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Pretty Maids – Louder Than Ever – Recensione

14 Marzo 2014 21 Commenti Alessio Minoia

genere: Hard Rock
anno: 2014
etichetta: Frontiers Music

Tracklist:

01. Deranged (new song)
02. Playing God
03. Psycho Time Bomb Planet Earth
04. My Soul To Take (new song)
05. He Who Never Lived
06. Virtual Brutality
07. Tortured Spirit
08. With These Eyes
09. Nuclear Boomerang (new song)
10. Snakes In Eden
11. Wake Up To The Real World
12. A Heart Without A Home (new song)

Formazione:

Ronnie Atkins: Vocals
Ken Hammer: Guitar
Rene Shades: Bass
Allan Tchicaja: Drums
Morten Sandager: Keyboards

 

Partiamo dalla terra ferma: Amo i Pretty Maids.
Sono stato uno degli sparuti metalhead che, nell’ anno di grazia 1987, girava orgoglioso (o orgoglione fate voi) per le lande meneghine agitando la sua copia in vinile di Future World decantando e sperticando lodi, lodi e ancora lodi per una misconosciuta band scandinava. Le nove track di quel masterpiece sposavano la fisicità e l’impatto dei metal act più duri e puri dell’epoca alla melodia di un AOR testicolato non dimenticando però il retaggio di piante secolari come Rainbow e Deep Purple. La produzione asciutta e scintillante a firma Eddie Kramer faceva il resto.

Sono rimasto piacevolmente affascinato anche da quello che ne è seguito, una lunga carriera con comprensibili up and down ma anche e soprattutto onorata da una sterminata serie di uscite mai sotto il livello di guardia qualitativo, tutte puntuali, tutte ottimamente suonate, tutte egregiamente prodotte, dal songwriting con un occhio alla tradizione ma sempre pronto allo slancio emotivo verso ciò che rappresentava il contemporaneo. La cartina di tornasole è veritiera proprio analizzando la set-list in sede live del quintetto, degnamente ripartita tra ciò che è stato e ciò che è, tra pietre miliari e nuove entusiasmanti gemme, insomma, per tagliare corto, una band che ha avuto sempre redini salde nelle impavide figure di Ronnie Atkins e Ken Hammer, da sempre rispettivamente voce e chitarra in casa Maids.  Jump The Gun, Sin Decade, Scream e Pandemonium sono per il sottoscritto totem da rispolverare, ri-ascoltare ed ri-assaporare ad intervalli regolari, proprio come accade per una buona bottiglia di Porto, ma…right here right now si staglia all’orizzonte un nuovo capitolo.

Louder Than Ever non è un’operazione nostalgia. Louder than Ever non è un nuovo album griffato Pretty Maids. Louder Than Ever non è un Best Of. Urge presumo un extra time di chiarimenti per recepire, assimilare, comprendere le ragioni che hanno portato alla genesi di un album che anche il sottoscritto fatica a digerire compiutamente. Ma andiamo pedantemente con ordine.
Trattasi di dodici pezzi dodici splittati tra quattro brand new song e otto old stuff meno celebrate riacciuffate dal cilindro e nuovamente suonate ed editate (che tanto va di moda nell’ultimo lustro) nella trentennale discografia dei danesoni. La mente scorre veloce ad almeno un paio di operazioni come queste (Lynch Mob, Scorpions, Journey, Kiss tanto per non fare nomi). Empaticamente comprendo la volontà di vivere appieno questo momento di grazia con una ritrovata line up stabile, fiammante e rockeggiante. E comprendo pure la volontà di riassaporare e far riscoprire brani spesso nella penombra rispetto a monumenti del calibro di Savage Heart, Yellow Rain, Sin-Decade o Little Drops of Heaven tanto per rimanere su qualcosa di più recente. Non da ultima mi sembra giustificata l’esigenza/volontà di un Signor chitarrista come Hammer nel voler finalmente dar sfogo senza freni alla sua voglia di pigiare fino in fondo sull’ accelleratore nella riproposizione di fast e mid-tempo cattivi e incazzosi ma è proprio sulla qualità di quanto selezionato che non mi ci raccapezzo e che casca l’asino.

Se He Who Never Lived è catchy ma maestosa nell’incedere, Virtual Brutality Tortured Spirit, Playing God e Snakes in Eden  appaiono dopate, imbarbarite rispetto agli originali sfoggiando una preoccupante monotonia di fondo quasi fossero copie carbone di uno stesso canovaccio compositivo.
Detta pane e salame, in Louder Than Ever (come il titolo ci ha voluto anticipare) è la componente melodica che è purtroppo finita in soffitta, le stesse nuove creature per l’occasione concepite fanno fatica a farsi largo nella mente e nel cuore di chi scrive tra le badilate dell’opener Deranger e del sufficiente tellurico primo estratto Nuclear Boomerang.
Si salva dal magma il solito soffio di vento caldo a titolo My Soul To Take, memoria di quelle qualità che hanno reso i Maids ciò che sono nel panorama hard rock attuale considerato che la conclusiva A Heart Without a Home è solo la porta socchiusa per ciò che sarebbe potuto essere con maggior compiutezza e hard working.
Il voto pertanto (sia ben chiaro) è alla release, onestamente inutile di questi tempi di lacrime e sangue, sfuocata negli obbiettivi e forse ben più indicata nel fungere da bonus disc in occasione di un nuovo degno capitolo.

IN CONCLUSIONE

Un passo falso in una discografia senza macchia e senza paura non è peccato mortale.  Louder Than Ever è una notte passata con una vecchia fiamma il cui energico restyling chirurgico ha lasciato il segno. Un disco per gli afecionados, per gli irriducibili ma anche una meteora che cadrà (a mio borioso parere) nel dimenticatoio seduta stante. Naturalmente negherò di averlo mai detto nel caso in cui non dovesse essere così. Scrivo o non scrivo recensioni?

© 2014 – 2018, Alessio Minoia. All rights reserved.

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