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Recensione

55/100

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American Tears – Free Angel Express – Recensione

05 Dicembre 2020 1 Commento Vittorio Mortara

genere: Keyboard oriented pomp/prog
anno: 2020
etichetta: Deko Entertainment

Tracklist:

01. Sledgehammered
02. Set It On Fire
03. Free Angel Express/Resist/Outta Here
04. Not For Nothing
05. Glass
06. Everything You Take
07. Roll The Stone
08. Blue Rondo
09. Can’t Get Satisfied
10. Woke
11. Shadows Aching Karma
12. So Glow
13. Rise To The Light
14. Tusk (Blood on the Ivory)

Formazione:

Mark Mangold: Voce e tastiere
Mark Landenburg: Batteria
Barry Sparks, Dough Howard: Basso
Charlie Calv: Tastiere

 

Se vi accingete all’ascolto di questo “Free angel express” degli American Tears perché avete letto che nel gruppo milita il mitico Mark Mangold, membro fondatore dei Touch, dei Drive, She Said e dei fantastici Mystic Healer, nonché collaboratore sul mastodontico “Everybody’s crazy” di Michael Bolton, allora fate una cosa: non premete il tasto play e rivolgete le vostre attenzioni altrove…
Questo album non è un disco di Hard Rock e neppure di AOR. Non c’è traccia di chitarre, né pulite né distorte. Le melodie non sono quasi mai di facile presa. Si tratta piuttosto di un pomp/prog molto keyboard oriented, dai suoni estremamente futuristici. Qualcosa fra ELP, Jean Michelle Jarre e… perché no, Goblin!
Oltre a Mark, che suona tutti i generi di tastiera e canta, abbiamo Mark Landenburg degli Stratovarious alla batteria su tutti i pezzi, Barry Sparks (UFO, Dokken) e Doug Howard (Touch, Utopia, Edgar Winter Band) al basso, più un altro tastierista, Charlie Calv (Angel, Shotgun Symphony), a dare manforte. Tutta gente dal curriculum e dalla bravura indiscutibili.
Ora, la mia esperienza ai tasti d’avorio si limita a “Fra Martino campanaro” suonato con un solo dito all’organetto Bontempi quando ero piccolo, quindi il mio giudizio sulla tecnica di Mangold non è sicuramente fra più autorevoli. Però il ragazzo mi pare veramente bravo. Il suo stile è più su un Keith Emerson che su un Jonathan Cain, più progressive che fusion.
Questo, unito alla scelta di suoni spaziali ed a una produzione piuttosto fredda e asettica, dona all’album una osticità di ascolto piuttosto marcata. Difficile ascoltarlo tutto d’un fiato.
Ripeto, qui siamo mooolto lontani dal genere con il quale siamo soliti deliziare i nostri padiglioni auricolari.

Si parte con “Sledgehammer” con il suo riffone di tastiere in pieno stile Goblin ed un coro anthemico con tanto di classico “woah woah”.
Piu catchy la successiva semi ballad “Set it on fire”, dal suggestivo cantato ipnotico, che sorprende nel finale con un solo di batteria di Landenburg.
Quasi strumentale il trittico “Free angel express/Resist/Outta here”, dove la voce fa capolino solo qua e la in un trionfo di cambi di tempo e suoni fantascientifici che si prolunga per oltre 10 minuti… sarebbe perfetta per la colonna sonora di un documentario su qualche lontana galassia.
Un tempo dispari detta il ritmo a funambolici giri di keys su “Not for nothing”, per la quale il cantato ripetitivo sembra soltanto un contorno e non una parte essenziale.
Il pezzo più classicamente rock e più vicino all’AOR è “Glass”, grazie al refrain di facile presa ed alla struttura un po’ meno arzigogolata.
Quando parte “Everything you take” sembra quasi di aver premuto il tasto play su un qualsiasi videogame degli anni 80. Ancora una volta la parte vocale serve solo da accompagnamento in un frenetico susseguirsi di suoni di synth.
Clssico hammond e ritmo incalzante per “Roll the stone”, piuttosto anonima e noiosa.
Veramente ostico lo strumentale “Blue rondo”, continua variazione su un giro ripetitivo ancora una volta di hammond.
“Can’t get satisfied” è decisamente più piacevole, quasi una “Money for nothing” senza la chitarra di Knopfler, ritmata e trascinante.
Ancora una volta il suono dell’hammond caratterizza “Woke”, lenta ed ipnotica salvo nell’inaspettato raddoppio di tempo sul finale.
L’up tempo “Shadows aching karma” è un altro pezzo ostico che ti fa venire voglia di saltare alla traccia successive.
E così si arriva a “So glow”, la canzone più bella del disco. Un brano progressive vecchio stile, pregno di Genesis e Peter Gabriel, lento e carezzevole, con una bellissima punteggiatura di piano ed una linea melodica perfettamente azzeccata.
Ancora una volta l’hammond apre “Rise to the light”, canzone che ricorda vagamente “Whiter shade of pale” dei Procol Harum, senza per altro raggiungerne l’intensità.
E a chiudere ancora un pezzo di non facile assimilazione “Tusk: blood on the ivory”, denuncia del truce sterminio degli elefanti per l’accaparramento dell’avorio. Impegnativa nell’ascolto quanto il tema trattato.
Allora, siamo alle conclusioni. Il mio consiglio è di avvicinarvi con estrema cautela a questa release. Io stesso nutrivo aspettative diverse da Mangold. Devo dire la verità, ho saltato a piè pari l’ascolto del precedente “White flags”, ma avevo un buon ricordo di “Hard core” un album composto di ballads piuttosto piacevoli. Quindi pensavo di trovarmi di fronte a qualcosa di simile, vicino ai Marillion di Steve Hogarth con una spruzzata dei 3 di Keith Emerson, Carl Palmer e Robert Berry.
Invece questo è un album che mi sento di consigliare solo ai veri cultori della tastiera: loro apprezzeranno senz’altro più di me virtuosismi e padronanza dello strumento, che sicuramente troveranno in gran quantità.
Bene, ora vi lascio e vado ad ascoltarmi “As she touches me (Why can’t I believe?)” dei Drive, She said per tirarmi su il morale… alla prossima!

© 2020, Vittorio Mortara. All rights reserved.

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