House Of Lords – House Of Lords – Classico

Se studiassimo l’epopea musicale rock come un libro di storia, gli House Of Lords sarebbero sicuramente un capitolo da approfondire con la massima attenzione, perché rappresentano la sublimazione del percorso artistico di un grande tastierista e la perfetta fusione tra la maestosità del pomp rock keyboard oriented e l’hard rock scintillante di matrice più marcatamente chitarristica che spopolava negli Usa di fine anni 80.

La genesi del gruppo  arriva come evoluzione dei Giuffria che con l’album omonimo del 1984 e il successivo Silk + Steel nel 1986 stavano traghettando il pomp rock di marca Angel nei tempi moderni, la scintilla definitiva fu fornita da Gene Simmons che  aveva appena fondato la sua personale etichetta discografica e cercava un gruppo a cui fare da pigmalione per lanciarlo in orbita verso il successo. Prima mossa il cambio del moniker, House Of Lords infatti garantiva una magniloquenza ed una presa senza dubbio superiore e Simmons ha sempre avuto l’occhio lungo sul marketing, inoltre furono messi a disposizione della band una serie di songwriter di qualità e venne trovato un equilibrio tra la ridondanza tastieristica di Giuffria e l’impeto da guitar hero del finora sotto utilizzato Lenny Cordola. La sezione ritmica venne affidata a Chuck Wright che già aveva collaborato con Giuffria, mentre alle pelli venne arruolato Ken Mary, una vera e propria garanzia di tecnica e performance. Ultimo colpo di teatro di Gene la rimozione per chissà quali motivi (gli annali hard & heavy di quei tempi erano più ricchi di gossip di novella 3000) di David Glen Eisely a favore dell’ emergente James Christian, tra l’altro dotato di timbrica estremamente simile al predecessore, ma con una attitudine più al gorgheggio di matrice Plant/Coverdale. Affidata la produzione ad Andy Johns i Giuffria 3.0 erano a questo punto pronti sulla rampa di lancio.

Ammirato il logo regale incastonato in pregiato marmo scuro della copertina ed appoggiato il disco (nel mio caso specifico) sul piatto, ecco che parte la magia di Pleasure Palace, intro pomp old school ed hard rock rovente arricchito da cori da urlo. Si prosegue con l’hard rock melodico di I Wanna Be Loved, catchy e anthemica per arrivare ad uno degli episodi più alti del disco ovvero Edge Of Your Life, sofferta e  melodica, ma dotata di una classe quasi altezzosa. Ricordate il duetto voce chitarra di Made In Japan dei Deep Purple? Ecco solo dei ‘pazzi’  potevano pensare di mettere una cosa del genere in un disco e naturalmente gli House Of Lords lo hanno fatto in Lookin’ For Strange, pezzo che sembra una jam session di geni. Chiude il primo lotto la splendida ballad Love Don’t Lie, scritta e già edita da Stan Bush e se non vi si stringe il cuoricino qui, potrei ricorrere ad una metafora di Buffoniana memoria. Slip Of The Tongue è il classico arena rock scintillante, mentre Hearts Of The World è epica e affilata. Più ancorata alle radici pomp è Under Blue Skies, con importanti strutture tastieristiche ed un ritornello da urlare a squarciagola coi pugni levati al cielo. Gli ultimi due colpi in canna del disco sono Call My Name, hard rock melodico perfetto per le esibizioni live e la ballad Jelous Heart di pregevole fattura, se per caso conservate dei dubbi sull’eccelso buon gusto di questi musicisti, ascoltate l’arpeggio iniziale di Cordola e godetevi lo spettacolo.

Il disco pur se scarsamente supportato dall’attività live, ebbe un discreto successo e fu seguito da un’altro pezzo da novanta come Sahara e successivamente da Demons Down che formano un trittico eccezionale che ben poche band possono vantare. Il percorso successivo all’uscita di Giuffria dalla band continua fino ai giorni nostri con alti e bassi, ma mi sento di poter dire che le vette dei primi tre album restano a distanze siderali.

In estrema sintesi un caposaldo del rock da possedere assolutamente.

Devils In Heaven – Rise – Recensione

Una delle copertine più pacchiane della storia nasconde un gioiello di melodic rock partorito da un gruppo perseguitato dalla sfiga. Un disco che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un crack e che per nostra somma gioia è stato ripescato da Aor Heaven dandoci la possibiltà di gustarcelo a quasi trent’anni di distanza.

Un po’ di storia: i Devils In Heaven sono un gruppo Australiano ,della Tasmania per l’esattezza, che ebbe il suo quarto d’ora di celebrità vincendo un concorso di un programma televisivo ed assicurandosi così la possibiltà di registrare un singolo con la Sony. Correva l’anno 1992 e la Sony, adempiuto il vincolo contrattuale, non aveva nessun interesse nella promozione e nello sviluppo di questo progetto, affaccendata com’era sia nella produzione dell’uscita di Rick Price (tra l’altro ottimo disco ,ma flop commerciale) e nella rincorsa ad altre  coordinate sonore. Comunque sia, il singolo un po’ di rumore nella scena underground lo fece (su Discogs mi sembra sia quotato sui 300/350 dollari ) e questo stimolò i diavoli della tasmania a registrare un ep autoprodotto direttamente negli Usa avvalendosi della collaborazione artistica e produttiva di Sir Arthur Payson (Mitch Malloy, Tattoo Rodeo, Kane Roberts, tanto per fare qualche nome dei suoi assistiti). Nasce così nel 1993 Liberation ,un ep con tre tracce uscito per la super underground Possum records. Inutile dire che un sound del genere nel 1993 senza nessuna spinta promozionale, non ebbe la minima speranza . Se comprerete questo Rise, troverete inclusa una esaustiva intervista che narra tutte le vicissitudini di questi sfortunati ragazzi, dalla perdita della voce del singer David Whitney, alla prematura scomparsa del batterista Phil Crothers.

Questa edizione contiene tutte le cinque canzoni precedentemente edite, più altre sette registrazioni mai uscite, tutte remasterizzate e ripulite, inoltre le ultime due bonus track sono la riproposizione delle versioni originali dell’epoca.

Musicalmente parlando , le canzoni si muovono su coordinate melodic rock /aor con qualche puntata nel pop rock di matrice Aussie, volendo sintetizzare in estremo ,un mix tra 1927 e From The Fire per chi li conosce, ma non avrete difficoltà a collocarlo nel tipico filone anni 80 poiché ne ripercorre in pieno lo spirito. Per me è stato amore al primo ascolto e tutte le canzoni hanno una loro dignità , chiaramente si nota una certa disomegeneità dovuta al fatto che le canzoni sono state composte in epoche diverse e cercando di trovare una vera e propria direzione sonora, in ogni caso sono tutti esperimenti riusciti. Citerò in ordine sparso Liberation che con il suo bridge avrebbe reso fieri i gemelli Nelson e Take Me che si muove su un territorio molto accostabile ai From The Fire. Segue Ain’t It A Wonder, una ballad che ai tempi avremmo definito strappamutande, il classico lento da ballare abbracciati ad una bella pischellotta, veramente emozionale. Ships In The Night è un mid tempo che deve molto alla scena Australiana ed il sound 1927 è inconfondibile. Ascoltate poi con che approccio Boltoniano viene affrontata Ships in The Night, un vero e prorio hit mancato. All Night va ad esplorare il pop/rock più orecchiabile e non va lontano dalle atmosfere compositive alla Mark Spiro. I moderni amanti del revival synth pop potranno invece sculettare amabilmente sulle note di Listen To My Heart con quell’intro alla Donna Summer che farà impallidire tutti i Brother Firetribe dell’universo. Cito inoltre la conclusiva ballad Heart, Mind & Soul delicata e coinvolgente.

Insomma a me è scattato il colpo di fulmine per questa sfortunatissima band dalle grandi doti e se sicuramente si candida per la copertina più brutta del millennio, questo Rise merita l’acquisto ad occhi chiusi perché qui…..mancò la fortuna, non di certo il valore.