ai College, là dentro c’era anche Kavinsky, e “la sua Nightcall cambiò le regole del gioco, portando un numero incredibile di persone a contatto con quel sound su You Tube. Fu lì che cominciò a crearsi una domanda per questi suoni, e io aprii New Retro Wave proprio in quel momento”, racconta ancora Ten.
E se la New Retro Wave è esplosa in un lasso di tempo relativamente breve ed è ancora adesso un fenomeno in fase embrionale, è lo stesso Ten che si domanda dove potrà arrivare tra cinque o dieci anni. Beh, quasi non lo vogliamo sapere, ma al solo pensiero i nostri cuori Eighties sussultano. Certamente la cosa più bella e figa che possiamo fare, oggi, è goderci i meravigliosi pezzi che la New Retro Wave ci sta regalando. Mi piace pensare di essere stato fortunato ad aver potuto seguire il suo maestoso evolversi fin dagli esordi. Correva l’anno 2011 quando ebbi il primo contatto con il mondo della New Retro Wave. Al cinema avevo visto Drive, imperniato di quella magica atmosfera Eighties, e avevo potuto conoscere le bellissime Real Hero dei College e Nightcall di Kavinsky. Ma eravamo ancora ai primordi della New Retro Wave.
La vera tempesta mi investì due anni più tardi, quando conobbi uno dei punti più alti della Dreamwave. Nell’estate del 2013, infatti, scoprii qualcosa di meraviglioso nelle pieghe nascoste di internet. Si trattava di un album di demos di una sconosciuta cantante greca di nome Kristine. Mi ricordo ancora le parole usate dal sito per lanciare Kristine.
Get a ride in your DeLorean and enjoy her demos!
Fu esattamente così! Un tripudio di sintetizzatori e batterie elettroniche, un’atmosfera anni Ottanta come non mi capitava di percepire da anni. Sensazioni che l’AOR e l’Hair Metal ormai non mi trasmettevano più, come più volte ho scritto sulle pagine di melodicrock.it. Generi questi che da tempo mi lasciavano la netta sensazione di essere mostri sacri che stancamente si trascinano lungo il viale del tramonto, tra vane nostalgie ormai prive di dirompenza e “bolliti” tentativi di rinnovarsi miseramente destinati a fallire.
Nei pezzi di Kristine, invece, tutto sapeva di anni Ottanta. Ti riportavano indietro di almeno trent’anni. Intendo proprio dire fisicamente. Quei pezzi prendevano il tuo corpo e lo riportavano nel 1985. L’ultima volta che avevo sentito simili emozioni correva l’anno 2004. Avevo appena scoperto gli Outside Edge, ed era stato amore al primo ascolto.
Quattro anni fa, sulle pagine di melodicrock.it, in un articolo della sezione Gemme sepolte, avevo inserito proprio gli Outside Edge e il loro Running Hot datato 1986. Avevo descritto il loro AOR come uno “space AOR”, fatto di futuristiche melodie, trasportate da un tappeto di roboanti tastiere. E suggerivo che bastava farsi trasportare da quelle tastiere, salire sulla navicella spaziale e correre tra le galassie. Ebbene oggi posso dire che tra le galassie, in uno scintillante cunicolo temporale, abbiamo trovato la Dreamwave!
Gli Outside Edge sono in assoluto il gruppo che più avvicina l’AOR alla Dreamwave, come uno scontro tra galassie lontane, per dare origine ad una “supernova Eighties” irradiata di magici riflessi rosa fluo. In qualche modo, mi piace pensare che gli Outside Edge possano essere considerati gli antesignani della Dreamwave.
Ho scelto per voi dodici pezzi che a mio parere rappresentano l’Olimpo della Dreamwave, e ve ne parlerò rispettando un rigoroso ordine di uscita, come se fosse una maestosa risalita tra i meandri del tempo di un’anima anni Ottanta tornata a nuova vita.
Se non conoscete appieno la Dreamwave, ascoltare Kristine è senza ombra di dubbio la strada maestra per farsene travolgere. Dal suo unico album, che venne pubblicato nel 2015, vi invito ad ascoltare The Danger. Fu il primo pezzo che ascoltai, e fu subito tempesta! L’incedere martellante della batteria, le tastiere che aprono l’orizzonte, immagini di Top Gun che scorrono nella memoria, e quei cori così dannatamente anni Ottanta che sfumano nel finale.. goduria Eighites totale!
Kristine ci ha anche regalato The Deepest Blue, pezzo in origine non compreso nei demos, ma uscito successivamente come singolo e poi pubblicato all’interno dell’album. Nelle estati successive The Deepest Blue è stata la sognante colonna sonora delle mie vacanze in barca, accompagnandomi dalla Sicilia alla Puglia, dalla Grecia a Ponza, mentre lo sconfinato blu del mare mi circondava e i gabbiani volavano alti nel cielo. Vorrei anche ricordare che Kristine ha collaborato con i Crazy Lixx nella realizzazione della loro bellissima Walk The Wire.
Right Back to You degli Electric Youth rappresenta un altro incredibile salto nel 1985. Il video del pezzo è costruito sul film Il Giorno della Luna Nera, e mostra una giovane Linda Hamilton sfrecciare alle 300 miglia all’ora a bordo del veicolo chiamato Luna Nera, tra le strade di una notturna Los Angeles.
Magic degli Fm Attack è un pezzo del 2013 cantato da Kristine. Gira un video fatto con immagini di videogiochi degli anni Ottanta prese da svariati film. Bastano quelle immagini e quella tastiera così Eighties ad introdurre il pezzo e la voce sognante di Kristine a costruire attorno a noi un romantico e nostalgico caleidoscopio di ricordi di infanzia.
Days Of Thunder dei The Midnight è a mio parere uno dei pezzi più rappresentativi della Dreamwave. Uscito nel 2014, Days Of Thunder rappresenta un vero e proprio salto indietro nel tempo. Il sax trasporta lontano, e riesce a catturare lo spirito di un tempo perduto, in cui il mondo sognava un futuro paradisiaco, e sembrava che quei giorni di tuono non dovessero finire mai..
Nel 2015 esce Take Me Back dei Kalax, e qui arriva un altro classico della Dreamwave. Il coro Take me back to 1984 I can not stand the future anymore è una vera e propria bomba Dreamwave, ed è da cantare a squarciagola in cabrio, mentre si sfreccia in piena notte per le strade della città! Io l’ho fatto, e si ritorna veramente al 1984!
Dana Jean Phoenix è un’altra regina della Dreamwave. Le Mirage è un pezzo uscito nel 2016, ma in realtà vi riporta in piena estate ’85. Siete sdraiati su una calda spiaggia di Malibu, e davanti a voi il sole sta tramontando, lanciando riflessi dorati sul mare..
Nel 2017 esce Bad Dream Baby dei September 87. Riguardo a questo pezzo, ricordo un paio di commenti su YouTube che recitavano circa Retrowave is the best thing that has happened the music industry since the 80’s, e When it’s more 80’s than the 80’s. Andando a rievocare tra le mie memorie AOR, il pezzo potrebbe ricordarmi i migliori Haywire. Più anni Ottanta degli anni Ottanta, appunto.
I Wolfclub fanno uscire la loro Had To Get To You nel 2018. Qui siamo ai livelli più alti della Dreamwave. C’è tutto. Grinta, romanticismo, e vena malinconica. Un mix perfetto che ci riporta a metà anni Ottanta, ancora una volta. Un coro spettacolare, che praticamente tutti i gruppi AOR in attività oggi pagherebbero a peso d’oro!
Nel 2019 i LeBrock escono con la spettacolare Takes All Night. Ma i LeBrock sono attivi già dal 2016 con album di grandissimo impatto, tastiere a profusione e cori che sembrano scolpiti negli Eighties. I LeBrock sono senza dubbio il massimo punto di congiunzione tra la Dreamwave e l’Hair Metal di leppardeggiante memoria. Proprio la chitarra nel finale di Takes All Night spalanca una specie di tunnel spazio temporale, e se lo percorriamo tutto ci troviamo nel 1986.
Arriviamo al 2021, l’anno che ci siamo lasciati alle spalle. Ebbene, da questo 2021 io porto con me due pezzi che si collocano forse tra le prime posizioni di sempre nella mia classifica Dreamwave.
Come nel caso di Had To Get To You, anche City Nights dei Dryve spara un coro che molti gruppi AOR di oggi invidierebbero fino a torcersi lo stomaco. Melodico, romantico, intenso, e dannatamente anni Ottanta.
Come Alive di Ace Buchannon e cantata da Anna Moore rappresenta un altro altissimo punto di Dreamwave. Il sax è una potenza, ti entra in testa fin dai primi secondi di ascolto, ed immediatamente ti trasporta a Miami Beach, nel giugno del 1987. In cabrio stai sfrecciando sull’Ocean Drive, lo sguardo si perde lungo l’Oceano Atlantico, e alla radio Ronald Reagan pronuncia le storiche parole davanti alla porta di Brandeburgo “Mr Gorbacev, tear down this wall!”.
Inoltre è uscito da non molto il nuovo album dei Midnight Danger. Out in The City Lights è un bellissimo pezzo cantato da Danny Rexon dei Crazy Lixx e addirittura da un vecchio mito anni Ottanta come Kane Roberts. Il melodic Hair Metal ispirato alla seconda metà degli anni Ottanta è come un vecchio leone tramortito e annebbiato dalle polveri del tempo. Ha un dannato bisogno di nuova linfa vitale. E’ forse un caso che Danny Rexon dei Crazy Lixx, forse l’unico gruppo top di adesso, oltre ad aver collaborato con Kristine qualche anno fa, come abbiamo già detto, si sia lanciato adesso in questa avventura?
Cosi, nel 2022.. che la galassia Dreamwave stia per impattare la galassia Hair Metal.. per dare luogo ad un Big Bang più anni Ottanta degli anni Ottanta stessi?? A quel punto potremmo anche morire felici..
30 Dicembre 2021 19 Commenti Samuele Mannini

Attraverso le selezioni delle uscite di questo 2021, ahimè ancora pandemico, potrete farvi una idea dei dischi che hanno fatto parlare di se e potrebbe essere una occasione per approfondire o scoprire qualcosa che è sfuggito alle vostre orecchie. Troverete i diversi pareri dei redattori che guardano alla nostra musica secondo le loro diverse sensibilità, per offrire ai nostri lettori uno sguardo a 360° su tutto il panorama dell’ Hard Rock, Melodic Rock, Aor ed affini. Fateci sapere la vostra opinione sui dischi dell’anno e speriamo che il 2022 ci porti tanta buona musica!
Denis Abello:
Parliamoci chiaro, questo per me è l’anno dei NESTOR… erano anni che un album non mi coinvolgeva in questo modo, vorrà pur ben dire qualcosa? Secondo, la Redazione mi ha obbligato a buttare giù una lista con “SOLO” 10 titoli… cosa che mi ha fatto quasi dare le dimissioni e appendere le casse al chiodo! Poi ho riflettuto sul fatto che sarei stato una perdita troppo grande sia per la redazione che per i nostri affezionati lettori e così ho deciso di adeguarmi a questo regime musicale dittatoriale. Anno a livello di uscite con pochi colpi ad effetto e tante conferme con in più l’incertezza di un futuro live che ormai da fans bramiamo con profondo desiderio (Fuck Covid!)! Di seguito trovate la mia personale TOP 10… ma con l’aggiunta di una serie di album fuori
classifica ma per il sottoscritto meritevoli di menzione.
Menzioni: Steve Emm – First Strike, Micheal Kratz – Tafktano, Cruzh – Tropical Thunder, Seventh Crystal – Delirium, Wig Wam – Never Say Die, Gary Hughes – Waterside, Chez Kane – Chez Kane, John Dallas – Love & Glory, The Night Flight Orchestra – Aeromantic II, Eclipse – Wired, W.E.T. – Retransmission, Mark Spiro – Traveling Cowboys, Platens – Of Poetry and Silent Mastery
(Nota Di Redazione: Ci vuole pazienza coi megadirettori…. 🙂 )
Samuele Mannini:
Contrariamente a molti altri , io ho trovato questa annata tutt’altro che disprezzabile. A livello di uscite, se si va un po’ oltre al marasma dell’onda scandinava, anche abbastanza varia. I dischi che ho scelto spaziano infatti dal melodic rock più intimista, al prog tendente anche al metal, oltre naturalmente all’ hard rock d’autore. Sono particolarmente orgoglioso della scena italiana che ha proposto dischi di qualità assoluta. Per chiudere, a metà dicembre l’uscita bomba dei Cap Outrun mi ha scombussolato tutti i piani, balzando in cima alla classifica di slancio. Per carità, magari non siamo tornati alla golden age, ma con un po’ di pazienza e un po’ di mente aperta, qualche piccolo tesoro si trova.
Yuri Picasso:
Il 2021 verrà ricordato in ambito artistico, specialmente nell’universo musicale ma non solo, come un anno di transizione e di attesa. Nell’anno venturo dovremmo (condizionale d’obbligo al momento in cui scrivo) tornare all’adrenalina dei concerti e dei festival. E solo in Italia se scorriamo tutti i gruppi rock, metal ma non solo, che hanno date programmate nel 2022, c’è da farsi venire l’acquolina in bocca. Speriamo che la musica live e il lieto fine possano ricongiungersi come da programma. Cosa dire degli sforzi profusi sulla nuova musica da studio in questo anno volto a fine tramonto? Nessun capolavoro, limitate ed interessanti sorprese, conferme di qualità da parte di chi un tempo ruggiva. Quindi, anche se non necessariamente in lista di preferenza assoluta, ecco la mia personale top 10.
Giulio Burato:
Nel complesso il 2021 è stato un discreto anno a livello di uscite discografiche nel settore melodic rock. Le migliori uscite, a mio avviso, sono state ad inizio anno (Ronnie, Chez Kane, Creye, Inglorious, W.e.t, The Dead Daisies, Seventh Crystal e Thunder) e c’è stato un buon colpo di coda a fine anno con dei validi album come Eclipse, Heartland e l’oggetto misterioso Nestor, solo per citarne alcuni. A livello produttivo, mediamente, siamo sempre, e purtroppo, distanti anni luce dalla qualità degli anni 80/90, ma ovviamente i budget sono esigui e quindi bisogna adattarsi.
Vittorio Mortara:
Diciamoci la verità: il 2021 non è stato un anno straordinario per le uscite nell’ambito della nostra musica. Tuttavia, pescando in mezzo a miriadi di uscite più o meno inutili, abbiamo ascoltato alcune piacevoli sorprese accanto a conferme e delusioni clamorose di nomi di livello. La classifica che ho stilato cerca di premiare un po’ tutto: la qualità, la classe, l’innovazione, i sentimenti, l’adrenalina e, perché no, la “piacioneria”. Canzone dell’anno: “Motherland” dei Reach. A voi l’ascolto e il giudizio ultimo. Buon anno melodic-rockers!
Max ‘Aor’ Carli:
Anno di transizione causa pandemia? Può essere, ed anche se non mi sono particolarmente esaltato con le uscite dell’anno in corso qualcosa di buono sicuramente c’è. La scandinavia continua a farla da padrona nella scena melodic rock e detta la linea delle moderne sonorità, ecco qui sotto una lista di quello che più mi è piaciuto in questo 2021.
Max Giorgi:
Gentili lettrici e lettori di www.melodicrock.it anche questo 2021 dal punto di vista musicale è andato in alterne direzioni, con belle sorprese e tonfi importanti . Tre band su tutte, ed anche al loro esrordio, meritano il podio: sono i Seventh Crystal, i Nestor ed Cap Outrun che con diversi stili ed approcci hanno deliziato i miei padiglioni auricolari. Bella sorpresa anche i Fans Of the Dark che però vincono a piene mani anche la mia personale classifica della copertina più brutta. Parlando in generale, si denota l’altissimo numero di uscite discografiche che però non si associa ad alte medie qualitative e purtroppo. alla cronica carenza di produzioni di alto livello. Buone Feste a tutti!!!!
Giorgio Barbieri:
Annata un po’alterna il 2021, da un lato l’esplosione della melodia in salsa scandinava, gradevole sì, ma anche abbastanza ripetitiva, dall’altro una voglia di esplorazione e di contaminazione sia in area prog, sia nella riscoperta dei seventies. Un bell’applauso alla scena italica che riesce ad esprimere vette di eccellenza come (quasi) mai è riuscita negli anni. Quindi che dire, tra mostri sacri e nuove promesse speriamo che il 2022 ci porti anche la possibilità di godere nuovamente dei live e di proposte musicali sempre all’altezza. Stay Rock!
Leonardo Mezzetti:
Il 2021 è un anno senza uscite che resteranno nella storia. I Crazy Lixx sono i dominatori incontrastati del 2021, e non potrebbe essere altrimenti. Gran parte del destino dell’hair metal melodico è ancorato a loro. La grande melodia dei Creye al secondo posto e la scintillante Chez Kane al terzo. Parziale delusione per gli Eclipse al quarto posto.
03 Settembre 2021 7 Commenti Samuele Mannini
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Dopo l’approfondimento sulla Loudness War che potete rileggere a questo LInk , andiamo ad affrontare un’altro argomento legato alla qualità degli ascolti.
Negli ultimi anni si assiste al ritorno in grande stile del disco in vinile come mezzo di distribuzione musicale e con sempre più nuovi titoli, fiere del disco, mercatini dell’usato etc.. le collezioni di noi appassionati di questo glorioso supporto sono in piena espansione. Vediamo quindi quali sono i metodi per prendersi cura del vinile in modo di fruire al meglio delle sue possibilità, troppo spesso sottovalutate.
Sicuramente i graffi profondi e l’usura (spesso dovuta ad incuria e all’uso di giradischi scadenti), sono danni ai quali non si può porre rimedio, ma con le dovute cautele si può preservare per lungo tempo questo supporto e fruirne in qualità elevata. Per quanto riguarda invece l’accumulo di carica statica e il deposito di polvere, che sono i veri nemici dell’ascolto, abbiamo diverse frecce al nostro arco per migliorare drasticamente la situazione.
Piccola premessa doverosa, quello di cui scriverò è frutto delle mie ricerche e di prove effettuate direttamente da me, nonché dalla lettura di numerosi articoli e dalla visione di decine di video guide sull’argomento, inoltre dove è stato possibile mi sono premurato di informarmi direttamente verso le aziende produttrici, soprattutto per quanto riguarda la parte chimica e le varie interazioni tra materiali. Nel mondo del vinile ci sono infatti credenze e miti, con relativi guru portatori di verità assolute, che sono difficili da sfatare soprattutto per via della soggettività con la quale viene vissuta questa passione. Lungi da me quindi mettere in discussione le certezze di chi leggerà, ma soltanto la volontà di affrontare l’argomento con un approccio più possibile scientifico , basato come detto su un minimo di chimica, esperienza diretta ed informazione, condite da una goccia di buon senso. Se tutto ciò porterà ad un sano confronto e offrirà spunti di discussione interessanti, allora ne sarò veramente lieto.
L’elettricità Statica.
La prima cosa da affermare con certezza è che ciò che impedisce al vinile di restare pulito, oltre a produrre fastidiosi rumori durante l’ascolto, è l’elettricità statica che si accumula sul disco dall’azione meccanica dovuta allo scorrere della puntina sui solchi e dai micro movimenti del disco che struscia sulla carta delle buste interne della custodia del vinile. Senza stare a scomodare la scienza, quando un corpo è caricato elettrostaticamente è risaputo che attiri a se le particelle di polvere presenti nell’ambiente circostante e quando la polvere si infiltra nei microsolchi di un vinile è un bel problema tirarla fuori. Vediamo dunque quali possono essere i metodi per limitarne al minimo l’accumulo.
Primo fattore critico è quello ambientale. Il clima secco favorisce la formazione di cariche elettrostatiche, in determinate stagioni quindi un umidificatore per ambienti può aiutare almeno in parte a ridurre il problema.
Secondo fattore, il giradischi. Il tappetino che giace sul piatto del giradischi contribuisce a caricare elettrostaticamente il vinile durante la sua rotazione. Per determinare quale materiale sia più dannoso ci vorrebbe uno strumento di misura e delle prove oggettive difficilmente ripetibili, ma da numerosi video che circolano che effettuano questo tipo di prove empiriche, sembrerebbe che i tappetini in gomma e quelli in feltro siano quelli più nocivi. Quelli elettricamente più neutri sembrano invece essere quelli in acrilico o perspex, ma anche senza andare troppo su materiali esoterici, in pelle . Giova inoltre sapere che una puntina pulita aiuta a caricare meno il vinile, così come un taglio della puntina più pregiato, come il microlinear o lo shibata, venendo in contatto con una porzione minore del solco accumula meno carica sul disco.
Terzo fattore, lo stoccaggio del vinile. Le buste di carta bianche classiche che si trovano spesso nei dischi, sono letali per quanto riguarda il caricamento elettrostatico, il continuo strusciare , anche in fase di estrazione o inserimento, favorisce l’accumulo sul disco, senza contare che quelle forate addirittura non pongono nessun ostacolo all’infiltrazione della polvere. Sostituire queste, con delle bustine trasparenti in materiale plastico o con buste con l’interno rivestito in materiale antistatico, aiuta sicuramente sia nella fase di stoccaggio , sia nel mantenimento di una bassa carica.
Quarto fattore, la pulizia. Ci sono metodi che riducono fortemente le cariche statiche e sono quelli ad immersione. Il bagno in soluzioni prevalentemente di acqua distillata eliminano quasi totalmente gli ioni presenti sul vinile, mentre altri sistemi di pulizia non sono altrettanto efficaci , ma ne parleremo in maniera approfondita nella parte dedicata alla pulizia.
Ultima e probabilmente più efficace cura è invece la mitica pistola spara ioni, milty zerostat , il funzionamento è semplice basta puntarla sulla superficie premere il grilletto e genererà ioni che praticamente azzerano la carica presente sul disco.
Una volta capito come limitare l’effetto calamita che riempie di polvere il nostro amato supporto, affrontiamo il problema della pulizia vera e propria e poiché, tra i metodi di pulizia più efficaci ci sono quelli che prevedono l’uso di soluzioni liquide con cui cospargere o in cui immergere il vinile, dovremmo portare la nostra attenzione sulla composizione sia delle sostanze, sia del supporto su cui andremo ad agire.
Di cosa è fatto il Vinile e cosa usare per pulirlo.
Il materiale di cui sono fatti i dischi è sostanzialmente policloruro di vinile comunemente noto come PvC , ma questa è una grossolana approssimazione. In realtà è una composizione a base di PvC alla quale vengono aggiunte varie sostanze, che la maggior parte dei produttori tengono segrete. Come mi sono peritato di chiedere ad un paio di aziende, esse forniscono su richiesta dei vari impianti di stampa almeno sei tipi di compound diversi a seconda, per esempio, del tipo di pressa che andrà a stampare fisicamente il disco . Se a tutto ciò aggiungiamo che ci sono numerose aziende che producono il pellet di vinile, che numerose aziende che producevano in passato non esistono più, che in varie aree del pianeta si usano procedure leggermente differenti, che certi additivi del passato non sono più a norma di legge, che in diversi impianti si usa anche vinile riciclato ed infine che i vinili colorati ( anche il nero perché tecnicamente il PvC sarebbe semi trasparente) usano additivi diversi tra loro, è facile capire che praticamente nessun disco ha la stessa composizione chimica di un’ altro. Questo discorso serve a fare notare con quante accortezze bisogna muoversi quando si intendono usare liquidi per pulizia che potrebbero andare ad interagire chimicamente con uno dei componenti del vinile che nemmeno ci è dato di conoscere.
Da ricerche in giro sul web e da esperimenti personali sono concorde che usare un approccio conservativo nel comporre la propria soluzione pulisci vinile sia di fatto la cosa migliore. Molti guru consigliano le soluzioni più improbabili come prodotti di pulizia per vetri, sgrassatori vari ed eventuali, detersivi per piatti e addirittura shampoo per capelli, adottando un approccio un po’ più scientifico corroborato da pareri esperti e meno basati sulla magia, direi che la perfetta soluzione di pulizia è composta da acqua distillata , alcool isopropilico e un’agente tensioattivo (ovvero una sostanza che rompe la tensione superficiale dell’ acqua consentendole di penetrare più in profondità nei solchi), ma adesso vediamo però in che proporzioni. Poiché comunque esiste una scuola di pensiero che dice che l’alcool sia dannoso per il PvC , è meglio mantenere un approccio conservativo ed evitare di esagerare, perché comunque è risaputo che l’alcool sia un ottimo solvente per i grassi, dovremmo trovare un giusto bilanciamento tra pulizia e sicurezza. Direi che una percentuale in diluizione del max 5% in acqua distillata possa fornire una pulizia efficace senza mettere a rischio la composizione chimica del vinile, per quanto riguarda il tensioattivo esistono specifici prodotti in commercio studiati proprio per la pulizia degli Lp, il più famoso dei quali è il tergitol, una alternativa molto apprezzata e impiegata vista la sua efficacia e maggiore economicità è ILFOTOL di ilford, agente bagnante largamente utilizzato nello sviluppo delle pellicole fotografiche. Per quanto riguarda le mie prove personali ho ottenuto splendidi risultati con la seguente miscela 95% acqua distillata 4% alcool isopropilico 1% ILFOTOL. Chiaramente ognuno sarà libero di fare i propri esperimenti ed anzi sarei curioso di sapere quali sono le soluzioni più usate.
Vediamo adesso quali sono i metodi di pulizia vera e propria cercando di valutarne l’efficacia caso per caso.
Metodi di pulizia manuali.
Il primo metodo di pulizia consiste senz’altro nella famigerata e ultra nota spazzolina in fibra di carbonio . Ne esistono di svariati tipi e anche di svariati prezzi e con millantate capacità antistatiche, in realtà passare le fibre in carbonio sul disco mentre ruota sul piatto può solo contribuire a mantenerlo più pulito quando lo sia già, perché a parte raccogliere un po’ di povere grossolana in superfice, di più non può fare e sicuramente numerose prove empiriche mostrano che non ha nessunissimo effetto contro l’elettricità statica. Resta comunque una buona abitudine passarla prima di ogni ascolto.

Secondo metodo pulizia con liquido spray e panno in microfibra. Il primo e vero passo verso la pulizia fai da te del vinile consiste sicuramente nello spruzzare una soluzione apposita (anche per esempio quella che ho formulato sopra) . Poggiare il disco su un panno abbastanza grande in microfibra , spargere la soluzione sulla superficie del vinile e per aiutare a farla penetrare nei solchi ci si può aiutare con un pennello a setole morbide, dopodiché si procederà ad asciugare il disco con un panno morbido seguendo la tracciatura dei solchi . Questo metodo anche se è artigianale consente di mantenere i dischi abbastanza puliti, anche se per ovvi motivi sarà difficile effettuare una pulizia approfondita per la difficoltà di fare penetrare in profondità tra i solchi il liquido, inoltre attenzione perché lo sfregamento del panno durante l’asciugatura farà caricare il disco elettrostaticamente.

Altro metodo per tenere puliti i dischi è l’ormai tornato in auge rullo gommato. Tempo fa lo produceva solo la Nagaoka ed aveva prezzi piuttosto spropositati, adesso invece ne esistono diverse versioni estremamente economiche che consiglio di provare. Il tutto non è altro che un rullo in silicone lavabile dopo ogni uso, che scorrendo sul vinile raccoglie la polvere ed è sicuramente più efficace della semplice spazzolina, oltretutto non ha effetti negativi sulla carica statica.

Pulizia con macchine lavadischi.
Qui cominciamo veramente a parlare di pulizia approfondita , tale da riportare in molti casi il vinile allo stato dell’arte come e meglio di quando era uscito dalla fabbrica.
Prima tipologia macchine manuali (70/ 100 Eur). La soluzione più economica , ma di certo funzionale consiste nell’utilizzo di quelle macchine lavadischi dove il disco viene inserito in una vasca riempita di soluzione detergente, viene fatto ruotare manualmente , mentre delle spazzole o dei pad in materiali vari strofinano la superficie del vinile asportando lo sporco che si annida nei solchi. I due modelli più famosi che hanno poi generato miriadi di cloni sono la Knosti Disco Antistat, e la Spin Clean. Le differenze sostanziali tra le due macchinette riguardano la protezione dell’etichetta con la Knosti che prevede una protezione completa e le spazzole , che nel caso di knosti sono vere e proprie spazzoline in….. peli di capra, mentre nella spin clean sono pad in materiale spugnoso.

Insomma tutto facile si riempie la vasca con la soluzione pulente, si inserisce il disco tra le spazzole , e lo si fa ruotare per 5/6 volte in senso orario e per altrettante in senso inverso, dopodiché Knosti consiglia di lasciare asciugare i dischi all’ aria in un apposito rack (tipo scolapiatti), mentre spin clean fornisce dei panni in microfibra per l’asciugatura. Personalmente trovo che le spazzole di Knosti svolgano un lavoro migliore ed accurato nella rimozione della povere grazie al gentile attrito che provocano sulla superficie, mentre spin clean non riesce ad arrivare così in profondità. Per quanto riguarda l’asciugatura, specie se nella soluzione è stato usato un buon agente bagnante, preferisco l’asciugatura all’aria perché consente alle particelle intrappolate nell’acqua di defluire via, mentre con l’uso del panno si rischia di spanderle nuovamente tra i solchi, senza contare che lo sfregamento del panno potrebbe caricare il disco elettrostaticamente, vanificando in parte il processo di pulizia.
Seconda tipologia le macchine ad aspirazione (300/500 Eur). Probabilmente la più famosa è la Okki Nokki, ma ne esistono anche altre a marchio Project per esempio. In questa tipologia di macchine il disco viene collocato su un piatto come fosse un giradischi (attenzione, alcune hanno il piatto full size, mentre altre ne hanno una versione ridotta), viene fissato al perno centrale, successivamente il disco viene cosparso con la soluzione per pulizia. Azionando il motore della macchina si può far ruotare il disco in entrambi i sensi ed aiutandosi con una spazzolina fornita, stendere il liquido uniformemente sulla superficie, fatto ciò si appoggia il bocchettone aspirante e si accende l’aspiratore, in men che non si dica il liquido verrà aspirato e con esso le impurità disciolte.

Il vantaggio di questa tipologia di pulizia è senz’altro la velocità di asciugatura e l’aspirazione del liquido, ma attenzione soprattutto per quelle macchine con il piatto in formato ridotto, non è possibile fare troppa pressione con la spazzola nel distribuire il liquido, inoltre la soluzione detergente ha meno tempo per agire rispetto alle altre soluzioni ad immersione.
Ultima tipologia, le macchine ad ultrasuoni (da 1000 Eur a salire). Sicuramente la tecnologia ad ultrasuoni è la più efficace , ma anche la più costosa, anche se sembra che un marchio di Hong Kong sia in rampa di lancio per farne uscire un modello intorno ai 300 Eur e allora diverrebbe una soluzione decisamente accessibile. Le macchine di questa tipologia utilizzano un bagno in una soluzione pulente , dove grazie agli ultrasuoni ed al principio della cavitazione, vengono create piccolissime bolle che vanno ad urtare continuamente la superficie del vinile andando ad asportare lo sporco anche nella profondità dei solchi più piccoli, sono inoltre motorizzate e quindi il disco ruota automaticamente nel bagno e dotate in molti casi di ventola per l’asciugatura automatica, insomma una vera e propria Spa e centro benessere per vinili. Anche qui esistono varie teorie sulla frequenza degli ultrasuoni , che di norma sono a 44.000 Hz , mentre qualcuno sostiene che le macchine a 120.000 Hz siano migliori, altri sostengono che sia cruciale il punto di emissione degli ultrasuoni etc… Mi manca la conoscenza pratica per poter verificare queste teorie , anche perché naturalmente si trovano un sacco di discussioni discordanti, quello che è certo è che ho potuto provare la differenza con gli altri metodi di pulizia e la differenza si sente, distintamente.

I metodi “esoterici”, da provare solo se non ci sono altre speranze.
Se girerete un po’ in rete troverete diversi video su strabilianti metodi di pulizia “alternativa” dai risultati strabilianti, ecco se tutto ciò che avete fatto per pulire il vinile non ha dato nessun risultato e vi apprestate a lanciare il disco dalla finestra, potete anche provare questi metodi, anche se vi anticipo che dalle mie prove i risultati sono stati abbastanza irrilevanti e con effetti collaterali da considerare attentamente.
Il Wood Glue. Consiste nello stendere un sottile strato di colla vinilica sulla superficie del disco (il Vinavil, va benissimo), aspettare che si secchi (7/8 ore mediamente), sollevare la sottile pellicola trasparente che si sarà formata che trascinerà via ne particelle di sporco annidate tra i solchi.

Questo metodo oltre ad essere altamente inefficiente in ordine di tempo (8 ore per lato), in realtà secondo le mie prove non offre nulla più di un lavaggio con una macchina knosti in termini di pulizia effettiva, oltre a fare correre il rischio, qualora che la pellicola non si formi in modo adeguato, di dover rimuovere dai solchi particelle di colla particolarmente fastidiose.
Il Wd 40. Si proprio lui, il lubrificante mille usi. Spruzzate su un panno i microfibra un po’ di Wd 40 ed applicatelo sulla superficie del disco, soprattutto se ci sono parti estremamente rumorose o nei punti critici dove il disco tende a saltare, poi fatelo suonare in quei punti critici per vedere se il lubrificante ha fatto superare queste criticità, a me un paio di volte il giochetto ha funzionato. Attenzione però, subito dopo il disco va assolutamente lavato e la puntina pulita accuratamente, perché il composto oleoso tende ad ungere in maniera terrificante, impiastricciando la puntina ed i solchi in modo molto rilevante, senza contare che non si può conoscere se il Wd 40 abbia effetti negativi sul vinile stesso, quindi cautela massima ed utilizzo solo in casi super estremi.
Ecco questo è tutto ciò che sono riuscito ad appurare e a sperimentare, ma lasciatemi dire un’ultima cosa, se manterrete pulito un buon vinile usando queste accortezze, potrete lasciare a bocca aperta molti digitalisti convinti. Vi accorgerete inoltre che forse questo supporto è stato per troppo tempo denigrato e sottovalutato ingiustamente e potrete tornare ad apprezzare dischi che avevate dato già per vecchi con una qualità che nemmeno vi ricordavate possibile.
02 Luglio 2021 19 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

In un articolo pubblicato su La Stampa fu Roberto D’Agostino a parlare di edonismo reaganiano per definire la tendenza, spiccatamente individualista, che la società occidentale assunse negli anni ottanta, durante i quali la presidenza di Ronald Reagan imperò negli Stati Uniti. I pilastri della politica economica di Reagan, definita Reaganomics, erano l’autosufficienza economica dell’individuo nei confronti dello Stato assistenzialista, il libero mercato, i tagli alla spesa pubblica e la riduzione delle imposte e della regolamentazione del governo. Ma Reagan non fu solo questo.
“E’ arrivato il momento, amici americani, di riprenderci il nostro destino. Insieme facciamo che sia un nuovo inizio!”, dichiarò alla nazione.
Una nuova, fascinosa epoca aveva inizio, e la cifra sulla quale questa doveva innestarsi era quella dell’ottimismo che Reagan, grazie alla sua straordinaria capacità comunicativa, seppe insufflare nella popolazione. E lo fece elogiando gli americani. Sostenne che non c’era nulla di sbagliato in loro. Era il governo che cadeva nell’errore di imporre tasse troppo alte, di colpire l’iniziativa privata e di mortificare le libertà individuali.
Anche al di fuori dei confini nazionali Reagan seppe mostrare i muscoli all’Unione Sovietica che lui stesso, in un discorso pronunciato l’8 marzo del 1983, aveva definito “Impero del Male”. Avvenne, quindi, una vera e propria corsa al riarmo. Le spese militari subirono una decisiva impennata e si lanciò il progetto dello Scudo Spaziale. Ricordiamoci che in quegli anni il popolo americano stava ancora subendo il trauma della guerra del Vietnam, e l’alone della sconfitta vorticava sinistro sopra le coscienze.
Ebbene, Reagan restituì agli americani l’orgoglio di essere americani e rinvigorì pensieri di forza e supremazia. Scanzonati ed incoscienti, gli anni ottanta segnarono un’epoca di fiducia nel futuro e di grande spensieratezza.
L’hippie fu soppiantato dallo yuppie: così si definirono (culla del neologismo fu Manhattan, il cuore finanziario della Grande Mela) i giovani e rampanti businessmen, in massima parte desiderosi di lavorare in borsa e di fare soldi a palate, maniacalmente fissati per il look, gli abiti firmati (in particolare quelli di stilisti italiani come Armani, Versace e Valentino) e le macchine sportive e assidui frequentatori delle feste più esclusive.
In questa iperpompata visione di divertimento costoso e senza limiti, esibire uno stile di vita appariscente diventava una regola fondamentale. Denaro, carriera e look. Era iniziata la piena civiltà dell’immagine. Attraverso il look l’uomo poteva evadere dall’universo ripetitivo della quotidianità dove ognuno assomigliava a chiunque altro, per scacciare l’ossessione più insopportabile degli eighties: essere perdenti, non riscuotere il successo e cadere nel cono d’ombra del banale. Un’intera generazione crebbe inseguendo il mito di Narciso. Gli anni ottanta videro mutare drasticamente gli equilibri sociali. L’impegno sociale e politico e le grandi manifestazioni di piazza diventarono di colpo elementi di un mondo lontano anni luce. La manifestazione esasperata dell’immagine assunse i tratti dell’obiettivo primario e assoluto tra palestre, diete e chirurgia estetica. Consumismo e svago si affermarono come veri e propri valori, come una reazione del singolo individuo. Come se, improvvisamente, avesse deciso che era arrivato il momento di pensare soprattutto a se stesso e al proprio godimento, in aperto contrasto con il protagonismo collettivo e le cupe e sofferenti suggestioni che avevano scosso il decennio precedente. Uno status symbol che trovò nell’era repubblicana di Reagan l’imprimatur internazionale.
Anche il cinema prese nuovo slancio dall’opulenza che dominava in quegli anni. Gli effetti speciali entrarono prepotentemente sul grande schermo e tracciarono la strada che li porterà ad imperversare da lì in poi. Le nuove tecnologie computerizzate portarono linfa ai film di fantascienza e avventura e si assistette alla realizzazione di alcuni cult generazionali, come E.T (record di incassi del decennio), Guerre Stellari (L’impero colpisce ancora e il ritorno dello Jedi), Indiana Jones (I predatori dell’Arca perduta, il Tempio maledetto e l’ultima Crociata), Terminator, La cosa, La mosca, Predator, Aliens Scontro finale, Ritorno al futuro, Ghostbusters, i Goonies, Ladyhawke, la Storia Infinita.
Spero mi verrà perdonato questo lungo preambolo. Per la sua natura sociologica mi ha regalato l’illusione di essere tornato tra i banchi universitari, ma soprattutto, fatto ancor più importante, può cercare di chiarire l’atmosfera che si respirava in quegli anni splendenti.
Come abbiamo visto, infatti, gli eighties sono probabilmente il decennio che più ha visto gli Stati Uniti in posizione predominante. Nel diffondere la cultura a stelle e strisce il cinema ha ricoperto un ruolo fondamentale. Sappiamo bene come suoni e immagini siano strumenti di inaudita potenza per lanciare messaggi o suscitare emozioni, ma ancora più potenti questi risultano quando vengono combinati. Nessuna opera cinematografica può fare a meno della propria colonna sonora. Anzi questa, in certi casi, può diventare ancora più memorabile della stessa pellicola.
Negli anni ottanta si decise spesso di usare la musica contemporanea per creare le colonne sonore. L’hard ‘n heavy riempiva gli stadi e, inoltre, risultava particolarmente funzionale a diverse esigenze. Le sue cupe atmosfere erano perfette per il cinema horror, che in quegli anni conosceva particolare fortuna, e le sue sonorità epiche e maestose riuscivano a rafforzare trame ed ambientazioni tipicamente americane. L’hard ‘n’ heavy fece così la sua comparsa in numerose colonne sonore, in tutte le sue varianti, soprattutto in quelle più accessibili, come l’AOR o il glam.
Ebbene, tentiamo di fare un salto indietro nel tempo, alla ricerca di qualche ricordo di giovinezza ormai sfumato all’orizzonte.
1985: Ammazzavampiri (Autograph You Can’t Hide from the Beast Inside, White Sister Save me Tonight), Gotcha! (Giuffria Never too Late, Say it ain’t True); Pazzo per te (Journey Only the Young, Sammy Hagar I’ll Fall in Love Again, Foreigner Hot Blooded); L’aquila d’acciaio (King Kobra Iron Eagle,
Adrenalin Road of the Gypsies); Hard Rock Zombies (con una colonna sonora scritta da Paul Sabu); inoltre, nel 1985 uscì il mitico Commando con un Arnold Schwarzenegger tirato a lucido. We Fight for Love dei Power Station lancia la leggendaria scena finale del “No chance”. Il testosterone schizza a mille quando Arnold, dopo aver massacrato tutti i cattivi e salvato sua figlia (una giovanissima Alyssa Milano) risponde con un granitico “No chance” al generale Kirby che gli chiedeva di tornare a capo del suo vecchio reparto.
1986: Il Replicante (Ozzy Osbourne Secret Loser, Lion Never Surrender, Tim Feehan Where’s the Fire); Youngblood (Mickey Thomas Stand in the Fire, Autograph Winning is Everything), No Retreat No Surrender (Frank Harris Hold on to the Vision)
1987: Morte a 33 giri (con la colonna sonora completamente realizzata dai britannici Fastway); Nightmare 3 (Dokken Dream Warriors e Into the Fire); Il ritorno dei morti viventi 2 (Leatherwolf Alone in the Night, Joe Lamont Flesh to Flesh); The Running Man (John Parr Restless Heart); Il segreto del mio successo (Night Ranger The secret of my Success)
1988: Nightmare 4 (Vinnie Vincent Invasion Love Kills, Jimmy Davis My Way or Highway, Love/Hate Angel); Senza esclusione di colpi (Bloodsport) (Stan Bush Fight to Survive e la ballad On My Own Alone), Black Roses (in questo caso fu formata una band appositamente per il film con Mark Free, Alex Masi, Chuck Wright e Carmine Appice; contribuirono alla colonna sonora anche Lizzy Borden, Bango Tango e King Kobra)
1989: Nightmare 5 (Romeo’s Daughter Heaven’s in Backseat), Sotto Shock (Paul Stanley Shocker, Bonfire Sword and Stone, Saraya Timeless Love), Bill & Ted’s Excellent Adventure (Vital Signs, The Boys and Girls Are Doing, Glen Burtnick Not So Far Away, Tora Tora Dancing with a Gypsy, Shark Island Father Time, Dangerous, Bricklin Walk Away, Robbie Robb In Time)
https://www.youtube.com/watch?v=eSje5UJgEsw
Infine vorrei includere in questo elenco anche Giorni di Tuono (John Waite Deal for Life, David Coverdale The last Note of Freedom, Chicago Hearts in Trouble). Ad onor di cronaca il film uscì solo nel 1990, ma come atmosfera e contenuti è forgiato da un’anima indiscutibilmente eighties. D’altra parte l’idea del regista Tony Scott e Tom Cruise era quella di ripetere (senza riuscirci) il planetario successo di Top Gun.
Capitolo a parte merita la figura di Harold Faltermeyer, tastierista e compositore tedesco, nonché uno dei maggiori fautori dell’introduzione del sintetizzatore nelle colonne sonore anni ottanta. Ingegnere del suono per la Deutsche Grammophon, Faltermeyer trovò il suo coronamento definitivo in Top Gun. Sono sue Mighty Wings, data ai Cheap Trick, e tutte le musiche strumentali udite nel film, le prime mai registrate con modalità DDD. La seconda metà del decennio fu il periodo più prolifico per Faltermeyer. Contribuì alle colonne sonore della trilogia di Beverly Hills Cop, del già citato The running man e di Tango & Cash.
Ma veniamo ora al centro nevralgico dell’articolo. A mio avviso furono sei i film che per contenuti e colonna sonora seppero far splendere gli eighties in tutta la loro magnificenza, mettendo sul grande schermo la loro magica atmosfera e consegnando alla storia immagini e suoni.
Nel 1983 uscì Scarface, diretto dal maestro del thriller Brian De Palma e con protagonista assoluto Al Pacino. Si tratta di un remake del classico omonimo di Howard Hawks, ma se ne discosta nell’ambientazione e nel periodo storico. La vicenda, infatti, si svolge nella Miami degli anni ottanta, e non nella Chicago degli anni del proibizionismo.
Il film racconta l’ascesa al potere di Tony Montana, piccolo criminale cubano giunto a Miami con i profughi dell’esodo di Mariel. Grazie alla sua personalità spregiudicata e crudele, Tony riesce a scalare le vetta del crimine e a diventare il signore della droga di Miami.
In Scarface e in Tony Montana c’è la folle atrocità del mondo criminale americano, rappresentato in tutta la sua natura, fatta di sangue e morte. Si tratta di uno straordinario affresco della Miami di quel momento dove imperavano droga, violenze e sopraffazioni, e le stragi emergevano nella forma più virulenta e sanguinaria.
Ma Scarface è anche la rivisitazione del sogno americano di quegli anni, seppure attraverso lo sguardo psicopatico di un esule cubano bramoso di ricchezza e gloria.
A dare ulteriore slancio all’opera è la colonna sonora realizzata dall’italiano Giorgio Moroder. Un tripudio di sonorità elettroniche si sposa perfettamente con l’eccesso delle atmosfere e delle immagini del film, accompagnando magistralmente sia le scene più adrenaliniche sia quelle più cupe.
L’incalzante Push it to the Limit di Paul Engemann sostiene una sequenza memorabile del film.
In pochi minuti scorre sullo schermo, in tutti i suoi eccessi, proprio l’apice del potere raggiunto da Tony Montana, dai sacchi pieni di banconote portate alla Tri-American City Bank, al matrimonio con l’amata Elvira (la bellissima Michelle Pfeiffer), alla tigre legata ad un albero nel giardino della villa.
Nella scena finale, quando il cadavere di Tony giace sanguinante e crivellato di colpi nella vasca interna della villa, tra lo sfarzo e l’opulenza, si nota una statua dorata che riporta le parole in viola fosforescente the world is yours.. Se ci pensate bene, non stavano tutti qui gli splendenti anni ottanta?
Nel 1986 uscì Highlander, una meravigliosa favola fatta di magia e immortalità, presente e passato, romanticismo ed epicità, un insieme di elementi magistralmente combinati che lo hanno reso un classico.
Connor McLeod, interpretato da Christopher Lambert, fa parte di una stirpe di immortali e attraversa il tempo, dai villaggi della Scozia del ‘500 alle strade di una New York ritratta in pieno ‘85.
Ma un capolavoro non nasce mai casualmente. Il regista, Russel Mulcahy, era diventato famoso per aver girato video di importanti gruppi, come i Duran Duran, ed era dotatissimo, a livello di immagini evocative.
Le musiche di Michael Kamen rafforzano la spettacolare fotografia del film e lanciano alcune delle scene più solenni e maestose mai realizzate, come quella in cui Ramirez (Sean Connery) insegna a McLeod ad usare la spada sulle cime delle highlands scozzesi. Una sequenza consegnata alla storia che testimonia tutto il senso epico dell’immagine posseduto dal regista.
Le canzoni furono realizzate dai Queen, e rappresentano una vera e propria forza propulsiva. Esaltano alla perfezione tutte le qualità dell’opera, romantiche, eroiche, adrenaliniche e magiche. Princes of the Universe, Gimme the Prize (forse il pezzo più vicino all’heavy metal scritto dai Queen), One Year of Love, Who Wants to Live Forever (che accompagna la sequenza più romantica del film, quando Heather, la donna di McLeod, invecchiata secondo le normali regole della natura, sul punto di morte, chiede al suo amato di accendere una candela per ricordare il suo compleanno negli anni a venire), Don’t Lose Your Head e A Kind of Magic faranno tutte parte dell’album A Kind of Magic, pubblicato il 3 giugno del 1986. Nel film compare anche Hammer to Fall, che faceva parte dell’album The Works del 1984.
Russel Mulcahy non raggiungerà mai più questo apice. Con Highlander aveva creato un’opera di culto, che non poteva essere ripetuta. Un’opera perfetta, magica. It’s a kind of magic, dice il protagonista ad un certo punto del film. Una specie di magia, come Highlander.
Nel 1986 uscì anche Top Gun. Gli Stati Uniti stavano vivendo nel pieno il sogno repubblicano. Ronald Reagan, ormai quasi al tramonto del suo secondo mandato, aveva portato la nazione a credere che una nuova era stava iniziando. Il Conservatorismo aveva trionfato. Ma, come abbiamo detto, il trauma della guerra del Vietnam aleggiava ancora e la paura dell’esplosione di un nuovo conflitto serpeggiava nell’opinione pubblica. Gli americani avevano bisogno di fiducia e coraggio. E il cinema in questo caso diventò un’arma vincente. Nacque così l’idea di Top Gun, diretto da Tony Scott, e con Tom Cruise, bellissimo e sfacciato, come assoluto protagonista.
Si tratta innanzitutto di un film d’azione, che prende l’avvio in una base aerea, tra fumo e rombo di motori, poco prima dell’elettrizzante scena del volo di pattugliamento sull’Oceano Indiano. Poco dopo si assiste ad una delle sequenze più entusiasmanti, ed indimenticabili. Maverick (Tom Cruise) è appena stato mandato dal comandante della squadriglia a Miramar, per frequentare la rinomata scuola Top Gun. Lo vediamo curvo sulla sua moto, carico a mille, con gli occhiali da sole e il giubbotto di pelle. Il cielo sfuma di azzurro e rosa, e lui rivolge un pugno di trionfo all’aereo che sfreccia, con cui sembra intrattenere una gara di velocità. Un pugno che profuma di anni ottanta, un’epoca proiettata alla vittoria, per insegnarci che si ha sempre la possibilità di scrivere il proprio destino. Sempre.
La colonna sonora di Top Gun, prodotta dalla Columbia Records nel 1986, viene ricordata come una delle più belle di tutti i tempi, capace di scolpirsi nei cuori di tutti e di stazionare per diverse settimane alla prima posizione in classifica. Dall’album furono estratti tre singoli.
Take my Breath Away dei Berlin (e prodotta dal grande Giorgio Moroder) arrivò al primo posto in classifica, vincendo anche un premio Oscar e un Golden Globe come miglior canzone, e accompagna la romantica scena del bacio sul ciglio della strada e quella d’amore, nella penombra della camera da letto.
Danger Zone di Kenny Loggins raggiunse il secondo posto, e rievoca l’anima più elettrizzante del film, con quella batteria incalzante e maledettamente eighties. Loggins canterà anche Playing With the Boys per la scena sulla spiaggia, dove la partita di beach volley sfoggia uno strabordante trionfo di muscoli, per la soddisfazione del pubblico femminile. Infine la zuccherosa Heaven in Your Eyes dei Loverboy si fermò alla dodicesima posizione. La colonna sonora comprendeva anche la già citata Mighty Wings dei Cheap Trick, scritta e prodotta da Harold Faltermeyer. Inoltre, lo stesso Faltermeyer e Steve Stevens hanno scritto e realizzato il bellissimo pezzo strumentale che accompagna la scena finale.
Top Gun fu il film più visto del 1986, con 350 milioni di dollari a livello globale. Ma soprattutto, tra sognanti tramonti e sfrecciate in moto, ebbe l’indiscusso merito di vendere un sogno. Quello americano.
Arriviamo, infine, al vero, autentico codice genetico dell’articolo: Sylvester Stallone. Nessuno come Sly ha saputo sincronizzarsi con l’immaginario del macho anni ottanta. E come magnifiche anime di quegli anni, spesso le opere di Sly sono state supportate e lanciate da straordinari pezzi di rock melodico, così alla ribalta in quel momento. Nel 1983, in Staying Alive, We Dance So Close to the Fire di Tommy Faragher domina la sequenza dello spettacolo finale di John Travolta. Nel 1987, in Over The Top, Winner Takes It All di Sammy Hagar accompagna l’esaltante sequenza dove i migliori al mondo si sfidano a Las Vegas, nelle fasi finali del campionato mondiale di braccio di ferro. Nel 1989, in Tango & Cash, sono addirittura i Bad English con la spettacolare Best of What I Got a lanciare i titoli di coda.
Ma fu soprattutto con tre film che Sly riuscì a portare lo spirito dell’edonismo reaganiano a livelli celestiali.
Nel 1982 uscì Rocky III. Patinato e muscolare, il film lancia ufficialmente la saga di Sly negli splendenti eighties. E lo fa anche a tempo di musica. Eye of the Tiger dei Survivor supporta l’esaltante sequenza iniziale, dove Rocky, diventato da poco campione del mondo, tra celebrazioni e fuochi d’artificio, con irrisoria facilità butta al tappeto diversi pretendenti al titolo. Il pezzo diventerà una vera e propria hit, e nel 1983 collezionò due nomination in due delle cerimonie più importanti nel panorama cinematografico mondiale: Oscar e Golden Globe.
La sequenza iniziale introduce anche il nemico, il mastino Clubber Lang, feroce e affamato come una belva, proprio come lo era Rocky anni prima. Alla fine del film, al termine di un lento e difficile percorso di risalita, Rocky ritroverà gli occhi della tigre, e, nel combattimento finale, gli spettatori si ritroveranno tutti a bordo ring a fare il tifo per lo Stallone italiano.
Rocky IV fu presentato in anteprima mondiale a Los Angeles il 21 novembre del 1985. Eravamo all’apice dell’era reaganiana. Rocky IV è un solenne, splendente monumento dell’America anni ottanta. Rocky deve affrontare Ivan Drago, colosso russo sotto i cui pugni è morto l’amico Apollo. La guerra fredda è ai suoi massimi storici, e Sly si lancia in uno scontro contro i nemici sovietici, nella migliore tradizione degli action di quegli anni, gli stessi avversari che Sly affronta lo stesso anno anche in Rambo II, non a caso altro campione di incassi e, come fu definito dallo studioso Robert Sklar, “il film più carico di significati per la cultura americana del decennio”. E’ ormai consegnata alla storia la frase che Reagan pronunciò dopo aver visto Rambo II: “La prossima volta manderò Rambo”.
Rocky diventa un vero e proprio Capitan America, intento ad esportare il sogno americano. Rocky IV, come Rambo II, diventa la stellare cronaca di un successo mondiale, un film con ambizioni globali, al servizio della patria, un’opera nazionale più che intima.
Il film incassò 300 milioni di dollari, diventando il film sportivo più proficuo fino al 2009. In Italia fu il secondo film per incassi della stagione 1985/86, dietro a (guarda caso..!) Rambo II. Rocky stesso è ormai una star internazionale che sconfina dagli States e diventa fiero portabandiera dell’identità americana. E proprio nella tana del Diavolo, in Russia, la perfetta nemesi del sogno reaganiano, Rocky, avvolto nelle stelle e strisce, metterà al tappeto il loro eroe, finendo amato ed applaudito anche dal popolo nemico.
La colonna sonora di Rocky IV uscì alla fine del 1985, in concomitanza dell’uscita della pellicola nelle sale. L’album è un vero e proprio trattato di AOR, una finestra su quegli anni in cui tastiere e melodia dominavano l’etere.
Ancora una volta Eye of the Tiger dei Survivor (che saranno presenti anche con Burning Heart) apre il film con una sequenza che potrebbe far resuscitare un morto. Sono le ultime fasi del combattimento contro Clubber Lang. Il volto di Rocky è una maschera di sangue, ma urla ancora “c’mon, c’mon” in faccia all’avversario, incitandolo ad attaccare, a farsi sotto, fino al sinistro/destro finale che mandano Lang al tappeto.
La struggente e drammatica No Easy Way Out di Robert Tepper domina una sequenza storica.
La batteria attacca, il motore della Lamborghini inizia a rombare, i fari squarciano la notte.. Apollo è morto da poco, e flashback del passato si susseguono uno dopo l’altro, in una cavalcata di emozioni maledettamente anni ottanta.
Ma veniamo alle sequenze di allenamento, che sono adrenalina pura, ma anche il cuore pulsante dell’opera.
Training Montage di Vince DiCola accompagna la prima. Le luci dell’alba russa si allungano sulla distesa di neve, Rocky inizia a correre, travolto dal gelo e dalla bufera.. e da lì in poi sono tre minuti di passione e grinta che arrivano diretti allo stomaco dello spettatore. Che non può stare fermo mentre guarda!
Hearts on Fire di John Cafferty lancia la seconda. All’interno del casolare il fuoco arde, mentre Rocky ci offre uno spettacolo di puro machismo. Sly è tiratissimo, e la sequenza è a dire poco quanto di più esaltante sia mai stesso messo sul grande schermo. Sfido chiunque abbia fatto un qualunque sport a livello agonistico e stia leggendo questo articolo a dichiarare di non aver mai avuto nella sua Playlist Hearts on Fire! Tu? Stai mentendo! Salto della corda, addominali, taglio della legna con la scure, sollevamento di massi e di addirittura tre persone da un carretto, e ancora addominali, mentre Duke, madido di sudore, gli sussurra “No pain, no pain, no pain..”. La sequenza termina con Rocky che corre ancora una volta tra le neve. Semina la macchina di scorta, scala una montagna, raggiunge la cima, alza le braccia al cielo e urla al cielo il nome del suo avversario “Drago”, mentre la sua voce echeggia nella vallata. L’eroe americano è pronto a vincere. E vincerà!
Arriviamo al 1986. Sly è all’apogeo della carriera, e sicuramente uno dei più grandi divi di Hollywood.
Esce Cobra. Un lucente monumento dell’era reaganiana. Sly è il tenente Marion Cobretti, un poliziotto duro e brutale, abituato a operare al di fuori delle normali procedure di polizia. Cobretti è a capo della Zombie Squad, una sezione speciale che si occupa dei criminali psicopatici. Da qualche tempo, infatti, le strade di Los Angeles sono terrorizzate da una setta di folli assassini armati di asce che si fanno chiamare “Le Belve della Notte”. L’incarico di Cobretti è proteggere la modella Ingrid Knudsen (la bellissima Brigitte Nielsen) che è stata testimone oculare di uno dei delitti della setta.
Il regista fu George Pan Cosmatos, e, come aveva fatto in Rambo II l’anno prima, allestisce attorno a Sly uno spettacolo one man show splendidamente anni ottanta. Tutto è studiato a tavolino e curato fin nel minimo dettaglio. Il Ray Ban, i guanti, i jeans con le tasche posteriori tagliate, il fiammifero in bocca, quello strano nome da donna (preso in prestito da John Wayne), il manico della pistola personalizzato, la Mercury custom, e quel mood taciturno interrotto solo da frasi a cazzo duro.
Ne uscì un tour de force di azione e violenza. In realtà, a tratti, il film sconfina addirittura nell’horror, avvicinandosi alla brutalità dello slasher. Cobra, infatti, dovette fare i conti con l’MPAA, affinché non ricevesse il temuto R-Rated, a causa delle scene di violenza, ritenute troppo frequenti e gratuite. Vennero, quindi, rimosse sequenze con gole squarciate, arti smembrati e quindi un aumento considerevole del numero delle vittime. Ma alla fine Cobra arrivò nelle sale.
Come si poteva prevedere, venne stroncato dalla critica. Venivano contestati i dialoghi, ritenuti troppo banali, e la sovrabbondanza di scene di violenza immotivata. Perfino alcuni critici nostrani criticarono Cobra per l’atmosfera non troppo velatamente fascistoide che aleggia nel film..
Le recensioni negative non ebbero un grande impatto sui risultati al box office di Cobra. Gli incassi arrivarono a 160 milioni di dollari complessivi, partendo da un budget di soli 25 milioni. Il film divenne anche un grande successo in home video, e ancora oggi è uno dei titoli più venduti del catalogo Warner.
Quello che i critici non capirono è che Cobra era esattamente quello che gli americani volevano in quel momento. Ogni espressione delle arti e dello spettacolo deve necessariamente essere giudicata considerando il contesto storico da cui ha avuto origine, e Cobra era assolutamente espressione pura e definitiva dell’era reaganiana.
Dominato dalla presenza scenica di Sly, Cobra è un pugno allo stomaco a tutti i perbenisti, un’opera senza mezze misure, assolutamente elementare nella struttura narrativa, ma proprio per questo ancora più diretta. Cobra è il singolo individuo che ottiene la giusta vendetta e ripulisce le strade dal crimine e dai degenerati, nel caso in cui la giustizia ordinaria non fosse in grado di farlo. Lo dichiara lui stesso, prima dello scontro finale contro il sanguinario capo della setta. “Qui la legge si ferma e comincio io!”. Non mi meraviglierei se, in futuro, studi scientifici dimostreranno un aumento del 200% del testosterone quando si guarda questa scena!
La verità è che Cobra è un vero gioiello a stelle e strisce uscito diretto dagli splendenti anni ottanta, straripante di scene madri che ancora adesso non possono non esaltare lo spettatore.
Due di queste sono lanciate da meravigliosi pezzi di hair metal.
Il primo è Angel of the City di Robert Tepper ed è perfetto per accompagnare una suggestiva sequenza notturna. Cobra vaga tra le strade della città, scendendo nei quartieri più malfamati e avvicinando prostitute e loschi soggetti, alla ricerca di indizi per scovare gli assassini, mentre la splendida Ingrid sfila circondata da una futuristica scenografia fatta di robot. Sequenza che profuma di eighties fino al midollo.
Il secondo pezzo è Feel the Heat di Jean Beauvoir. Cobra decide di portare Ingrid fuori città, dove è convinto di poterla proteggere meglio. La batteria pulsante e la voce squillante di Beauvoir suggellano un’altra sequenza dannatamente anni ottanta. E mentre il paesaggio di campagna si specchia sul Ray Ban del Cobra, va in scena un dialogo che racchiude tutta l’anima del film.
“Ci sono in giro un’infinità di squilibrati. Perchè la polizia non li mette in condizione di non nuocere?”, chiede Ingrid.
“Lo chieda ai giudici. Sono loro che li fanno uscire. E’ così, non c’è niente da fare. Questa è la legge”, risponde Cobra.
Ma niente paura. Perchè i criminali verranno giudicati da una legge superiore. Quella del Cobra.
05 Marzo 2021 59 Commenti Samuele Mannini

Come mai se prendiamo una edizione remasterizzata stampata recentemente di un vecchio classico ci sembra che suoni più potente? E perché negli anni passati (fino all’inizio anni 90) bisognava alzare il volume a manetta per ascoltare un cd e quelli moderni fanno un casino infernale anche suonati su un tostapane? Suonano davvero meglio o siamo vittime di un inganno? Vediamo di svelare l’arcano con parole semplici e con dati oggettivi che non lascino dubbi di interpretazione.
Partiamo intanto dallo strumento atto ad usufruire del messaggio musicale, ovvero il sistema orecchio cervello. Esiste una scienza che studia il comportamento del nostro apparato uditivo e di come reagisca alle stimolazioni sonore ed è la Psicoacustica. Secondo gli studi fatti, il cervello percepisce come di qualità superiore i segnali audio più potenti perché sono più facilmente elaborabili e richiedono meno “potenza di calcolo” per essere interpretati, inoltre la risposta fisiologica dell’ orecchio umano è tutt’altro che lineare ed è più sensibile nel range di frequenze compreso tra gli 800 ed i 4000 Hz, ovvero dove è concentrata la frequenza vocale.
Fig.1

Da quando la musica è passata nel dominio digitale (grazie all’introduzione del cd) e dopo il ridimensionamento del vinile (che richiede tecniche di masterizzazione ed incisione molto particolari), è cominciata una vera e propria escalation atta a far suonare sempre più forte la musica, complici le straordinarie possibilità fornite dal cd (più di 90 db di potenziale dinamica, contro i circa 50 db del vinile), offrendo inoltre la possibilità di manipolazione del segnale digitale tramite computer sempre più potenti e software semplici da usare e relativamente economici. Capito dunque che era facile fare suonare più forte una registrazione e che ciò era percepito come qualitativamente migliore, c’è stata una vera e propria corsa per ottenere un volume sempre più alto da parte delle case discografiche che volevano far sembrare i propri prodotti migliori della concorrenza, eccoci dunque all’inizio di quella che verrà conosciuta come Loudness War. Come in ogni guerra ci sono state però delle vittime, in questo caso la vittima è stata la dinamica. Si, ma che cosa è la dinamica? Bene, la dinamica è la differenza tra i segnali audio più basso e più alto incisi in una registrazione e viene misurata in decibel o db ( da non confondersi con i db Spl che misurano la pressione sonora). Il decibel è un numero puro ed è espresso in scala logaritmica , ergo al crescere del valore la crescita è esponenziale, ad ogni 3 db di differenza corrisponde circa un raddoppio della intensità.
Vediamo dunque come funziona a grandi linee la compressione della dinamica a favore di un più alto volume di erogazione, cominciando da come viene identificato il volume massimo nel dominio digitale. Nella riproduzione l’unico limite per il volume è quello dettato dall’amplificatore e dalle casse che riproducono il supporto, ma nella fase di registrazione il limite fisico è quello dello 0 db, pensate di continuare a versare acqua in un bicchiere già pieno, il principio è lo stesso , tutto ciò che verrà versato non potrà fare alzare ulteriormente il livello raggiunto. La conseguenza di tutto questo è che per alzare il volume medio, bisognerà portare i segnali a più basso livello ad un livello superiore, con la conseguenza di comprimere le originali differenti intensità di segnale, arrivando nei casi estremi a fare suonare un sospiro quanto una doppia cassa di batteria.
Fig.2
Fig.3
Fig.4

Quello che si vede in figura 2, è una parte di un brano con una buona dinamica. Si notano infatti parti più basse e picchi di volume in corrispondenza dei colpi della batteria. In figura 3 ecco come risulta quando il segnale viene compresso, volume di uscita medio enormemente più alto , ma praticamente uniforme in tutto lo spettro sonoro ed i picchi di volume sono così scomparsi. In figura 4 le parti in rosso sono le informazioni che sono andate perdute durante il processo. Risultato? impastamento ed appiattimento della risposta, la batteria ha perso il suo punch ed è tutto è più confuso e sparato a mille, ora , se nelle moderne produzioni la batteria sembra un fustino di Dash picchiato con un legnetto, sapete qual’è una delle cause. Torniamo a dare una occhiata alla figura 4 , le parti rosse sono quelle, che dopo la compressione , superano il volume massimo consentito dalla registrazione ovvero il Clipping. non potendo infatti superare il massimo volume, il segnale viene letteralmente potato, e la forma d’onda tagliata al suo massimo limite consentito, tutto ciò risulta in una serie di fastidiosi clic in corrispondenza dei suddetti picchi, inutile dire che dopo questo processo la perdita di informazioni è irreversibile. Parentesi doverosa sul clipping, il fenomeno tende ad essere più evidente nelle edizioni rimasterizzate che non nelle nuove produzioni, perché trovandosi a manipolare un master già edito, esistono delle limitazioni imposte dalla produzione originale che per essere superate vanno per forza ad intervenire sui segnali più alti per omogeneizzare il volume medio, nelle nuove produzioni invece si va ad agire su un prodotto che viene limitato già in fase di registrazione e pre produzione incorrendo meno nel pericolo del clipping in quanto il segnale a volume più alto è fissato a priori.
Il punto più cruento di questa guerra è stato probabilmente raggiunto con Death Magnetic dei Metallica, uno dei dischi con la dinamica più bassa in assoluto e con clipping in serie sterminata, tanto che molti fans si sono accorti della differenza con il brano usato per il gioco Guitar Hero, molto meno compresso e con più dinamica preferendolo di gran lunga, infatti in seguito il disco è stato ripubblicato in una sua versione meno spinta. Insomma per apprezzare il forte è necessario il piano ed il contrasto tra i vari strumenti deve assolutamente risaltare in una registrazione di qualità. Fortunatamente certe estremizzazioni sono meno presenti dopo alcuni casi emblematici come quello citato sopra, ma la differenza di dinamica media tra un disco di meta anni 80 e gli attuali si attesta sempre sui 4/5 db , ricordando che il decibel è in scala logaritmica è comunque un valore di un certo rilevo.
Esistono numerosi programmi in grado di analizzare la compressione dinamica di un singolo brano o di un disco, il più semplice è probabilmente TT-Dr Offline Meter che fornisce il valore medio della gamma dinamica e segnala l’eventuale presenza di clipping, oppure Sonic Visualizer 2.4 che mostra anche il grafico, senz’altro strumenti interessanti per avere una idea di massima su dinamicità e qualità della registrazione. Se trovate l’argomento interessante, segnalo una pagina web dove sono stati analizzati dischi un po’ di tutti i generi (Dynamic Range Data Base) ed anche un gruppo Facebook (Loudness war link), dove vengono analizzate e confrontate le varie edizioni e ristampe del nostro genere preferito.
In sostanza quando si va ad analizzare la qualità di un disco, bisogna certamente verificare tutte le variabili della catena sonora, dalla strumentazione usata per registrare, al supporto (sia esso analogico o digitale e fisico o liquido), fino ad arrivare all’apparato di riproduzione( giradischi, lettore cd, streamer, amplificatore casse, etc..). A prescindere dai gusti personali e le possibilità economiche, poter disporre di musica registrata con qualità quanto più possibile vicina alla realtà, credo sia un requisito fondamentale per formare una cultura dell’ascolto che preservi, almeno nel caso delle registrazioni rimasterizzate, lo spirito ed il lavoro di chi dette vita all’opera in origine.
Molti altri discorsi si potrebbero fare sia sui supporti, sia sulle tecniche di registrazione adottate per i vari formati della distribuzione musicale e magari li affronteremo in un’altra sede, ma esprimendo un parere personale, la musica è una cosa troppo importante e bella per negarle la sua giusta dimensione qualitativa.
06 Gennaio 2021 48 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti

Esiste una linea di demarcazione nella storia dell’aor. Una linea netta che segnò il passaggio dalla luce all’oscurità, dalla gloria al mondo dell’underground, da immensi stadi straripanti di folla a scarni concerti dedicati a pochi, malinconici superstiti. Ebbene, questa linea di demarcazione va collocata nel 1993.
Da quell’anno, infatti, le grandi major, sedotte dal fascino effimero del grunge, abbandonarono l’AOR, decretandolo come un genere ormai passato in disuso. I testi anarco-nichilisti dei Nirvana stavano soppiantando i gloriosi Eighies, riuscendo solo a solleticare un disagio giovanile tipico di quegli anni, più che a porgli un rimedio. La gioia e il divertimento degli anni Ottanta avevano smesso di essere alla moda. Ormai, per essere cool, era necessario mostrare rabbia e indolenza.
Accadde, quindi, che numerose gemme di aor, già pronte alla pubblicazione, vennero condannate all’oblio. Iniziò un periodo estremamente buio per l’AOR. Molti grandi gruppi si sciolsero, molti altri cambiarono genere, cercando di cavalcare i tempi, non trovando quasi mai il successo, altri ancora continuarono imperterriti con l’AOR, e a questi rivolgo e rivolgerò sempre un commosso ringraziamento.
Iniziamo allora il viaggio nel decennio oscuro dell’AOR: gli anni Novanta.
10 Aprile 2020 20 Commenti Leonardo "Lovechaser" Mezzetti
Cari amici di MelodicRock, in questi strani giorni di isolamento sociale provocato da questo maledetto virus, mi è capitato spesso di andare a riscoprire tra le pieghe del mio archivio personale pezzi sepolti nella mia memoria.
…e un mondo lontano nel tempo si è spalancato davanti a me. Pezzi splendidi che mi hanno riportato alla mente colori e immagini di stralci passati di vita. Vi sto parlando di pezzi sublimi di aor. Allora ho pensato di condividere tutto questo con voi, animati come me dall’amore per questo genere di musica.
I pezzi sono dieci, e provengono dalla fine degli anni Ottanta/inizio Novanta. Furono tra gli ultimi esempi di un mondo che andava smarrendosi, ma forse, proprio per la loro unicità, rappresentano un momento di aor irripetibile, scolpito nel tempo. L’immagine perfetta nel momento perfetto, come istantanee di un’epoca d’oro. Per le ultime volte, perchè la tempesta maledetta del grunge stava arrivando di lì a poco a distruggere tutto.
Non c’è stato un vero e proprio criterio di scelta. Sono semplicemente alcuni tra i pezzi che parlano al mio cuore, provocando le stesse emozioni che, come spesso leggete nei miei commenti, ormai molto raramente mi capita di provare ascoltando i lavori che escono oggi.
THINK OUT LOUD, Raise You Up, 1988
Vorrei cominciare con Raise You Up degli Think Out Loud, probabilmente il pezzo più bello tra tutti questi. Un pezzo che da solo basta a spazzare via quasi tutto quanto ho sentito negli ultimi due o tre anni. Un esempio di aor mostruoso. Classe e lacrime allo stato puro. I cori finali sono brividi su brividi, sempre, ogni volta. Per farvi capire il livello, Raise You Up poteva tranquillamente comparire su entrambi i Bad English.
EYES, Cheyenne, 1993
Uscita in un momento dove l’aor cominciava a scomparire dai grandi palcoscenici a causa dell’avvento del grunge e del suo gruppetto di depressi, grazie ad una prova superba di Soto, Cheyenne spara uno dei cori aor più belli mai realizzati.
BITE THE BULLET, Change Of Heart, 1989
Grinta e melodia questo pezzo dei Bite The Bullet. In particolare un uso spettacolare e maestoso della tastiera, soprattutto negli ultimi 40 secondi, in perfetto Rocky-style.
BIG TALK, Trick Of The Heart, 1987, demo
Dopo Sex Crimes, i mitici Rio decisero di cambiare, diventando i Big Talk, e virando su un aor ancora più melodico, come la seconda metà degli anni Ottanta richiedeva. Questo pezzo rappresenta una vera e propria macchina del tempo, catapultandoci nel 1987, così, come per magia.
PAUL JANZ, One Night, 1987
Grande performance di Paul Janz con questa One Night, pezzo di classe cristallina di fine anni Ottanta. Un pezzo che scorre che è un piacere, un pezzo che non mi stancherei mai di ascoltare.
INDECENT OBSESSION, Rebel With A Cause, 1992
Gli australiani Indecent Obsession arrivarono troppo tardi. Presa dal loro album Indio del 1992, Rebel With A Cause aveva cori di grande impatto, e riusciva a rispolverare l’anima degli anni Ottanta forse per una delle ultime volte.
CLIMB, Girl Like You, 1988
Dal 1988 un altro pezzo Rocky-style dai Climb. Grande impatto, grande ritmo. Un altro pezzo per rivivere la magica atmosfera di fine Ottanta.
HEAVY PETTIN, My Love For You, anni ottanta, demo
Gli Heavy Pettin mi sono sempre piaciuti moltissimo. Un peccato mortale siano sempre stati un po’ sottovalutati. Forse hanno pagato la vicinanza territoriale, musicale e temporale con i Def Leppard, dai quali sono sempre stati oscurati. Ma fu un peccato mortale, appunto. My Love For You è presa da Prodigal Songs, una raccolta di demo inediti provenienti dagli anni Ottanta ma pubblicata solo nel 1997. Ed infatti il pezzo trasuda anni Ottanta fin dal midollo. In particolare ascoltatevi i 30 secondi che vanno da 2:48 a 3:18.. un incedere di tastiere che scandisce ancora il battito cardiaco di quel tempo..
FAHRENHEIT, Should Have Known Better, 1989
Un’autentica gemma sepolta questo album degli austriaci Fahrenheit. Questa Should Have Known Better è una delle più belle ballad aor mai sentite, ma tutto l’album era un esempio di aor di grande classe, con echi di Boulevard. E dire che erano usciti nei tempi giusti, nel 1989! Probabilmente passarono quasi inosservati, confusi tra la miriade di gruppi aor che si accalcavano sulla scena mondiale. Oggi un album così lo pagheremmo a peso d’oro..
DON PATROL, Chinese Night, 1990
Finiamo con un’altra aor ballad di grande classe. Album del 1990 degli svedesi Don Patrol. Pezzo dalle melodie raffinate, con indiscussi rimandi leppardeggianti. Pezzo perfetto come sottofondo per una notte d’estate…

31 Marzo 2020 10 Commenti Denis Abello
“Ci sono oggetti, richiami o situazioni che la nostra mente associa direttamente e inconsciamente a eventi o cose ben precise. La musica in questo è maestra incontrastata e il richiamo evocativo che certi brani possono avere sulle sinapsi del nostro cervello sono puri viaggi temporali verso periodi storici o ricordi personali ben definiti… e un brano come Strangers In The Night è la classica DeLorean che sfreccia tra le pieghe del tempo con una sola ed unica destinazione… 1986!
Anno d’oro del Melodic Rock e base di partenza per i ricordi che molti di noi sicuramente legano alla musica… e anno che il nuovo brano dei Room Experience prende ad esempio omaggiandolo con un pezzo dalla dirompente carica emotiva che si lega a colonne sonore di film e vita fatte di notti solitarie ed inquiete e voglia di rivalsa. Brano che lascia che sia il piano e l’etereo tappeto di tastiere che, unite alla calda voce di Readman e ad un sentimento di solitudine che aleggia nell’aria, rilancia verso un ritornello pieno e carico che brucia passione in ogni nota scorrendo e fremendo fino all’insinuarsi tagliente e preciso dell’assolo di chitarra.
Signori, i Room Experience riaprono la porta verso un lavoro che profuma di vibrante nostalgia per uno dei periodi che più ha regalato emozioni al melodic rock!”
Denis Abello
Il Singolo Strangers in the Night sarà disponibile dal 2 aprile 2020
Per tutti i dettagli sulla prossima uscita di Another Time and Place dei Room Experience:
https://www.melodicrock.it/2020/03/room-experience-svelati-i-dettagli-del-secondo-album-another-time-and-place/
Qui la copertina del nuovo singolo realizzata come sempre dall’Artista Aeglos Art:
