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Tesla – Shock – Recensione

22 Marzo 2019 23 Commenti Alberto Rozza

genere: Hard Rock
anno: 2019
etichetta: Universal Music Enterprises

Tracklist:

1. You Won’t Take Me Alive
2. Taste Like
3. We Can Rule The World
4. Shock
5. Love Is A Fire
6. California Summer Song
7. Forever Loving You
8. The Mission
9. Tied To The Tracks
10. Afterlife
11. I Want Everything
12. Comfort Zone

Formazione:

Jeff Keith – Vocal
Frank Hannon – Guitar
Dave Rude – Guitar
Brian Wheat – Bass
Troy Luccketta – Drums

 

Quando si parla dei Tesla non servono presentazioni e lungaggini: band storica e iconica del panorama statunitense anni ’80, un marchio riconoscibile e garantito del rock contemporaneo.

“You Won’t Take Me Alive” apre le danze, grezza, sincere e movimentata, dalla linea vocale e dal groove inconfondibile. Ottime trame strutturali e richiami al passato del rock dominano “Taste Like”, pezzone godibile che si riversa nella delicata ballade quasi sinfonica “We Can Rule The World”, la cui peculiarità è l’intenso uso della chitarra classica, anche nella parte solista. Arriva quindi il turno della title track “Shock”, dall’introduzione molto moderna e un po’ sconvolgente, non un grande slancio artistico, ma con un buon ritornello martellante e coinvolgente. “Love Is A Fire” è un altro lento sdolcinato e suadente, ma che si può inserire senza troppi picchi di fantasia nella massa delle power ballads. La corta “California Summer” ha qualcosa di poppeggiante, qualcosa di fresco, ma nulla di più e in un soffio ci ritroviamo catapultati in “Forever Loving You”, altro acustico melenso e sentimentale, che nonostante l’immensa qualità realizzativa risulta un tantino eccessivo.

Leggermente più scatenata, “The Mission” ci riporta per un attimo nei roboanti anni ’80, mettendosi in luce per l’ottima resa strumentale. “Tied To The Tracks” è aggressiva e pestata, molto ritmata, che risulta essere uno dei punti di forza del lavoro. Altro pezzo di passaggio risulta essere “Afterlife”, senza infamia e senza gloria, come il successivo “I Want Everything”, più scanzonato e globalmente corale. La conclusiva “Comfort Zone” sembra riassumere il pensiero di questo lavoro, che non si scosta mai veramente dalla “normalità”, non dimostrando grande freschezza ideativa, pur mantenendosi su buoni livelli tecnici e realizzativi, data la produzione da parte di una major.

© 2019, Alberto Rozza. All rights reserved.

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