UFO – A Conspiracy Of Stars – Recensione

Non ci posso proprio fare niente, amo visceralmente questa incarnazione della band guidata dall’inossidabile Phil Mogg fin dal lontano 1969. Trovo che la sostituzione della Leggenda Schenker abbia donato linfa nuova alla carriera del five piece britannico relegando a letteratura i continui scazzi di personalità, repentini cambi di line­up e una statura artistica troppo spesso a corrente alternata sin dai primi anni ottanta.
Dal 2004, anno di pubblicazione del come­back You Are Here il monicker UFO ha regolarmente sfornato album qualitativamente rilevanti (The Visitor e Seven Deadly su tutti) MAI sotto il livello di guardia mantenendo inalterato il loro trademark a base di hard rock a massicce tinte blues non disdegnando piccole incursioni in territori fino a qualche anno fa inesplorati. La pastosa voce di Mr.Mogg è ancora solida, comprensibilmente meno potente di qualche decennio fa ma ancora capace di incantare grazie ad un timbro inconfondibile a cui si unisce un carisma scenico immutato.
A Conspiracy Of Stars è un tassello ulteriore di tutto rispetto degnamente supportato da un songwriting (sempre più ad appannaggio del misurato Vinnie Moore) pulito, senza sbavature, ispirato e vitale ma soprattutto lucidamente puntellato di nuove perle e di una dilagante sensazione di rito immutabile non per questo privo di fascino.

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Sweet & Lynch – Only To Rise – recensione

 

La strana coppia. Ultimamente le collaborazioni si sprecano tra i decani hard rocker a stelle e strisce tra le quali, regolarmente nell’angolo rosso, spunta il nome di George Lynch, chitarrista extraordinaire (Dokken, Lynch Mob) sempre più a suo agio in queste operazioni di frugalità discografica.
Nell’angolo blu invece il baldanzoso Michael Sweet (Stryper), che ritorna a farsi sentire a distanza di un anno dall’egregio album solista e, sotto l’egida della sempre lungimirante Frontiers di Serafino Perugino, contribuisce per questo esordio discografico non solamente a livello di songrwriting ma ricoprendo in prima persona il ruolo di produttore.
James Lomenzo (Megadeth, Black Label Society, White Lion) e Brian Tichy (Whitesnake, Foreigner, Billy Idol) completano questa line-up stellare che, difficilmente in passato, sarebbe stato possibile ritrovare in un’epoca zeppa di personalismi e tentativi di eldorado.

Only To Rise consta di 13 tracce di succoso e bollente Hard Rock di chiara matrice statunitense che, inevitabilmente, raccoglie il testimone dall’ultima produzione Stryper ricalcandone le orme metalliche rispolverando l’appeal Aor-oriented e ampliandone ulteriormente il raggio d’azione grazie all’apporto di un Lynch sempre più calato nella contemporaneità dei suoni e dello skill tecnico.
E’ un disco che accontenta i fan delle rispettive formazioni? Yes my friends! Certo si è corso il rischio di scontentare i supporter più sfegatati e intransigenti ma, volenti o nolenti, le stimmate di due carriere trentennali sono innegabili e riconoscibili ad ogni passaggio inoltre le dinamiche che consentono alla pulita e fulgida voce di Sweet di incastrarsi alla perfezione con il funambolismo tellurico di Lynch consolidano il giudizio di un lavoro innegabilmente riuscito. L’album è compatto, coeso, senza cali di tono anche se quella copertina grida vendetta.
Il video teaser September ha svelato compiutamente un canovaccio che ritroviamo senza particolari sconvolgimenti per tutta la durata del full lenght: ottime armonie vocali, un piede sull’accelleratore della ritmica e sul punch delle singole song e un pattern chitarristico stratificato, metallico ed estremamente tecnico in linea con quanto mostrato da Lynch nel progetto KXM del 2014.
Il resto fluttua tra le reminescenze Lynch Mob all’ennesima potenza di Like a Dying Rose e Rescue Me (due killer track) e l’anthemica power ballad Love Stays (Sweet superlativo), tra le metalliche Time Will Tell e Recover trascinate da una ritmica dinamica e riservando un capitolo a parte per Me Without You, meraviglioso e struggente affresco senza tempo sospeso tra melodia e un chitarristismo incisivo e delicato.

IN CONCLUSIONE

Meglio degli ultimi Stryper, meglio di quanto realizzato in due decadi dai Lynch Mob, questa liaison funziona e cresce con il passare degli ascolti: è rock, è melodico, è ben suonato, è ben prodotto. Buy Or Die!

 

Mr. Big – …The Stories We Could Tell – recensione

E’ una regola che cercherò di tenere sempre a mente: non serve a nulla ritardare all’infinito una recensione nella speranza che, ciò che è risultato evidente già dai primi ascolti, cambi per intercessione divina.
Ho approcciato questo ultimo Mr. Big con una malcelata trepidazione e un ottimismo dilagante, sicuro che anche in questa occasione i nostri non avrebbero tradito le attese. Certo, negli anni album come Hey Man e Actual Size su tutti sono stati al di sotto del distinto, ma questo …The Stories We Could Tell è un flop sotto tutti gli aspetti.
Partiamo dall’ugola di Eric Martin. Qualche segnale di cedimento si era intravisto in sede live (lo stesso live in quel di Trezzo del 21 ottobre ha confermato la teoria) ma da subito ho avuto la netta impressione che quasi tutte le scelte a livello vocale siano state prese per limitare al minimo gli strappi e le salite impervie finendo però per minare uno dei trademark distintivi del four piece: la capacità di unire melodie a cavallo tra il folk americano (alla Jackson Browne), l’ AOR meno pomposo (Boston) e l’ Hard Rock di matrice britannica (Free).
A però mostrare la corda è il songwriting, mai come in questa occasione privo di guizzi, di intuizioni, di quelle commistione tra cristallina tecnica strumentale e capacità nell’imbastire pezzi canticchiabili su una canovaccio hard rock.

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Work Of Art – Framework – Recensione

 

Questa recensione non vi parlerà dei Work Of Art. Non sciorinerò la loro (breve) discografia capace di partorire album seminali per la nuova primavera del Rock Melodico made in Europe. Non ricorderò che Robert Säll, chitarrista e principale compositore ha partecipato al progetto W.E.T. insieme a Jeff Scott Soto ed è songwriter per i Place Vendome e Bobby Kimball. Eviterò accuratamente di citare le indubbie influenze Toto (Isolation), Giant (Last of The Runaways), Journey (Raised on Radio) e Stage Dolls (omonimo 1988). Vorrei tediarvi il giusto nel rendere noto al mondo intero e dintorni circa le incommensurabili doti tecniche umilmente messe al servizio di un songwriting maturo imvece che alla creazione di pugnette musicali seduta stante. Tralascerei pertanto il dato che Framework arriva sui vostri scaffali a distanza di tre anni dal precedente In Progress (qui la recensione) di cui è una naturale continuazione cementando la managerialità musicale di una gestione capace di sfornare refrain indimenticabili conditi da un supporto strumentale mai sfuocato.

Certo, il compito di chi scrive è quello (forse) di informare, o meglio, indirizzare (esageriamo) l’eventuale compratore tra diversi piece of art, ma perchè dilungarmi su quanto Framework sia il compendio di quanto finora realizzato dal trio svedese, che ha deciso spudoratamente di pigiare il piede sull’accelleratore degli up-tempo anche se i momenti più easy listening non mancheranno. E’ pertanto inutile che i nostri lettori più fedeli, o top commenter per gli amanti dell’inglese, si precipitino ad insultare il sottoscritto sul perchè non siano stati indicati i momenti più entusiasmanti anche se, a onor del vero, Over The Line, My Waking Dream e How Will I Know? sono da orgasmo multiplo e la Youtube-anticipation Can’t Let Go inesorabilmente detta i tempi rispetto a quanto andrete ad ascoltare in questo dischetto. Continue…

Magnum – Escape From The Shadow Garden – Recensione

Perchè?  Mi sono spesso chiesto nel corso degli anni la ragione per la quale uno straordinario ensemble come i Magnum siano sempre stati relegati ai margini del music business, fuori non solo dal mainstream imperante al momento ma  colpevolmente declassati al rango di vecchie glorie dell’ hard europeo. Eppure si potrebbe stare almeno una mezza giornata a citare dischi, canzoni, melodie, lyrics, emozioni che l’ ineffabile duo Tony Clarkin/Bob Catley ha elargito regolarmente nelle ultime quattro decadi di onorato servizio.

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Pretty Maids – Louder Than Ever – Recensione

Partiamo dalla terra ferma: Amo i Pretty Maids.
Sono stato uno degli sparuti metalhead che, nell’ anno di grazia 1987, girava orgoglioso (o orgoglione fate voi) per le lande meneghine agitando la sua copia in vinile di Future World decantando e sperticando lodi, lodi e ancora lodi per una misconosciuta band scandinava. Le nove track di quel masterpiece sposavano la fisicità e l’impatto dei metal act più duri e puri dell’epoca alla melodia di un AOR testicolato non dimenticando però il retaggio di piante secolari come Rainbow e Deep Purple. La produzione asciutta e scintillante a firma Eddie Kramer faceva il resto.

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Red Dragon Cartel – Red Dragon Cartel – Recensione

Avete presente quando ci si trova davanti ad un bivio che sapevate dall’inizio di andare ad affrontare? Che ne so, tipo di Cast Away del due volte premio oscar Tom Hanks. Un incrocio di quattro strade tra cui scegliere, tutte proponibili, tutte percorribili, tutte perfettamente identiche. Ecco, quando il vostro umile scribacchino si è trovato a decidere se alzare la mano e reclamare questo album oppure far finta di niente e continuare a sognare succinte porcellone dai facili costumi purtroppo/per fortuna ha prevalso l’eccesso di zelo, il killer instinct da navigato junkie musicale ad alto voltaggio.
Red Dragon Cartel è il monicker sotto il quale si cela il genio chitarristico di Jakey Lou Williams, per tutti Jake E. Lee.  Stiamo parlando di una personcina che ha legato il suo songwriting nei mid-eighties sia nel ritorno del madman Ozzy Osbourne in due album sottovalutati come Bark At The Moon e, soprattutto, The Ultimate Sin (andatevelo a riscoprire infedeli!).
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China – We Are The Stars – recensione

Vi prego seguitemi, la nebbiolina sempre più insidiosa inizia a fare capolinea più spesso nelle mie uggiose giornate lavorative, la pioggia è il desktop costante nello slalom tra il traffico cittadino, sempre più pinguini mi salutano all’uscita di casa al mattino e noto con stupore che l’igloo che presumo essere adibito a loro dimora aumenta di dimensioni giorno dopo giorno, insoma i più arguti avranno già intuito che non abito a Cabo San Lucas. Poi, un giorno, improvvisamente, quando meno te lo aspetti poggi la puntina (o fai click su un file mp3 per chi vive di mera realtà) sull’ennesimo disco della tua inenarrabile vita e d’incanto, non ascolti nulla!
Vi prego seguitemi (e due), We Are The Stars è la nuova creatura degli svizzeri China, vecchia marpionesca conoscenza dell’ hard melodico europeo ed è un leggero allegro e incalzante album, foriero di buon umore e di ritornelli che ti si stampano in testa come l’inventario delle tasse da versare ad ogni inzio anno.
Magnificamente prodotto da Tommy Henriksen ed egregiamente suonato senza orpelli, sovraincisioni stratificate, giochi ad effetto, assoli roboanti e altri ammennicoli vari che avrebbero solamente affossato la semplicità di un songwriting adulto ma per nulla pretenzioso o autoreferenziale.
Le coordinate stilistiche si sono sensibilmente spostate rispetto alle precedenti uscite, per i lettori meno enciclopedici mi sembra doveroso rimembrare che il five piece capitanato da Claudio Matteo ha sempre fatto della melodia un segno distintivo ma sempre corroborata da chitarre taglienti secondo gli stilemi classici del genere (Leppard, Whitesnake versione Sykes, Gotthard o anche Vengeance e Lion) ed invece eccoci ritrovati malandrini ad ascoltare un unisci-cella tra il Bryan Adams formato Mutt Lange, gli Stage Dolls dell’omonimo platter, i The Cab oppure ancora i  Panic! At The Disco.

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Fate – If Not For The Devil – Recensione

Ho voluto fortemente questo disco. Ho ferocemente lottato con unghie e denti affilati per decantare lodi, voli pindarici, arcobaleni fiammeggianti ed estasi mistiche di questo If Not For The Devil.
Perchè amo i Fate? Perchè ho un’affinità elettiva con la Danimarca? Perchè vengo profumatamente pagato? Nulla di tutto ciò!
Credo in realtà di avere ascoltato ad intermittenza il loro Cruisin’ for a Bruisin del lontano 1988 trovandolo plastificato, troppo zuccheroso e melodico, in una parola senza maroni.
A onor di cronaca devo anche ragguagliare gli ignari lettori che al tempo masticavo Queensryche per colazione, Voivod all’ ora di pranzo e Slayer come ninna nanna quindi il giudizio sul sopracitato pezzo di vinile (ebbene si!) era quantomeno viziato da un vizio di forma grande come il naso di Constant.
Che dire però: sarà perchè il fondatore del five piece, per inciso non più nella formazione, corrisponde al nome di Hank Sherman, storico chitarrista dei Mercyful Fate, sarà perchè (stupidamente) creato una realtà parallela nella quale Fate è sinonimo di musica di qualità pur non avendo mai approfondito la conoscenza,  sarà perchè onestamente non ho tutte le rotelle a posto ma mi sono avvicinato al full-lenght in questione colmo di buone speranze e animato da incommensurabile benevolenza…….insomma fazioso al 100%.
Alla prova dei fatti cosa ho trovato nel settimo pargolo sfornato dai danesi?
Con calma, con calma ragazzi!
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