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Recensione Gemma Sepolta

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Gemma Sepolta

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McQueen Street – McQueen Street – Gemma Sepolta

20 Settembre 2025 2 Commenti Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1991
etichetta: SBK
ristampe:

Tracklist:

1 - When I'm In The Mood
2 - Woman In Love
3 - Time
4 - Money
5 - Stick It
6 - My Religion
7 - Going Back To Mexico
8 - In Heaven
9 - Two Worlds
10 - Only The WInd

Formazione:

Derek Welsh : lead and backing vocals, guitars
Michael Powers : guitars, backing vocals
Richard Hatcher : bass, backing vocals
Chris Welsh : drums, backing vocals

Ospiti:

Alex Acuna (percussions)
C.J. Vanston (keyboards)
Jeff Scott Soto (backing vocals)
Steve Stevens (guitars)
Tom Werman (percussions)

 

Questo è uno di quei dischi che ti capita di vedere passare sullo scaffale, mentre sistemi la collezione o scegli cosa ascoltare, e già dalla copertina riaffiorano alla mente i ricordi in bianco e nero di un’epoca che fu. Un album che aveva tutto per sfondare, ma che, come accaduto a molti altri, è finito nel cassetto dei tesori nascosti. Una gemma di hard rock diretto e senza fronzoli, che meritava molta più fortuna ed è stata sepolta dalla fine di un’era.

La storia dei McQueen Street inizia nel profondo Sud degli Stati Uniti, a Montgomery, Alabama, alla fine degli anni ’80. Per circa tre anni, il cantante e chitarrista Derek Welsh, il chitarrista Michael Powers, il bassista Richard Hatcher e il batterista Chris Welsh si sono fatti le ossa suonando ovunque fosse possibile nel Sud-Est. Parliamo di 5-7 sere a settimana (a pensarci oggi vengono i brividi), tra locali pieni e bettole con solo una manciata di ubriachi come pubblico (e a chi non è venuto in mente il film The Blues Brothers?). Ma non importava: erano in missione per conto dell’hard rock (semi-cit.).

Questo sudore e questa gavetta li portarono a firmare con la SBK, una sussidiaria della EMI che annoverava in catalogo artisti del calibro di Boy George, Wilson Phillips e Jon Secada. Nomi di peso, certo, ma non esattamente specialisti dell’hard rock. Ad ogni modo, riuscirono a entrare in studio con un produttore di grande esperienza come Tom Werman (già al lavoro con pesi massimi quali Mötley Crüe e Cheap Trick). Il risultato è questo disco omonimo: dieci tracce di hard rock potente e melodico, a cavallo tra lo sleaze più stradaiolo e le radici del sound più classico. Un lavoro che, sulla carta, aveva tutte le carte in regola per sfondare… se non fosse stato il 1991.

L’album è un concentrato di energia pura, come lo definì lo stesso Derek Welsh. Pezzi come ‘When I’m In The Mood’, ‘Woman in Love’ e ‘Money’ sono da rocker puri, paragonabili a un incrocio tra Skid Row e Great White. Certo, non puntavano sull’originalità: la band non ha mai cercato di aprire nuove strade, ma compensava ampiamente con un feeling travolgente e un songwriting solido ed efficace. Brani come ‘Going Back to Mexico’ mostrano un lato più strutturato e potente, sulla scia di Bulletboys, Kix e Junkyard, con persino un intro percussivo dal sapore spagnoleggiante a sottolineare l’ambientazione del brano. Tuttavia, i McQueen Street sapevano anche rallentare il ritmo, dimostrando una notevole capacità nel confezionare ballad di grande intensità. ‘Time’ è una power ballad carica di pathos, con un’atmosfera quasi western, mentre ‘In Heaven’ può senz’altro essere considerata il vertice emotivo del disco: una splendida ballad da dedicare all’infatuazione giovanile del momento, perfetta per fare colpo col tocco dell’uomo fuori dagli schemi (e con i miei coetanei ci siamo capiti :-)). E poi c’è ‘Only The Wind’, un’altra preziosa gemma elettroacustica. Questa capacità di alternare colpi diretti allo stomaco a delicate carezze melodiche è uno dei tratti più pregevoli del disco, capace di coinvolgere senza annoiare, anche a decenni dall’uscita.

Ad impreziosire l’album, e a ulteriore conferma che i McQueen Street non erano, per così dire, caduti da un pero, ci sono ospiti di un certo calibro. Steve Stevens, il celebre chitarrista di Billy Idol, suona un assolo e co-produce il brano ‘Two Worlds’, mentre ai cori troviamo un altro nome noto, Jeff Scott Soto, e alle tastiere un certo Cj Vanston. Insomma, non so se mi spiego…

Nonostante la qualità del materiale e una produzione impeccabile a cura di Werman, qualcosa ovviamente andò storto. Derek Welsh stesso ha raccontato di non essere mai stato soddisfatto delle strategie di marketing, in particolare della copertina dell’album, che ritraeva una donna su un camion: la considerava una rappresentazione inaccurata della band e della sua musica, un tentativo forzato di associarli alla solita trinità “sesso, ragazze e feste”. Anche la scelta dei primi tre singoli (‘My Religion’, ‘In Heaven’ e ‘Time’) gli parve poco coerente. Io penso invece che furono i cambiamenti dell’industria musicale all’inizio degli anni ’90, con le radio e MTV che voltavano le spalle a un certo tipo di hard rock, a condannare band come i McQueen Street all’oblio. Senza supporto mediatico e con il morale a terra, la band si sciolse nel 1993 e, tragicamente, l’anno successivo il batterista e fratello di Derek, Chris Welsh, morì a causa di una malattia virale.

Pur avendo avuto una carriera troppo breve (esiste solo un altro album della band, datato 2003), quest’album resta una testimonianza potentissima di ciò che i McQueen Street avrebbero potuto diventare. È il classico disco simbolo di un’epoca: forse non un capolavoro, ma assolutamente da ascoltare a tutto volume, con i finestrini abbassati, e che avrebbe meritato sicuramente più riconoscimento di quello ottenuto. Un piccolo frammento di storia del rock che, grazie alla passione dei fan, continua a rifiutarsi di essere dimenticato.

© 2025, Samuele Mannini. All rights reserved.

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