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Classico

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Deep Purple – Made In Japan – Classico

22 Giugno 2025 1 Commento Samuele Mannini

genere: Hard Rock
anno: 1972
etichetta: Emi
ristampe:

Tracklist:

Highway Star – 6:42
Child in Time – 12:18
Smoke on the Water – 7:37
The Mule – 9:28
Strange Kind of Woman – 9:52
Lazy – 10:27
Space Truckin' – 19:53

Formazione:

Ritchie Blackmore - chitarra
Ian Gillan - voce
Roger Glover - basso
Jon Lord - Hammond, tastiere
Ian Paice - batteria

 

Come si fa a non includere un disco dei Deep Purple nella nostra rubrica? Parlare di una band che ha dato origine all’hard rock come lo conosciamo oggi mi è sempre sembrato quasi obbligatorio. Il problema, però, è sempre stato uno: quale disco scegliere? È proprio questo dubbio che mi ha fatto rimandare più volte l’inserimento dei Purple. Da fan sfegatato degli Whitesnake, avrei potuto optare per Burn, oppure per In Rock, l’album che ha praticamente sdoganato il concetto di rock duro. Poi però ho avuto un’intuizione: perché non fare un’eccezione e inserire un live?  Ho scelto dunque un live, quello che molti considerano il live per eccellenza. E se persino io, che non amo particolarmente i dischi dal vivo, lo propongo, significa che è davvero speciale.

Ora, so benissimo che probabilmente non dirò nulla di nuovo, e che su questo disco si sono già espressi praticamente tutti coloro che hanno scritto di musica, a qualsiasi livello. Proprio per questo, consapevole dell’impresa improba in cui mi sto cimentando, ho deciso di offrire semplicemente il mio umile contributo: una visione personale ed emozionale di ciò che un disco del genere può suscitare in chi, come me, si diletta a scribacchiare di musica.

Ci sono dischi che trascendono la semplice registrazione musicale per diventare vere e proprie esperienze: pietre miliari capaci di scolpire la storia di un genere. ‘Made in Japan’ dei Deep Purple, pubblicato l’8 dicembre 1972 è uno di questi. Universalmente celebrato come un capolavoro assoluto dell’hard rock e, senza troppo timore di smentita, considerato da molti il miglior album dal vivo di tutti i tempi, questo doppio LP cattura i Deep Purple al suo meglio: una band perfetta e all’apice della propria creatività ed assolutamente al top della forma.

Ascoltare ‘Made in Japan’, soprattutto, al giorno d’oggi è come assistere a un miracolo sonoro, un’istantanea fedele di un’epoca in cui la musica era un’arte superiore, per usare le parole di Roger Glover, era “il disco più onesto della storia del rock”, privo di sovraincisioni o trucchi da studio.

L’album nacque quasi per caso, su richiesta della casa discografica giapponese, che voleva un’esclusiva per il loro mercato. La band, inizialmente riluttante, accettò. Le registrazioni vennero effettuate in sole tre serate, dal 15 al 17 agosto 1972, tra il Festival Hall di Osaka e il Budokan di Tokyo, durante il tour di ‘Machine Head’. Quando i Deep Purple si ritrovarono ad ascoltare il materiale, capirono di avere tra le mani – citando Jon Lord – “qualcosa di meraviglioso”. ‘Made in Japan’ è un bellissimo scatto della band in tutta la sua gloria, che suona dal vivo, stimolandosi l’un l’altro”. La leggendaria formazione Mark II — Gillan, Blackmore, Glover, Lord e Paice — è considerata dai più la quintessenza dell’epoca d’oro della band.

‘Made in Japan’ fu anche uno dei primi album live ad ottenere un successo commerciale globale, raggiungendo le prime posizioni in Europa, Nord America e Australia. Le certificazioni parlano da sole: doppio platino in Argentina, platino in Austria, Germania e Stati Uniti, oro in Francia, Italia e Regno Unito.

Un disco che diverrà iconico a partire dalla copertina e una curiosità sulla copertina viene fornita da Phil Collen dei Def Leppard: “Ricordo quando presi ‘Made In Japan’ e guardando quella foto sul retro mi accorsi che ero io – il ragazzo biondo in piedi tra il pubblico, proprio davanti a Ritchie Blackmore. Pensai:« Ma non è il Giappone! Quello è Brixton!» Era il Brixton Sundown, poi conosciuto come l’Academy. Fu il primo concerto a cui sia mai andato, avevo 14 anni e riuscii ad arrivare proprio sotto il palco. Non suonavo ancora la chitarra, e fu proprio quello spettacolo, stare lì davanti al punto in cui Blackmore era sul palco, con la sua Stratocaster che brillava, mentre suonava tutte quelle cose che allora nessun altro faceva, che mi spinse a prendere in mano una chitarra e iniziare a suonare, letteralmente, il giorno dopo.”

Un elemento intrigante, e forse sorprendente, è che le tensioni ‘solistiche’ tra Ritchie Blackmore e Jon Lord finirono per elevare il livello delle loro esibizioni dal vivo, dando vita a una competizione creativa intensa e luminosa. Questo continuo confronto tra personalità forti e virtuosismi si trasformava in un’energia viva e travolgente durante i concerti. I Deep Purple avevano una dote rara: potevano dilatare i brani fino al limite senza mai perdere l’attenzione dell’ascoltatore, grazie a una combinazione magistrale di spontaneità e complessità sonora. Erano maestri del palcoscenico, con una presenza scenica imponente e inarrestabile.

Durante i concerti giapponesi del 1972 che diedero vita all’album ‘Made in Japan’, il supporto tecnico fu fondamentale per catturare la qualità e l’atmosfera di quelle performance live. I concerti furono registrati su nastro analogico a 8 piste, un formato che oggi può sembrare limitato, ma che all’epoca rappresentava lo standard per produzioni di alta qualità. Il tecnico responsabile fu Martin Birch, già collaboratore dei Deep Purple in studio, incaricato di registrare i tre concerti svoltisi a Osaka il 15 e 16 agosto e a Tokyo il 17 agosto. L’approccio alla microfonazione fu minimale ma estremamente strategico: per esempio, la batteria fu microfonata con pochi punti chiave, così da preservare l’ambiente naturale della sala. L’Hammond di Jon Lord venne invece registrato sia direttamente sia con microfoni ambientali per catturarne al meglio la presenza scenica. Un ruolo cruciale lo giocarono anche i tecnici locali giapponesi, spesso meno noti rispetto a figure come Birch, ma che si distinsero per la loro professionalità, precisione e competenza nella gestione dell’audio dal vivo e nell’assistenza logistica. I Deep Purple rimasero colpiti dalla loro efficienza, che contribuì in modo decisivo al successo delle registrazioni.

Per quanto riguarda i brani l’esibizione live dei Deep Purple si apre con la carica esplosiva di ‘Highway Star’, introdotta con la disarmante semplicità di Gillan che esclama “Okay, here we go”. Da lì in poi, è un tornado sonoro: l’assolo di Ritchie Blackmore è pura adrenalina, un concentrato di tensione e velocità che ricorda un cavallo imbizzarrito o una moto fuori controllo, anticipando lo spirito frenetico che sarà poi un cavallo di battaglia dell’Heavy Metal. Segue la monumentale ‘Child In Time’, dove Gillan si spinge oltre l’umano con vocalizzi lancinanti e una potenza emotiva che lascia il segno. La versione dal vivo si espande ben oltre l’originale in studio, trascinata da un riff micidiale e un crescendo epico.

‘Smoke On The Water’ brilla qui nella sua incarnazione probabilmente definitiva, con una resa impeccabile. Il contributo di Jon Lord si eleva sopra ogni aspettativa: le sue tastiere arricchiscono il celebre riff conferendogli profondità e autorevolezza.

Con ‘The Mule’, ispirata al potente mutante della saga della Fondazione di Asimov, è il batterista Ian Paice a prendersi il centro della scena. Il suo assolo è una masterclass di tecnica e sensibilità ritmica, che fonde l’energia del rock duro con raffinate sfumature jazzate. Nonostante un timbro leggermente ruvido, la sua esecuzione raggiunge vette di straordinaria maestria.

“Strange Kind of Woman” diventa il campo di battaglia sonoro tra Gillan e Blackmore, una sfida in cui voce e chitarra si rispondono, si rincorrono e si confondono, culminando in un urlo di dieci secondi che sfuma i confini tra umano e strumentale: un momento iconico e inimitabile.

In ‘Lazy’, l’introduzione d’organo di Jon Lord è una meraviglia di espressività: alterna suoni puliti e distorti con magistrale controllo, mentre Blackmore si diverte ad infilare citazioni ironiche come il motivetto de I tre porcellini. L’armonica di Gillan aggiunge un’insospettabile vena country, dimostrando la versatilità del gruppo.

Si chiude con “Space Truckin’”, che si dilata in una jam session spaziale di quasi venti minuti. Quel che comincia come un semplice brano rock si trasforma in un’odissea sonora organizzata e caotica allo stesso tempo, un vortice psichedelico che fonde improvvisazione e coerenza in un tessuto musicale avvolgente e travolgente, mostrando che dopotutto anche i Purple affondano le proprie radici in quel Prog rock inglese che alla fine degli anni 60 rivoluzionò il modo di fare musica.

‘Made in Japan’ è stato pubblicato in diverse edizioni nel tempo, ognuna con caratteristiche specifiche. L’edizione originale del 1972 uscì solo in Giappone come doppio LP con sette tracce dai concerti di Osaka e Tokyo. Poco dopo, tra il 1972 e il 1973, arrivò l’edizione internazionale per Regno Unito e Stati Uniti, identica nella selezione dei brani. Nel 1993 fu rilasciata una versione rimasterizzata in CD con audio migliorato, senza contenuti aggiuntivi. Il 1998 vide l’uscita di Live in Japan, un cofanetto triplo CD con i tre concerti integrali, mantenendo il mix originale. La Deluxe Edition del 2014 include quattro CD e un DVD con i concerti completi rimasterizzati e un documentario video. Infine, nel 2025 la Super Deluxe Edition per il 50° anniversario ha proposto 5 CD e Blu-ray (o 10 LP in vinile), con remix stereo e Dolby Atmos dell’ immancabile Steven Wilson, i concerti completi remixati, versioni rare e un Blu-ray con mix Atmos.

In definitiva, ‘Made In Japan’ non è solo un album, è un’esperienza che continua a essere fresca e vitale come sempre. È un must-have in qualsiasi collezione, una pietra miliare della storia del rock che ha fissato lo standard per tutti i live album a venire, sia per performance e per lunghi anni come tecnica di realizzativa ed ha eletto il Giappone a mo’ di patria del live di qualità, da qui in poi tantissime band andranno a registrare infatti i loro live album più prestigiosi proprio nel paese del sol levante È un album da avere, da ascoltare a palla, e da vivere e rivivere. La sua capacità di farci essere lì con loro nel 1972 è un testamento della sua immortalità.

© 2025, Samuele Mannini. All rights reserved.

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