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Recensione

70/100

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Loverboy – Unfinished Business – recensione

05 Settembre 2014 3 Commenti Luka Shakeme

genere: Melodic Rock
anno: 2014
etichetta: Autoprodotto

Tracklist:

01. Fire Me Up
02. Countin’ The Nights
03. Ain’t Such A Bad Thing
04. Come Undone
05. Slave
06. What Makes You So
07. War Bride
08. Doin’ It The Hard Way
09. You Play The Star
10. Crack Of The Whip

Formazione:

Mike Reno – voce
Paul Dean – chitarra
Ken Sinnaeve – basso
Doug Johnson – tastiere
Matt Frenette - batteria

 

Grande responsabilità per il sottoscritto nel recensire una band, i Loverboy, che soprattutto negli eighties rilasciò lavori non destinati solo ai cultori di rock melodico ma parliamo di dischi multiplatinati, passaggi Mtv e chi più ne ha più ne metta. Menzionerei l’omonimo “Loverboy” e “Get Lucky” su tutti e la collaborazione con il grande Mr Fairbairn (Bon Jovi, Aerosmith, Kiss, Ac/Dc, Poison, Scorpions). Per due decadi poca roba per i motivi più disparati e ora il ritorno con un lavoro completamente autoprodotto, “Unfinished Business”. Un disco che sembra un salto nel passato con tutti i pro e contro del caso e inizierei a parlarne.

Fire Me Up fin dalle prime battute mette in evidenza l’ugola raffinata, calda e potente di Mike Reno; a tratti sembra un tributo al Coverdale dei tempi migliori. Musicalmente nulla da dire; gran tiro, melodie accattivanti, chitarre graffianti ma lontane da una produzione moderna e tastiere pompose aprono il pezzo quel tanto che basta per dar respiro al tutto.
Countin The Nights è decisamente più pop-oriented. Uno di quei pezzi da ascoltare a tutto volume in macchina, in solitudine con un pizzico di malinconia. Insomma aor puro molto gradevole ma ho ascoltato di meglio. Ain’t Such A Bad Thing è al momento il mio pezzo preferito. Tastiere ancora una volta in primo piano a far la parte del leone pronte a enfatizzare melodie vocali degne del grande Brian Adams. Un pezzo da ascoltare più volte e non averne mai abbastanza. Come Undone è una delicatissima ballad che a dire il vero non colpisce nell’immediato, ricercata per certi versi ma non un capolavoro. Sia chiaro gli standard sono comunque alti ma i parametri di valutazione sono diversi rispetto a quelli utilizzati per una band di ragazzotti esordienti e in quel caso gli attestati di stima sarebbero decisamente diversi.
Slave è un hard rock carico di soluzioni blueseggianti anche se a dire il vero ho trovato il tutto un po’ confusionario con tanta carne a cuocere, come se la band volesse dimostrare a tutti i costi di saper suonare e di avere tante idee; anche la produzione non mi convince per niente. Sembra più una bonus track. Un mezzo passo falso a mio avviso. What Makes You So Special ripresenta un canonico Hard Rock con qualche spruzzatina pomp dettata dalle solite tastiere ancora una volta davvero incisive sui chorus a dir la verità non trascendentali. Pezzo asciutto e diretto in cui riesce a far breccia un bel solo di chitarra. Ripeto; se avessi scritto un lavoro del genere sarebbe stato un capolavoro, per una band della loro caratura è lecito aspettarsi di più. War Bride è la seconda ballad dai connotati più seventies. Niente cori in cui struggersi e poca immediatezza e in compenso una grande interpretazione di Reno ma ripeto non siamo di fronte alle classiche ballad pregne di zucchero tipicamente aor e il titolo rispecchia i toni drammatici del pezzo in questione. Una di quelle composizioni che le si apprezza solo con i ripetuti ascolti.
Doin’it The Hard Way a mio avviso uno dei pezzi più riusciti. Tanta energia positiva che solo il rock quando va a fondersi con il blues sa donare. Niente di mirabolante ma questa immediata semplicità ne conferisce assoluta gradevolezza. You Play The Star è una sorta di power ballad che risente ancora una volta di quel sapore seventies dato dall’utilizzo di keys ariose. Personalmente ho sempre preferito le scelte stilistiche dei “fiati” imponenti alla Europe che a quelle degli Asia per far capire ciò che intendo. A parte questa digressione che entra nel gusto personale fine a se stesso il pezzo in se non mi è sembrato ispiratissimo, oserei dire noioso.
Crack Of The Whip è pulsante e antemica e direi che in chiusura ci sta tutta. Uno degli episodi più riusciti del disco e forse per concezione e arrangiamenti quello più sperimentale e progressive il che mi porta a farmi riflettere sull’intero platter e su quante frecce al loro arco avrebbero potuto avere i LoverBoy se avessero avuto una maggiore continuità artistica.

IN CONCLUSIONE

Un lavoro che, da quello che ho potuto intuire, aveva il fine di riuscire a metter d’accordo un po’ tutti. La band canadese ha dimostrato ancora una volta che un discorso musicale è preferibile non interromperlo o quantomeno non cercare di recuperare il tempo perduto mettendo nel calderone delle composizioni tutte le emotività, le influenze e in generale le idee accumulate negli anni. Un lavoro altalenante ma privo di un’identità ben definita.

© 2014 – 2018, Luka Shakeme. All rights reserved.

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