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Recensione

70/100

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Joseph Williams – Denizen Tenant – Recensione

29 Marzo 2021 6 Commenti Vittorio Mortara

genere: Pop/Rock/Fusion
anno: 2021
etichetta: The Players Club

Tracklist:

Never Saw You Coming
Liberty Man
Denizen Tenant
Wilma Fingadoux
Black Dahlia (feat. David Paich)
Don’t Give Up (feat. Hannah Ruick)
The Dream
Remember Her (feat. Steve Lukather)
No Lessons
Mistress Winter’s Jump
If I Fell (feat. Steve Lukather)
World Broken

Formazione:

oseph Williams – Voce, piano, tastiere
Jeff Babko – Tastiere
David Paich – Tastiere
Oscar Bugarin – Piano, pynth, batteria
Simon Phillips – Batteria
Lenny Castro – Percussioni
Dylan Ronan – Batteria, synth
Nathan East – Basso
Hannah Ruick – Voce
Jay Gruska – Piano, synth
Leland Sklar – Basso
Barbara Gruska – Batteria, percussioni
Steve Tavaglione – Tromba
Mike Landau – Chitarra
Weston Wilson – Voce
Steve Lukather – Chitarra, voce
Ray Williams – Voce
Steve Overton – Basso, chitarra
Mark T. Williams – Batteria

 

Joseph Williams è, nell’immaginario di chi legge queste pagine, fondamentalmente il cantante dei Toto in “Frenheit” e “Seveth one”, per chi scrive l’apice assoluto della band americana in quanto summa di tecnica, potenziale commerciale e songwriting. Non me ne vogliano i sostenitori di Kimball e Frederikssen, ma il rossocrinito cantante californiano ha portato quel quid che mancava prima e che è mancato dopo in una band dall’immenso potenziale che senza di lui raramente è stato espresso. Basti pensare che “Africa” fino ad allora è stato il loro pezzo più conosciuto ed era una cover! Dopo quell’esperienza il singer ha pubblicato tre dischi da solista proponendo un pop-aor di facile presa, due con il progetto Vertigo dal sound vagamente più hard rispetto alle opere a suo nome, e due con i CWF insieme a Bill Champlin e Peter Friested dal flavour cantautorale westcoastiano molto accentuato.

Ed in questo 2021, contemporaneamente a “I found the sun again” del suo alter ego Steve Lukater, ha dato alle stampe questo nuovo “Denizen Tenant”.

Per realizzarlo Joseph ha raccolto intorno a sé uno stuolo di musicisti rock, fusion e pop da fare invidia a chiunque. Due nomi su tutti: Michael Landau, quotatissimo session man alle chitarre, e Lenny Castro, percussionista altrettanto gettonato dalle star del pop e del rock. Dietro il mixer ha piazzato il fido Jay Gruska, il quale è riuscito a tirare fuori un sound elegante e rifinito.

Su una manciata di pezzi, poi, hanno contribuito in fase compositiva ed esecutiva gli altri due Toto Steve Lukather e David Paich.

E’ chiaro che, con un simile dispiego di forze, la “confezione” di quest’album non poteva non essere il non plus ultra. Questo è uno dei pochi album passati dalla redazione che riesca, quando lo faccio girare nel mio impianto hifi, a non farmi rimpiangere i (tanti) soldi spesi per metterlo su: dinamica straordinaria, suoni precisi e ben posizionati nello spazio, buona immagine stereofonica. In un mondo come quello dell’hard rock dove la compressione dinamica ed i suoni impastati sono il pane quotidiano, questa è tanta roba!

Aggiungete che i personaggi coinvolti bazzicano la scena jazz/fusion, alla quale, se non sei più che bravo tecnicamente, non ti è permesso nemmeno mettere il naso. La sezione ritmica è a dir poco funambolica lungo tutto il corso dell’album! Sentire per credere il lavoro di basso, batteria e percussioni (sintetiche e non) sia sui pezzi più lenti sia sui (pochi) brani più movimentati! Top!

Ovvio che queste caratteristiche contribuiscano a far godere maggiormente il lavoro da chi la musica la suona, oltre ad ascoltarla (vero Max Giorgi?).

E da qui prendo spunto per discutere del “contenuto”. A me “Denizen tenant” non ha fatto sobbalzare dalla sedia. Non ci sono canzoni che emergano particolarmente, né ce ne sono di veramente brutte. Lo trovo un po’ troppo infarcito di ballate, spesso un po’ noiose e prive della giusta “emozionalità”. Insomma, non mi ha mai invogliato a riascoltarlo più e più volte. Dall’altro lato risulta palese la perizia con la quale è stato suonato e la finezza dei suoi arrangiamenti…

Parlando delle canzoni: intanto un disco non è un disco rock se comincia con un lento. E l’opener “Never saw you coming” è una ballad dal passo felpato e dagli arrangiamenti eleganti ma con poco mordente. Subito dopo viene richiamato lo stile Toto con “Liberty man”, pezzo dal discreto appeal dominato da un tempo “zoppo” che sfido uno qualsiasi dei nordici batteristi picchiatori a riprodurre correttamente. Territori fusion vengono invece attraversati dalla title track, troppo ostica almeno per i miei gusti. Il singolo “Wilma Fingadoux” è invece un bel brano pop, moderno ed orecchiabile, che potrebbe anche fare capolino nelle classifiche se a cantarlo fosse il fighetto di turno invece di un attempato veterano (che ormai è la copia esatta di Sammy Hagar!), e soprattutto se fosse spinto da un adeguato battage promozionale. L’ospite di lusso David Paich contribuisce nella stesura e nell’esecuzione di “Black dahlia” che, infatti, si spinge ancora una volta verso i lidi percorsi dalla band madre. Poi tocca a “Don’t give up”, scritta e cantata originariamente da Peter Gabriel e Kate Bush, ben riarrangiata, con la figlia di Joseph, Hannah Ruick, a riprodurre le partiture femminili con una prova convincente. Ovvio che raggiungere le ottave acute nelle quali sguazzava la Bush è praticamente impossibile! Toto e ancora Toto in “The dream”, dai coretti ammiccanti e dal ritmo, finalmente, un po’ più sostenuto. La classe della sezione ritmica e la consueta partitura di chitarra alla Lukather si possono apprezzare nella semiballad “Remember her”, purtroppo poco incisiva a livello di linea melodica. “No lessons” comincia quasi come una ninna nanna d’oltreoceano, per poi assumere un’aria più solenne all’altezza del refrain. Super l’assolo di tromba a metà brano! “Mistress winter’s jump” flirta invece con una sorta di folk/prog e da spazio a godibilissime evoluzioni del basso. Altra cover: questa volta è il turno di “If I fell” dei Beatles, in duetto con Lukather, la cui semplicità originaria viene parzialmente stravolta da un arrangiamento più raffinato. E si chiude con “World broken”, ancora uno slow, stavolta dal tono più drammatico, con una interpretazione perfettamente all’altezza di Williams.

Quindi “Denizen tenant” vale o non vale l’acquisto? Beh, i lavori di gente del calibro di Joseph Williams valgono sempre l’acquisto. A prescindere. Anche solo per la classe profusa. Ma tenete presente che questo non è un disco di canzonette. Non è di facile ascolto, a parte un paio di pezzi. E soprattutto lo apprezzerete appieno solo se siete musicisti. Se volete acoltare il rosso nelle sue migliori prestazioni, allora procuratevi “Seventh one” dei Toto o il primo dei Vertigo. Se, invece, decidete di volerlo acquistare ed avete un impianto stereo di un certo livello, andate senza dubbio sulla versione HiRes a 24bit/96Khz: ne vale assolutamente la pena.

Si potesse dare un giudizio disgiunto a qualità artistica e qualità tecnica darei 60 e 100. Ma visto che non si può… il voto ve l’ho scritto sopra.

© 2021, Vittorio Mortara. All rights reserved.

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